Funzioni materne e funzioni paterne a casa e al nido: primi elementi per una riflessione

(Vi proponiamo questo nostro lavoro del ’96, come contributo alla discussione sul maschile e femminile oggi, a Reggio Emilia: Dino Angelini e Deliana Bertani)

Funzioni materne e funzioni paterne a casa ed al nido: primi elementi per una riflessione.

di Leonardo Angelini e Deliana Bertani

Parma, 31.1.96

1. La cogestione educativa: un modello emiliano di educazione moderatamente policentrica

Sono ormai 25 anni che, nella regione Emilia e Romagna, viene sperimentato un modello di educazione policentrica precoce (famiglia + nido) che va modificando, in maniera silente, ma non per ciò ininfluente, molte cose sia a livello individuale, nei bambini di oggi e di ieri che hanno frequentato il nido, sia a livello familiare e sociale.

Abbiamo definito in un precedente lavoro ([1]) il modello emiliano come modello moderatamente policentrico, e qualchedun altro, prima di noi, ha battezzato questo modello  col nome di “cogestione educativa“.

La cogestione educativa è caratterizzata, fra l’altro,   dalla permanenza della posizione centrale della coppia genitoriale nell’educazione precoce del bambino “cogestito”, e dalla integrazione delle funzioni genitoriali, che continuano ad essere svolte in famiglia da parte della coppia genitoriale, attraverso l’azione educativa che voi educatrici esercitate nel nido.

Finora, a nostro avviso, ciò che deriva da questo importante cambiamento sul piano della socializzazione precoce del bambino non è stato studiato a sufficienza.

All’inizio anzi da più parti, specialmente in ambito psicoanalitico, l’introduzione di questa novità, che come sappiamo era legata ad altri irreversibili cambiamenti che andavano avvenendo nella società e nella famiglia, era stata paventata da alcuni come possibile portatrice di danni, anche gravi, per la psiche del bambino.

Vi era in quelle posizioni una paura nei confronti del nuovo, figlia di una ipostatizzazione del modello monocentrico di educazione precoce (quello che è basato, almeno all’inizio, sul rapporto esclusivo bambino-madre), che veniva visto come unico modello di socializzazione e di inculturazione nella prima infanzia.

Si trattava, lo sappiamo, di un falso storico, o meglio di una negazione della storicità delle forme concrete con cui vengono esercitate le funzioni genitoriali nelle varie società, di una confusione fra i due termini di ruolo e di funzione e fra i concetti sottostanti a questi due termini.

Si trattava, cioè, in ultima istanza, di una visione ideologica del nido. Non per niente di fronte ai modelli assistenziali e sanitarizzanti di nido precedenti alla nascita dei nidi comunali (parliamo dei nidi ONMI o di quelli aziendali) nessuna di quelle voci si era levata di fronte alla pericolosità, quella si, accertata, di quei modelli di socializzazione precoce che, proprio per il fatto di non perseguire obiettivi di integrazione sul piano educativo, si ponevano su di un piano di discontinuità con le famiglie.

La cogestione educativa invece è qui fra noi, da 25 anni, è il modello che ha informato la crescita dei nostri figli, ed ha in voi educatrici le co-protagoniste che insieme ai genitori svolgono, sul palcoscenico dell’educazione precoce del bambino, funzioni genitoriali di tipo integrativo di quelle che a casa svolgono i genitori stessi: funzioni materne, quindi, e funzioni paterne che è ora di studiare più da vicino.

Quella che tenteremo oggi, però, è solo una esplorazione “a volo d’uccello” sul problema, cercando di avvalerci, da una parte della nostra esperienza ([2]), dall’altra della ricchissima bibliografia che ci permette di attingere alle ricerche e alle riflessioni che, specie in ambito femminista ([3]), vanno ri\esplorando il concreto dispiegarsi sulla scena sociale e domestica della dialettica fra uomo e donna, ed in particolare fra funzioni paterne e materne, dall’altra, infine, delle ricerche che sono state fatte in ambito etnoanalitico,storiografico,etnologico sul maternage multiplo e sull’influenza che i vari tipi di famiglia esercitano sul piano educativo([4]).

2. Funzioni materne al nido

Consideriamo innanzitutto le funzioni materne, che sono tra l’altro le più evidenti.

Le principali funzioni materne svolte al nido, a nostro avviso sono:

a)  La funzione di contenimento: la vediamo nella gestione, da parte dell’educatrice, dei momenti di separazione, cioè del momento dell’arrivo al nido, quando il bambino piange e non vuole lasciare il genitore ; nell’uso e nella comprensione dell’oggetto transizionale ; nel momento dell’uscita, quando spesso il bambino non vuole interrompere i suoi giochi o piange o scappa per la sezione e la madre vive tutto questo come un rifiuto; nella gestione dei momenti di routine, quali il sonno, il pasto, il cambio.

b) La funzione di parametro nel processo di identificazione: la vediamo nella gestione di tutti i momenti in cui si definiscono, grazie all’attività dell’educatrice, i confini corporei del bambino, intesi in un primo momento come scoperta del proprio corpo e poi di quello dell’altro come distinto da sè (cambio, prendere in braccio, lasciarsi toccare, esplorare, gioco autocosmico, etc): La vediamo, inoltre, nelle attività dell’educatrice che favoriscono l’acquisizione, da parte del bambino, delle prime dimensioni temporali e spaziali della propria identità (nell’attività di gioco, nel pasto, nell’addormentamento e nel rissveglio, etc.)

c) Andrebbe tra l’altro meglio considerata e approfondita la probabile maggiore capacità, sul piano funzionale, delle educatrici, rispetto alle madri, di gestire la fase in cui il bambino comincia , prima  carponi, poi camminando ,apraticare il mondo“, una capacità che deriva dalla possibilità di  sintonizzarsi più facilmente col bambino su di un piano di  identificazione operativa piuttosto che su quello di una identificazione totale che molto facilmente la madre, appena uscita dalla simbiosi con il proprio figlio, rischia di mettere in atto.

Una possibilità potremmo dire più tranquilla di gestire  “la prima andata del bambino verso il mondo” ([5]) e il suo successivo riavvicinamento: cioè, nel contempo, la sua spinta verso l’autonomia e l’indipendenza, da una parte, e il desiderio di non rinunciare alla dipendenza, dall’altra.

Possiamo dire che la presenza dell’educatrice è un supporto alla esigenza di riavvicinamento del bambino che non significa regressione o conflitto di rivalità ,ma nuovo livello raggiunto nello sviluppo dell’individuazione.?

Possiamo dire che l’attività integrativa che l’educatrice svolge nell’esercizio delle funzioni materne accresce le possibilità del bambino di procedere lungo le sue tappe di crescita psicologica con maggiore fiducia nell’uso delle sue parti più autonome?

Possiamo ipotizzare che l’educatrice dia  una sorta di sostegno alla funzione di triangolazione che il padre svolge a casa?

Certo è che avere  relazioni di diverso tipo con due persone, come avviene nella cogestione educativa, significa per il bambino imparare a costruire con maggiore chiarezza se stesso e la madre e a costruire distinte rappresentazioni del sè e degli oggetti.

Ma perché ci possa essere questo è necessario che si delinei fra bambino, genitori ed educatrice quella che Winnicott descrive come “cross identification”, cioè una situazione di identificazione reciproca nella quale il bambino possa acquisire, mediante una graduale interiorizzazione di questo atteggiamento della madre, del padre e dell’educatrice, una capacità di identificazione e di immedesimazione più differenziata.

Ovviamente questo avviene solo se al nido è garantita una sufficiente continuità nel rapporto,  un rapporto sufficientemente caldo e ravvicinato con l’adulto, un rapporto cioè pieno di passione, di odio, di amore, di invidia, di rabbia, di gelosia, di gratitudine. Ed è proprio nella capacità di sentire e in un qualche modo gestire questi sentimenti e queste emozione che è possibile cominciare ad intravedre quelle che sono le funzioni materne integrativa che voi educatrici di nido svolgete, funzioni che, al contrario di quelle delle vostre colleghe di scuola per l’infanzia -che sono già abbastanza distinte e complementari a quelle della famiglia- sono, come abbiamo già visto sovrapponibili, simmetriche a quelle materne (e come vedremo fra un pò anche a quelle paterne).

c) vi sono infine la funzione di consolazione, che è la capacità da parte dell’adulto del nido di ricreare sempre nella quotidianità quella illusione di onnipotenza  che c’era nella simbiosi primaria

e) e funzioni di accudimento legate alle routines, di cui già abbiamo parlato, e che, se fatte all’interno di un rapporto ravvicinato e caldo, tanto contano nel processo di individuazione del bambino e di costruzione di un’immagine di sè.

3. Ruoli e funzioni nel processo educativo

Poiché, come avrete già notato, la nostra riflessione sarà incentrata sul concetto di funzione, più che su quello di ruolo, o meglio sulla distinzione fra i due concetti, ci è sembrato opportuno accennare alle differenze che ci sono fra essi, altrimenti si rischia di non comprendersi.

Quando si parla di ruolo ci si riferisce alla posizione di singoli individui all’interno di un sistema sociale ed all’insieme delle  norme e delle aspettative che ci si attendono da quell’individuo in quanto occupante il tale o il tal’altro ruolo.

Ad esempio sul piano educativo, all’inizio del processo di socializzazione del bambino, in connessione con la posizione della madre, ci saranno un insieme di aspettative e di norme secondo le quali si declina il ruolo materno sul piano delle esigenze di contenimento del bambino.

Quando invece si parla di funzione ci si riferisce al contributo particolare fornito da una parte della struttura sociale, vista nel suo complesso, per il perpetuarsi o per la trasformazione del sistema sociale o di una sua porzione.

Ad esempio sul piano educativo, e sempre a proposito del contenimento, partire dalla funzione di contenimento significherà, non più riferirsi ai ruoli, ma a come viene esaudita questa importante funzione del processo di socializzazione, in un contesto specifico, dalle varie parti che oggettivamente la svolgono.

Nel nostro caso, e cioè nel caso della cogestione educativa, partendo dai ruoli noi avremmo una elencazione delle aspettative e delle norme che ci si attende dalla madre, dal padre, e da ogni singola educatrice del nido.

Partendo dalle funzioni noi siamo invece in grado di vedere tutta la novità, la sperimentalità, la rivoluzionarietà del nostro modello moderatamente policentrico che è nel concorso di più soggetti nell’assolvere oggettivamente, ad esempio, alla funzione di contenimento, nonchè ad altre funzioni genitoriali, secondo un criterio di gerarchia di interessi, che nel contempo salvaguardia le esigenze di continuità educativa (di ristrettezza ([6]) della rete educante, in questa fase iniziale dell’educazione del bambino, direbbe Parsons), e di ridistribuzione della cura secondo i cambiamenti intervenuti nella società, dall’altra.

La cogestione educativa in questo modo ci appare per quello che è: e cioè come il risultato di un processo di cambiamento che sta avvenendo sia nella posizione della donna, e della donna-madre in particolare, sia nella famiglia e nella società, in un momento altrettanto specifico della nostra realtà sociale.

Qualora, di fronte a questi cambiamenti, il nostro punto di osservazione fosse solo quello che parte dall’analisi dei ruoli,  noi, laddove c’è un così nuovo e particolare intrico di funzioni, finiremmo per vedere solo una sommatoria di norme e di aspettative dei singoli individui, perdendo di vista il legame funzionale che dinamicamente si sta definendo nel sistema educantedella nostra società, oggi.

Di fronte alla nuova identità femminile, la cogestione educativa è una risposta pratica, reale, non ideologica ad un enorme problema, l’educazione del bambino piccolo che richiede continuità e calore da parte di chi si prende cura del bambino, da una parte, e ridistribuzione delle funzioni che venivano tradizionalmente svolte dalla donna, e particolarmente dalla madre, dall’altra. Una ridistribuzione che non può che avvenire in un piccolo cerchio di soggetti.

Una risposta pratica si diceva, un piccolo grande esempio di ingegno padano nel risolvere i problemi.

Non utopia, non ideologia ( le comuni infantili, i kibbuz ecc..) ma piccole grandi soluzioni che non buttano per aria niente, che non rivoluzionano ma riformano -evidentemente il riformismo è nel nostro DNA, speriamo che non si sia troppo diluito!!!).

D’altra parte la famiglia allargata, quindi l’educazione nella famiglia allargata e la conseguente distribuzione di funzioni, fa parte della nostra tradizione. Fino a venti trent’anni fa, e ancor oggi nelle realtà contadine, il ruolo materno era spontaneamente articolato in funzioni ( mentre la manna era nei campi, la donna che stava in casa si occupava dei bambini di tutti coadiuvata dai vecchi, e da tutti coloro che non potevano per varie ragioni lavorare fuori).

Potremmo dire che quella di oggi è una soluzione adatta ai tempi.

Peraltro l’immagine della famiglia nucleare come modello in cui tutte le funzioni materne sono assorbite dalla sola figura della madre, è un’immagine idealizzata, borghese della famiglia, corrispondente ad una fotografia reale della famiglia nella quale però ,non dimentichiamolo, in un cantuccio spesso c’erano la balia e la governante!

4. Child bearers e child rearers\ portatrici di bambini e allevatrici di bambini

Molti equivoci, molte trappole in cui cadiamo allorchè parliamo di  funzioni materne sono dovuti al fatto che l’immagine della madre, le rappresentazioni materne, gli introietti materni sono dentro di noi (donne e uomini, indistintamente) un crocevia fra natura e cultura in cui aspetti biologici e sociali connessi alle funzioni materne sono avviluppati in un intrico, all’interno del quale è difficile distinguere il primo dal secondo versante.

Se noi, come ci suggeriscono alcune femministe americane ([7]), distinguiamo fra funzioni da child bearers e funzioni da child rearers, cioè fra funzioni collegate alla gestazione, intesa in termini puramente biologici, e funzioni collegate con l’educazione, intesa in termini psicosociali, se noi facciamo questo ci poniamo nella possibilità di fare delle importanti distinzioni che, a nostro avviso, possono essere un primo elemento per riconsiderare con maggiore autoconsapevolezza l’azione educativa svolta dalle educatrici del nido sui bambini piccoli loro affidati.

La Firestone e della Johnson sono state spinte a fare questa importante distinzione -che, non dimentichiamolo, è una distinzione di funzioni, e non di ruoli- per sgravare le donne almeno dal peso dell’allevamento della prole, visto che (ancora) non è possibile liberarle dalla “maledizione biblica” della gestazione. Il loro è un movimento “espulsivo” tendente a rimettere in circolo, sul piano sociale, le funzioni educative che, soprattutto nei confronti dei bambini piccoli, sono tuttora sostanzialmente a carico delle donne, anche nelle società opulente.

Ma se noi utilizziamo questo ragionamento all’interno della riflessione sulla cogestione educativa e consideriamo sotto questo aspetto le funzioni educanti che nel nido sono svolte dalle educatrici (cioè a dire il cuore del loro lavoro) vediamo che quella delle educatrici, sul piano storico, qui da noi diventa la soluzione pratica -non a caso inventata e fortemente voluta dalle donne- che è stata trovata per distinguere fra child bearers e child rearers in un momento in cui le due funzioni,  solitamente concentrate dall’ideologia mashile nella sola figura materna, per ragioni d’ordine sociale, rischiavano, almeno in alcuni strati sociali, di definire un campo di tensioni, nella donna, pericoloso e, per certi versi, insostenibile.

Cosicchè qui da noi, da una parte le funzioni biologiche collegate alla maternità sono rimaste alla madre, dall’altra quelle sociali (la funzione di contenimento, il definirsi come parametro del processo di separazione-individuazione, etc.) sono state distinte e suddivise, in base a questa distinzione, almeno fra madre ed educatrice.

Era questo, in fondo, che chiedevano i movimenti femminili che per tutti gli anni 50 e 60 hanno fortemente voluto i nidi (e le materne) come strutture educative e non assistenziali o sanitarie.

Concludendo su questo  punto questo, a nostro avviso, potrebbe essere un primo terreno di approfondimento: vedere se e come dinamicamente  avviene questo processo di distinzione e di suddivisione delle funzioni materne fra nido e casa, che sappiamo essere all’origine di tante tensioni fra educatrici e madri.

Infatti, come si diceva sopra, per l’educatrice di nido non c’è un ruolo socialmente definito, a differenza della scuola per l’infanzia e della scuola elementare, la figura educativa e la figura genitoriale non sono complementari ma sono simmetriche perché fanno le stesse cose, soprattutto nei primi due anni  di vita del bambino.

E questo può ingenerare conflittualità, rivalità, invidia etc -lo abbiamo ritrovato in tutti i gruppi di educatrici centrati sul rapporto con i genitori, ma anche in quelli centrati sul bambino,che abbiamo fatto in questi anni ([8]).

E’ difficile fare cogestione educativa: implica riflessione su di sè, comprensione di come si stanno giocando le funzioni materne, consapevolezza di quelle che sono le emozioni che si producono in noi e nell’altro. Occorre cioè negoziare continuamente gli spazi reciproci, e questa è una capacità che devono avere contemporaneamente le educatrici di nido, così come i genitori che eecidono di affidare loro i propri figli.

5. La definizione di uno spazio negoziato: funzioni paterne e nido

Mentre nel caso della madre funzioni biologiche e funzioni sociali connesse con la maternità sono strettamente collegate, nel caso del padre le funzioni biologiche sono circoscritte, in ultima istanza, al concorso nell’atto della procreazione. Ciò fa si che, diversamente da quanto avviene nel caso della madre, le funzioni paterne non si pongano affatto, in alcuna cultura, come crocevia fra natura e cultura.

Per i padri quindi diviene importante tutto ciò che avviene a livello fantasmatico, cioè a livello del mondo rappresentazionale, al livello delle immagini di paternità che sono dentro di lui, come prodotto esse stesse dell’educazione ricevuta ed, in ultima istanza, di tutta l’esperienza fatta dal padre fino al momento in cui decide interiormente di disporsi sul piano della paternità.

Questo distacco iniziale del padre dagli aspetti più biologici della propria paternità viene poi elaborato in maniera diversissima in ogni cultura ([9]), ma sempre in modo tale da mantenere le distanze dalle funzioni biologiche (che possono al massimo essere esorcizzate come avviene nella couvade).

Ma, come dicono D.Naziri e Th.Dragonas ([10]), “se la condizione preliminare per effettuare il passaggio alla paternità consiste nella possibilità che l’uomo ha di esercitare la funzione paterna (solo) a livello simbolico, il vissuto della paternità resta in questo modo legato alla modalità con la quale l’uomo rivendica, modifica ed occupa lo spazio paterno a livello delle relazioni fra partners, sia prima che dopo la nascita del bambino”, ed alle modalità con cui la partner è disposta a concedere, o meno, questo spazio ed a modificarlo, o meno, insieme a lui; ed entrambe sono legate, come già sappiamo, al tipo di “sistema rappresentazionale” che entrambi i partners sono andati definendo dentro se stessi in base ai loro introietti paterni e materni, maschili e femminili, etc.-

La funzione paterna così, affermano la Naziri e la Dragonas, si pone all’interno di un campo di tensioni, in cui la negoziazione con la partner è l’elemento centrale.

“La maternità è un dato, la paternità è un dovere”, “la madre costituisce sempre un qualcosa che c’è (un étant), il padre non può che darsi da fare per essere ( pour etre)”.

Su questa base si definiscono, nel modello monocentrico, le funzioni paterne.

Ma nel modello policentrico e, più in particolare, all’interno del modello emiliano di cogestione educativa come si definiscono le funzioni paterne (e cioè l’inserimento del nuovo nato all’interno di una tradizione, la definizione di una legge, la spinta ad uscire dall’abbraccio con la madre, etc.)?

Noi intuiamo che, nella suddivisione dei compiti fra coppia genitoriale e nido, così come avviene per le funzioni sociali materne, ci sia una tendenza di tipo integrativo anche per quelle paterne, ma non sappiamo come, in concreto, avvenga la negoziazione dello spazio paterno nel nido nella dialettica fra le educatrici.

Possiamo fare l’ipotesi che essa si determini in modo similare a quanto avviene a casa fra i due genitori, e cioè come il prodotto di una dialettica fra partner della sezione che si mettono in gioco, su questo piano, attraverso la messa in scena delle proprie parti paterne e materne, maschili e femminili, etc.-

Ma non sappiamo in base a quali istanze intrapsichiche ed interpersonali, in ciascuna delle educatrici, e nella dinamica gruppale del collettivo, si addensino, più o meno dinamicamente, più o meno stabilmente, le funzioni materne e quelle paterne di fronte a questo o a quel bambino, in questa o in quella educatrice.

Questo, a nostro avviso, potrebbe essere un altro terreno di approfondimento: vedere meglio come le funzioni materne e paterne sono giocate nel nido dalle singole educatrici, cioè come ciascuna di voi si dispone ad assumere su di sè le une e le altre funzioni, come infine tali funzioni si dispiegano all’interno del collettivo definendo uno spazio materno e paterno più o meno negoziato, più o meno “usurpato”, più o meno lasciato nel vuoto.

6. Funzioni genitoriali: “il passaggio del testimone” da una generazione all’altra a casa e nel nido

Lo spazio genitoriale, però, sia che esso sia un “dato” -come avviene per quello materno-, sia che debba essere “conquistato” in una negoziazione fra partners -come si verifica nel caso di quello paterno-, è uno spazio storico, nel senso che è determinato sul piano temporale dal variare, da una generazione ad un’altra, della natura e del rilievo che i vari introietti, le varie immagini di madre e di padre hanno, nei vari contesti sociali e familiari in cui, in concreto, storicamente madri e padri, a loro volta, sono stati educati.

Tali introietti, tali immagini, quindi, non sono pietrificate in una specie di griglia astorica all’interno del mondo rappresentazionale di ciascuno di noi, sempre uguali a se stesse, quasi fossero dei totem intoccabili. Esse, al contrario, mutano e si adattano al variare delle condizioni materiali e spirituali (strutturali e culturali, direbbe un sociologo) che informano i vari tipi di società. Il meccanismo che ne determina il mutamento cioè è del tutto simile a quello che, più in generale, è alla base del mutamento della struttura e della “cultura” della famiglia.

In questa prospettiva, quindi, il passaggio dalla famiglia allargata alla famiglia nucleare e la funzionalizzazione di quest’ultima alle nuove esigenze della produzione, della riproduzione sociale (cioè della formazione della forza-lavoro), e, da ultimo, del consumo, appaiono come mutamenti strutturali coerenti con le nuove esigenze della società odierna. Così come, d’altro canto, ed al di là della autoconsapevolezza dei singoli, appaiono tutti i mutamenti che si determinano sul piano culturale nella famiglia in correlazione con questi mutamenti strutturali: pensiamo, per fare solo un esempio, a quanto sia diventato per noi ovvio il fatto che il mercato attuale “non solo crea gli oggetti per i soggetti, ma anche i soggetti per gli oggetti” (cioè al fatto che siamo diventati tutti degli ottimi consumatori), e subito dopo pensiamo a quanto tutto ciò fosse assolutamente fuori dell’ordinario in una famiglia contadina degli anni ’30 o ’40.

Come è possibile che, in una maniera che sfugge alla autoconsapevolezza di coloro che sono i protagonisti del mutamento, questo avvenga in una dialettica fra spinte e controspinte più o meno dolorosa, più o meno feconda?

Partiamo dal modello di educazione monocentrica: in questo caso la madre ed il padre si pongono dinamicamente in rapporto con i propri introietti genitoriali in base ad una dialettica fra Idem ed Autos ([11]): cioè fra parti proiettate in ciascuno di loro, e su loro due in quanto coppia genitoriale, dai propri genitori e dagli altri modelli importanti della loro vita (Idem) e parti che non sono riconducibili a nessuno di questi introietti (Autos), ma che con essi sono, fin dall’inizio della vita, in un rapporto di coniugazione più o meno ricca e feconda di novità. E’ in questa azione educativa che sono stati determinati gli elementi del proprio essere adulti, quelli che sono alla base del carattere dei figli, nonchè quelli che sono alla base del “carattere sociale” del nuovo nucleo che, insieme ai figli, essi vanno costituendo: la propria famiglia.

Passiamo ora alla cogestione educativa: in essa le proiezioni che sui propri bambini fanno i genitori si congiungono, si intrecciano con quelle che, sempre su quei bambini, fanno quelle educatrici dei nidi che non rinunciano a mettersi in gioco con tutte se stesse ed a non ridursi al ruolo di istruttrici.

Per cui nel modello policentrico (se questo modello, sul piano concreto, quello quotidiano non autoreferenziale non perché si dice e si è detto nei documenti, persegue fini educativi e non solo assistenziali), per la pluralità di proiezioni che sul bambino sono fatte, viene a costituirsi un vero e proprio campo magnetico in cui il bambino diventa il depositario di tutte le proiezioni che vengono sia dal versante familiare: madre, padre e coppia genitoriale, sia dal versante nido: le singole educatrici cui il bambino è affidato, nonchè il gruppo delle educatrici in quanto depositario di una propria storia gruppale che rientra a pieno titolo nello spazio genitoriale che comprende il bambino, se ne prende cura, lo contiene, lo riconosce come appartenente alla propria stirpe, etc, in una parola lo affilia.

Approfondire questi contenuti, a nostro avviso, significa:

-verificare fino a che punto vi è complementarità, negoziazione, o spinta alla usurpazione -“io lo so, te lo dico io quello che devi fare..-, oppure ancora rinuncia – fatelo voi a scuola perché a casa non imparerà mai a mangiare stando seduto..-, delega reciproca da una parte e dall’altra, fra famiglia ed educatrici;avere qualche possibilità in più di capire perché certi rapporti vanno male

-fino a che punto gli ideali professionali della singole educatrici e quelli che storicamente si sono definiti nel nido sono compatibili con quelli delle famiglie; questo problema diventerà sempre più acuto con l’aumento dell’immigrazione e con la pluralità delle culture che questa sempre di più comporterà.

-fino a che punto l’educatrice ed il gruppo delle educatrici è portatore di un cambiamento e, nel caso, di quale cambiamento si tratta;

-e fino a che punto, d’altro canto, la sovrapponibilità degli introietti (e delle in\lusioni gruppali, direbbe Anzieu) da veicolo di fecondo dialogo fra famiglia e nido può trasformarsi in scontro e in\comprensione.

7.Il concetto di genere ed il pensare storico al femminile come due approcci teorici apportatori di feconde novità sul piano dell’educazione del bambino e della bambina

Il concetto di genere è un’architrave del pensiero femminista, specialmente del pensiero femminista americano, in base al quale ogni aspetto della quotidianità è stato rivisto, ogni pensiero, non solo quello sul maschile e sul femminile, è stato messo in crisi. Questo grimaldello teorico si rivela cioè un concetto teorico molto importante in base al quale è possibile sottoporre ad una revisione critica tutto il pensiero umano attuale e passato, svelandone la sua matrice maschile, sessuata.

Come era ovvio anche tutto il problema del percorso concepimento, gestazione, nascita, educazione è stato profondamente rivisto, e, potremmo dire, ribaltato alla luce di questo concetto (ad esempio la distinzione, che già abbiamo utilizzato in questa relazione, fra la funzione biologica della madre come portatrice di bambini e quella sociale di allevatrice di bambini è figlia di questo modo di pensare al femminile).

Diventa importante perciò prendere posizione sul concetto di genere. E’ quello che cercheremo di fare ora per sommi capi, rimandando chi volesse saperne di più alla ricca bibliografia che ormai esiste anche in italiano sul tema ([12]).

Che ci sia la necessità di ri\pensare tutto al femminile è un’idea che percorre il pensiero femminile fin da quando le donne si sono poste in maniera autonoma a pensare a se stesse ed al mondo. Che il pensare al femminile coincida con il pensare a partire dal concetto di genere è invece, a nostro avviso, opinabile.

Cerchiamo di vedere per ora brevemente il perché di questa nostra asserzione, rimandando a dopo ciò che ne consegue sul piano educativo.

Il concetto di genere veniva già usato in vari contesti, e continua ad esserlo, come collegato ad un dato biologico, mentre per indicare il dato sociale corrispondente a quello biologico di genere, si usava e si continua ad usare, ad esempio in ambito psicoanalitico, storiografico, etc., il concetto di sesso. Su questa base, ad esempio, si definisce la differenza, in psicoanalisi, fra identità di genere ed identità sessuale.

Per le femministe americane, invece, la parola genere, viene riferita non più ad un dato biologico, ma ad un dato che potremmo definire di umanità astratta, cioè non determinata socialmente e culturalmente dalle esigenze specifiche, particolari di questa o di quella società, ma in astratto, in generale al fatto che in tutte le società il pensiero prevalente finora è stato quello corrispettivo al genere maschile, e quindi ad esso va contrapposto un pensiero femminile che, così, però diventa il negativo altrettanto astratto di quello maschile.

A fianco a questa ideologia femminista, però, si va definendo un pensiero femminile più sensibile ai dati storici,  un pensiero che, ad esempio, è in grado di definire anche se stesso sul piano storico ([13]).

Il tentativo della Mitcherlich di sottoporre a critica storica non solo le immagini che della femminilità hanno avuto le stesse donne, ma anche le teorie che, in ambito scientifico, sono state elaborate, ad esempio,  dalle psicoanaliste sull’evolversi della sessualità maschile e femminile è, per esempio, un tentativo di tirar fuori il pensiero femminile dalle secche dell’astrattezza e di farlo camminare con i piedi ben piantati nella storia.Interessante è ad esempio la spiegazione psicologica che propone del movimento studentesco della fine degli anni sessanta e del revival ,sempre di quegli anni del movimento femminista.

Le promotrici erano donne nate per lo più negli anni quaranta donne che avevano in mente un modello di madre molto indipendente,le donne che durante la guerra avevano saputo imporsi e tirare avanti la situazione dentro e fuori la famiglia.I padri invece non c’erano oppure al ritorno dalla guerra erano degli uomini finiti ( si riferisce alla _Germania).

Erano donne poi che insieme alle stesse madri avevano vissuto la regressione degli anni 50,la restaurazione della famiglia. Queste donne si impegnarono non solo per un meccanismo di identificazione con la brava madre ma anche per raggiungere una maggiore indipendenza interiore da lei,unica educatrice e quindi possibile fonte di sentimenti d’odio e di relativi sensi di colpa.

E’ sempre la Mitscherlich che sottolinea come nella nostra società,in cui la famiglia ristretta ha un ruolo centrale e la madre si sente in colpa perché lavora e affida i figli ad altre donne o al nido,e in cui il padre per i primi anni non partecipa alla loro educazione in una tale società, è inevitabile che i figli sviluppino un’enorme dipendenza .

Sul piano educativo, qualora si parte dall’astrattezza del pensiero femminista americano, pur potendo fruire di nuovi punti di osservazione per una revisione sessuata del processo di individuazione nel bambino e nella bambina (cosa che del resto era stata già fatta egregiamente in Italia, all’inizio degli anni ’70 dalla Giannini Belotti ([14])), non si riesce a cogliere la particolarità di questa o quella struttura familiare, di questo o di quello stile sessuato di inculturazione, etc.

Qualora si parta, invece, da una visione più attenta alle componenti spaziali e temporali dei vari contesti educativi è possibile fare, ad esempio, operazioni quali quelle della Mitcherlich che ridefinisce tutto il percorso maturativo del bambino non solo al maschile ed al femminile, ma anche sul piano storico.

Indicazioni per un approfondimento:

-Verificare se e come a casa, nella madre, e al nido, nel gruppo delle educatrici, sta avvenendo, nei fatti, un processo di soggettivazione che comporti l’emergere di un pensare storico al femminile;

-verificare in ogni caso come si declina dentro di voi ed a casa, fra i due partner, il rapporto fra aspetti maschili e femminili del carattere, e fra aspetti maschili e femminili inconsci;

-verificare infine come si stia modificando il sistema di inculturazione di questi tratti da parte del bambino, secondo quale discrimine, direbbe Winnicott ([15]), stia avvenendo dentro al bambino ed alla bambina il clivaggio (cioè la cesura) fra parti maschili e parti femminili ed il dialogo interno fra queste due parti.

8. L’influenza che il permanere in una situazione di passaggio perpetuo alla paternità ed alla maternità comporta sul burn out della educatrice di asilo nido

La Dragonas e la Nazirei, parlando dell’ingresso dell’uomo nel mondo dei padri, definiscono questo importante momento dell’età adulta come “passaggio alla paternità”.

Allo stesso modo potremmo dire che anche il momento in cui la donna si appresta a diventare madre per la prima volta potrebbe essere definito come “passaggio alla maternità”.

Resta inteso però che, in un caso e nell’altro, questo importante passaggio -che spesso corona il nostro diventare adulti (e che sul piano simbolico, per chi sceglie di non avere figli, è definito da un’attività creativa e (ri\)produttiva)- è contraddistinto da una prospettiva di sviluppo e di trasformazione delle funzioni connesse con la genitorialità che fanno si che sulla scena familiare i protagonisti si vengono a trovare di fronte ad un canovaccio in continua trasformazione per gli elementi di novità connesse con la crescita dei figli, con le loro sempre più imperiose richieste di autonomia, con le loro effettive conquiste, con il nostro rispecchiarci nell’uno o nell’altro aspetto di noi che vediamo, o non vediamo, in loro, con il nostro invecchiare, etc.

Nel nido, però, così come in una qualsiasi altra attività formativa, l’educatrice si trova in una situazione di blocco, che può essere più o meno compensata dalle proprie altre funzioni sociali riproduttive, ma che rimane, a nostro avviso, e pesa come un macigno sull’equilibrio psichico delle educatrici: si ha a che fare per una vita sempre con le stesse funzioni genitoriali, nel caso del nido con quelle connesse con le prime esigenze di crescita psicologica del bambino.

Questo connota il lavoro delle educatrici in maniera del tutto specifica rispetto a quello dei genitori e può diventare usurante.

La Benedek ([16]) sostiene che, durante la crescita del bambino, i genitori hanno la possibilità di vedere rispecchiate in lui varie parti di se stessi, e sostiene altresì che, a seconda di come sono stati vissuti da loro stessi, nella loro infanzia, quegli elementi che ora vedono riflessi nel loro bambino, si sentiranno più o meno a loro agio nel processo educativo.

Nel caso delle educatrici di nido, e più in generale in tutti gli educatori, la riflessione della Benedek potrebbe, a nostro avviso, essere ridefinita in questi termini: il burn out, e cioè l’usura sul lavoro sarà più accentuata laddove all’interno della propria storia personale le prime fasi della propria vita siano state travagliate e penose. In ogni caso però la situazione di blocco su determinate funzioni genitoriali merita un’attenzione particolare sia per i vantaggi che ne possono derivare sul piano della competenza e della sicurezza nell’affrontare sempre le stesse funzioni, sia per il dis\incanto ed il fastidio che, specie in alcune operatrici, può prima o poi sopraggiungere.

Va detto anche, però, che in un gruppo di educatrici che lavorano a lungo insieme e che sono accomunate dalla stessa in\lusione gruppale, cioè dagli stessi ideali (magari solidificati e vivificati da una direzione pedagogica attenta e lungimirante) è possibile che un profilo di crescita nelle funzioni genitoriali sia possibile non tanto rispetto ai bambini, ma rispetto al gruppo stesso, alle nuove arrivate, alle migrazioni interne, cioè ai nuovi accoppiamenti che è possibile metter in piedi al fine di coniugare (nel senso di congiungere) nuove “famiglie” in nuovi progetti di vita istituzionale.

I problemi che su questo piano è possibile affrontare, come è già implicito in quanto fin qui detto, sono quelli della risoluzione del burn out, quelli della pianificazione degli accoppiamenti e dei “divorzi”, quelli delle operazioni possibili per mantenere in piedi un clima di creatività e di produttività che non sia visto come un dovere verso i lari, gli antenati, il nostro passato di “missionariato sociale”, come diceva tempo fa una nostra collega modenese ([17]), ma come il risultato degli accoppiamenti fra parti maschili e femminili, fra parti adulte e bambine, fra parti egoiche, superegoiche ed ideali, etc. che costituiscono il nostro patrimonio sia se ci consideriamo individualmente, sia ancor di più se ci consideriamo come gruppo .

E soprattutto se ci collochiamo all’interno di un percorso storico di crescita,di cammino che va avanti ,quindi che cambia e non corre il rischio di diventare un mito,sempre uguale a se stesso , circolare e quindi sterile e allucinatorio.

9. L’esercizio delle funzioni materne e paterne nei nostri gruppi precoci di pari all’interno della cogestione educativa.

Un accenno infine alla funzione dei gruppi precoci di pari e del come tali gruppi possono diventare dei contenitori e degli elaboratori delle proiezioni che gli adulti di casa e del nido che operi in una situazione di cogestione educativa fanno sui bambini.

Abbiamo già in altro luogo cercato di definire la specificità del gruppo precoce di pari in situazione di maternage multiplo ([18]). Ora ci preme vedere, o meglio fare delle ipotesi su come, nel nostro modello di maternage multiplo (moderatamente policentrico, abbiamo detto), la diffusione delle proiezioni che gli adulti fanno a casa e nel nido si diffonde fra i pari.

L’ipotesi che facciamo rimane non suffragata da una indagine organica, che però sarebbe urgente fare (e che forse faremo a Reggio Emilia nei prossimi due anni).

Si può dire però, con sufficiente approssimazione alla realtà, che, contrariamente a quanto sostenuto da scienziati sociali che hanno studiato realtà di maternage multiplo molto più estremistiche della nostra, la cogestione educativa non sedimenta, nel bambino oggi e nell’adulto domani, un insieme di introietti eterei, inconsistenti come ombre e quindi inaffidabili, ma un insieme di introietti ben più corposi e riconoscibili.

E’ il tipo di azione che il gruppo di adulti del nido svolge concretamente sui singoli e sul gruppo che può rendere più o meno solida la costellazione degli introietti del bambino.

Se questa azione è individualizzata, ravvicinata, calda, continua, allora essa sarà un utile complemento dell’azione familiare, ed anzi un elemento, supponiamo, che faciliterà, domani, il processo di autonomizzazione, lo fortificherà, lo incoraggerà.

Se, invece, questi elementi non potranno essere presentati al bambino in modo sufficentemente credibile allora i rischi saranno maggiori, anche se la presenza di personaggi familiari forti farà senz’altro sempre da contrappeso.

E’ questo il significato più profondo del termine moderatamente policentrico: quello di prevedere che, in fondo, la membrana duale originaria rimanga intatta nella sua forza di contenimento e di parametro del primo processo di individuazione-separazione.

Una autoanalisi spietata di come l’educatrice entra in questa membrana, di come essa si impasta con essa in ogni caso va fatta sull’oggi, al di la dei pur necessari follow  up sul passato.



[1]. Cfr. L.Angelini, Il bambino piccolo nel gruppo di pari, in L.Angelini e D.Bertani, 1995, Il bambino che è in noi, Unicopli, Milano

[2].Cfr. L.Angelini e D.Bertani, 1995, op.cit.

[3].Cfr. soprattutto, a) nell’ambito del femminismo americano: C.Gilligan, 1987, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano; N.Chodorow, 1991, La funzione materna, La Tartaruga, Milano;

M.M.Johnson, 1995, Madri forti mogli deboli, Il Mulino, Bologna.

b) nell’ambito del femminismo di stampo marxista: J.Mitchell, 1972, La condizione della donna, Einaudi, Torino; J.Mitchell, 1976, Psicoanalisi e femminismo, Einaudi, Torino. c) nell’ambito del femminismo europeo: S.De Beauvoir, 1965, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano; A.Carter, 1986, La donna sadiana, Feltrinelli, Milano; L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma; d) in ambito psicoanalitico: H.l.Deutsch, 1968, Psicologia della donna, Boringhieri, Torino; L.Baruffi (a cura di),1979, Il desiderio di maternità, Boringhieri, Torino; J. Chasseguet-Smirgel, 1978, La sessualità femminile, Laterza, Bari;

J.Chasseguet-Smirgel, 1991, I due alberi del giardino, Feltrinelli, Milano; M. Mitcherlich, 1992, La donna non aggressiva, La Tartaruga, Milano;  S. Vegetti Finzi, 1990, Il bambino della notte, Divenire donna divenire madre, Mondadori, Milano.

[4].Cfr. soprattutto: I.Magli, 1982, La femmina dell’uomo, Laterza, Bari; Ch.Saraceno, 1987, Pluralità e mutamento, riflessioni sull’identità femminile, F.Angeli, Milano; L.Balbo et al., 1990, Vincoli e strategie nella vita quotidiana, una ricerca in Emilia e Romagna, F.Angeli, Milano; G.Duby, M.Perrot, 1992, Storia delle donne, il novecento, Laterza, Bari; Th.Laqueur, L’identità sessuale dai greci a Freud, Laterza, Bari; M.Bettini,1993, Maschile\femminile, genere e ruoli nelle culture antiche, Laterza, Bari; E.Cantarella, 1995, Secondo natura, Rizzoli, Milano; A.Giddens, 1995, La trsformazione dell’intimità, Il Mulino, Bologna.

[5]. M. Malher, 1975, La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Milano.

[6].Cfr. T.Parsons e R.F.Bales,1974,Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano.

[7].Le femministe, in verità, fanno ciò nel tentativo di liberarsi dal peso dell’allevamento, cioè delle funzioni sociali collegate con la maternità (quelle di child rearers).

[8]. Cfr. L.Angelini e D.Bertani, Gruppi di educatrici centrati sul rapporto con i genitori, in Angelini e Bertani, 1995, op.cit.; L.Angelni e D.Bertani, Gruppi di educatrici centrati sul rapporto con il bambino, in Angelini e Bertani, 1995, op.cit.-

[9]. secondo un ampio spettro di possibilità di elaborazione che va dalla negazione paternità alla mimesi della funzione materna nel parto, come avviene nella couvade.

[10]. cfr. D. Naziri e Th.Dragonas, Il passaggio alla paternità: un approccio clinico, In Psychiatrie de l’enfant, 1995, N. (traduzione di L.Angelini)

[11]. sul legame fra Idem ed Autos vedi: D.Napolitani, 1988, Individualità e gruppalità, boringhieri, Torino.

[12]. Vedi, in precedenza, la nota N.3 a).

[13]. Cfr., soprattutto, il testo, già citato di M. Mitcherlich, in cui l’autrice fa notare come l’autonomia o la dipendenza delle psicoanaliste nei confronti dell’ipse dixit di S.Freud, sull’argomento, sia legato al momento storico in cui ciascuna di loro ha elaborato la propria posizione. Chi volesse approfondire l’argomento veda il testo in questione.

[14]. Cfr. E.Giannini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano.

[15].Cfr. D.Winnicott, Clivaggio degli elementi maschili e femminili nell’uomo e nella donna, in AA.VV., 1980,  Bisessualità e differenza dei sessi, Savelli, Roma.

[16].Cfr Th.Benedek, Essre genitori come fase dello sviluppo, in:Psycoanal. Assn. N.7 del 1959 (Traduzione di L.Angelini e D.Bertani)

[17]. Cfr. L:Angelini, Asili nido: le dinamiche presenti nel collettivo delle educatrici, in Angelni, Bertani, 1995, op.cit.-

[18]. Cfr. (oltre al testo di L. Angelni sul gruppo precoce di pari, già cit.) l’articolo di W. Muestenberger, Riflessioni culturali comparative sul matrenage multiplo, apparso su Psychiatrie de l’enfance, 1975, XVIII, 1, pp.241-260 (traduzione di L.Angelini)

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