L’eredità di Malaguzzi

Dino Angelini

6.9.12

L’Asilo del Popolo di Villa Cella, che per gli storici delle scuole più belle del mondo rappresenta l’inizio dell’epopea pedagogica reggiana, nacque nel 1947. Fu la popolazione di questa laboriosa frazione a costruirlo con le proprie braccia.

Parèven furmìghi” si potrebbe dire di loro, come si è detto dei vicini cavriaghesi impegnati negli stessi anni nell’altrettanto titanica avventura della costruzione del “Cinema Teatro Nuovo”.

E certamente in questo fervore creativo sui problemi dell’infanzia, che vedeva le donne dell’UDI protagoniste sia nell’esperienza di Cella, sia nelle altre sei o sette esperienze simili dislocate in città e nelle ville, era già evidente la presenza di un discorso che potremmo dire di tipo compensativo.

In una recente intervista Loretta Giaroni (nella foto qui a fianco) – una delle protagoniste delle lotte portate avanti in quegli anni dall’Udi, e successivamente prima assessora delle scuole dell’infanzia comunali – riferendosi alla situazione della seconda metà degli anni ’60, afferma: “la Giunta comunale ha sostenuto il diritto allo studio contro la selezione soprattutto a livello della scuola per l’infanzia, in quanto la possibilità di eliminare i dislivelli dovuti alle differenze sociali è molto maggiore quanto minore è l’età del bambino” (e in quegli stessi anni la sociolinguistica giungeva alle stesse conclusioni attraverso l’analisi del rapporto fra competenze linguistiche genitoriali e successo scolastico dei loro figli).

C’è molto spirito resistenziale in questo prendere sul serio la Costituzione, laddove essa prevede uguali condizioni di partenza per tutti i cittadini. Ma c’è anche un fermo pensiero femminile (se non femminista) nell’insistenza e nella caparbietà con la quale le donne dell’UDI portarono avanti il progetto delle scuole comunali per l’infanzia. Spesso – come riferì a noi giovani psicologi del CIM Velia Vallini – ruolizzate e un po’ prese in giro dagli stessi maschi del partito per questa loro insistenza.

Con l’arrivo di Malaguzzi a questa logica compensativa si affiancano quasi subito due altre componenti: l’atelier e la gestione sociale. Il primo volto allo sviluppo dei linguaggi altri del bambino; la seconda a canalizzare (e ad irreggimentare: diciamolo pure!) la spinta alla partecipazione, molto forte in quegli anni anche a Reggio.

Ciò che rimaneva sullo sfondo però era l’attenzione allo sviluppo cognitivo del bambino: il che spiega l’opzione orizzontale a favore delle sezioni distinte per età, che fu esteso anche al nido dopo un accanito dibattito (allora si discuteva accanitamente tutto!) in Regione fra Malaguzzi e Ciari, che al contrario del pedagogista reggiano, vedeva tutto l’impianto prescolare incentrato sulla verticalità della fratria e sull’affettività.

Si formò così nel tempo un modello reggiano che era incentrato su questi tre pilastri: lo sviluppo cognitivo, la partecipazione sempre più imbalsamata nella gestione sociale, e l’atelier.

Negli anni ’80, venuti meno sia i movimenti di base sia, almeno a Reggio, le ragioni sociali che erano alla base della spinta compensativa, il modello malaguzziano diventa un modello gestionale in cui, a fianco dei tradizionali “cardini fondamentali” della gestione (Partecipazione, Programmazione, Organizzazione) “compare un “quarto cardi­ne”: “la competenza, intesa come qualità determinante e necessaria per assicurare che la esperienza della gestione sia sorretta dai più alti livelli di conoscenza specifica dei proble­mi che collegialmente si vivono” (Malaguzzi dixit).

Le educatrici in questo modo diventano professioniste della gestione e garanti della stessa.

Con la crisi della prima repubblica il Pci regionale si schiera per la statalizzazione delle strutture comunali. Modena cede, ma Malaguzzi chiama a raccolta i professionisti locali e nazionali dell’età evolutiva facendo nascere il gruppo nazionale nidi, che ben presto diventa un argine nei confronti delle spinte liquidatrici delle esperienze comunali. La battaglia è ormai vinta quando – ciliegina sulla torta – arriva il riconoscimento di Newsweek.

A partire da questo momento si determina un ulteriore svolta nell’esperienza reggiana: ciò che emerge è la struttura prescolare “vetrina”, in cui – scomparso anche il simulacro della Gestione Sociale, e perse per strada le logiche compensative – rimane il luogo bello da mostrare urbi et orbi.

Luogo bello che trova il consenso generale perché corrisponde ad un’idea estetica delle scuole per l’infanzia e dei nidi, che su questo piano non possono non essere ammirate. Solo che col passare degli anni – a parte il pensiero vivo di chi, come la Carla Rinaldi, ha saputo metabolizzare, attualizzare e far propri alcuni connotati di fondo della tradizione reggiana – ciò che si vede non è un luogo vivo ma un feticcio, che allude sempre più stancamente ad una tradizione che ormai è andata persa.

A testimonianza di ciò basti ricordare il fatto che, proprio negli anni in cui si struttura la vetrina (Reggio Children e l’Istituzione, per intenderci), la città di Reggio comincia a convivere con un’infanzia nuova: quella dei bambini figli dei migranti, che avrebbero bisogno di un approccio compensativo molto più forte e rinnovato nei suoi connotati tecnici di fondo, rispetto a quello che era stato usato con i bambini delle classi meno agiate che frequentarono le strutture prescolari reggiane negli anni ‘60 e ‘70.

Ebbene delle esigenze di questi bambini, delle risposte da dare ai bisogni di questi bambini, delle reti interistituzionali ed interprofessionali che si occupano di essi, nella vetrina attuale, ma anche – ed è quel che più conta –  nei retrobottega delle istituzioni prescolari comunali non c’è traccia.

Così come non c’è più alcuna traccia dei legami e degli scambi che, sia pure in un’ottica di addomesticamento del dissenso, c’erano nella stagione in cui imperava il modello gestionale, e ancor più, criticamente, nel momento iniziale dell’epopea reggiana delle strutture prescolari.

E dietro questo feticcio, cercando di nascondersi dietro di esso come ci si nasconde dietro una foglia di fico: l’intesa con le private cattoliche che lentamente sta scavando tunnel sotterranei destinati prima o poi a fare franare il tutto.

Ma di questa ultima svolta mi pare che Malaguzzi non porti alcuna responsabilità.

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