Comitato Unitario di Base del CIM di Reggio Emilia – documento iniziale

CUB del Centro d’Igiene Mentale (CIM) di Reggio Emilia – Documento iniziale  – 1972

Prima Parte – Cosa sono le istituzioni

 

“Lo stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi … l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili ..” (Lenin)

  1. Il sistema capitalistico si basa non solo sulla fabbrica ma anche su tutto quello che le sta intorno e che è necessario affinché le cose in fabbria e fuori rimangano quelle che sono (o cambino solo nella direzione voluta dai padroni).
  1. Le istituzioni sono gli strumenti che il capitalismo si dà per mantenere il proprio potere: esercito, polizia, manicomi, carceri, scuola, famiglia eccetera, ci sono (o sono così) perché tutti collaborino a fare gli interessi non della maggioranza, ma di una minoranza, e a questo scopo sacrificare ogni bisogno, concentrare ogni sforzo, deviare ogni istinto.
  1. Il mantenimento dello status quo può avvenire, a seconda delle necessità del capitale, o in termini di conservazione pura e semplice (ma ciò all’interno di una società dinamica, come quella capitalistica, è secondario) oppure nei termini di un cambiamento non qualitativo, che lascia cioè intatte le condizioni di fondo per le quali questa società esiste.
  1. Il proletariato lotta contro il capitalismo prevalentemente nei luoghi di produzione. Specialmente la classe operaia è portata ad impiantare la lotta in fabbrica poiché è qui che si rileva la contraddizione principale della società capitalistica (fra privatizzazione dei mezzi di produzione e socializzazione delle produzione stessa).
  1. Ma la lotta – mano a mano che si sviluppa (dal terreno economico quello politico) -non può rimanere racchiusa all’interno della fabbrica, ma tende ad abbracciare tutta la società capitalistica nella misura in cui nel suo processo di liberazione il proletariato si rende conto che la distruzione violenta dell’apparato del potere statale è l’unica concreta premessa per l’abbattimento del potere borghese, e la sua sostituzione con la dittatura del proletariato.
  1. La ragione per cui si pone il partito della classe operaia è appunto questa: guidare la lotta politica del proletariato. O meglio far si che la parte più cosciente di esso (l’avanguardia) eserciti una funzione di egemonia e di guida politica nel senso sopra detto.
  1. Ma “l’esercito” proletario organizzato nel partito non può disperdere le sue forze in una lotta su tutti i fronti: concentrerà i suoi sforzi invece su quelle istituzioni che nello Stato borghese sono le più importanti dal punto di vista del mantenimento dello status quo: la polizia, l’esercito, Il governo (cioè le cosiddette istituzioni della forza pubblica: le istituzioni armate).
  2. Le altre istituzioni nel frattempo continueranno a funzionare senza che nulla accada? Se così fosse la borghesia avrebbe nelle sue mani degli ottimi strumenti per ritardare, buttare indietro, sviare, bloccare il processo rivoluzionario.
  3. E’ per questo che i rivoluzionari devono lottare anche contro le altre istituzioni dello stato borghese: scuola, prigioni, manicomi, ospedali, famiglie, eccetera.
  4. La lotta contro queste istituzioni dovrà servire:

a) a rendere sempre più chiari agli occhi dei proletari i meccanismi della violenza e della manipolazione usati dalla borghesia per mantenere il proprio dominio;

b) a sviluppare (ogni volta che l’avanguardia organizzata del proletariato lo riterrà opportuno) un movimento di massa che nella lotta anti-istituzionale trovi un momento di attacco al capitalismo e di comprensione della necessità di una lotta generale per il potere del proletariato;

c) cercare di rendere sempre meno dannose per il proletariato queste istituzioni ingaggiando una lotta su qualsiasi punto per neutralizzarle, diminuirne la possibilità di reprimere, condizionare ideologicamente il proletariato;

d) e in momenti eccezionali costruire a titolo di esempio delle esperienze alternative: ciò solo per far vedere ai proletari che esiste un altro modo di affrontare i problemi e quindi per spingerli con maggiore precisione a lottare contro questa società: “in momenti eccezionali” poiché “non si può costruire un ghetto d’oro in una società di merda” se non nella illusione di coprire con un grammo d’oro (ma non è oro tutto quel che luce) in tonnellate di merda.

  1. Lottare contro le istituzioni. Come? E’ astratto rispondere a questa domanda se non ce ne poniamo anche e contemporaneamente un’altra: chi lotta contro le istituzioni? A questo proposito occorre dire prima di tutto che l’obiettivo per ora è quello di instaurare un legame dialettico fra le avanguardie parziali di lotta e le masse, e nel contempo legare le avanguardie parziali alle avanguardie politiche anticapitalistiche non appena queste si pongono sul terreno della lotta generale.
  1. Ma chi sono le avanguardie di lotta: sono coloro che dentro le istituzioni dipendenti o ‘di passaggio’ (ad es. professori e studenti) si impegnano in una lotta che passa attraverso e contro le istituzioni. Sono coloro che fuori dalle istituzioni, ho dentro di esse per forza (carcerati – spostati) si impegnano in una lotta contro le istituzioni.

Coloro che stanno dentro le istruzioni come dipendenti tendono, Data la loro particolare collocazione (dipendenza economica) A razionalizzare i termini della lotta per perpetuare la loro mansione, cioè per fare una battaglia che in ogni caso preveda di tutto fuorché la sparizione della propria mansione. Nella misura in cui ciò avviene Cade ogni discorso politico rivoluzionario, qualsivoglia sia la disponibilità che succhiano verbale venga sbandierata.

  1. Coloro che lottano contro le istituzioni perciò sono diversi gli uni dagli altri.
  1. Prima di tutto coloro che lottano dentro le istituzioni – dipendenti o di passaggio che siano – per la loro stessa collocazione all’interno dell’istituzione tendono a sottolineare alcuni obiettivi della lotta anti-istituzionale, ed a trascurarne altri.

Se a ciò si aggiunge il fatto fondamentale dell’estrazione sociale dei dipendenti – perlopiù la piccola e media borghesia – e si confronta questa estrazione con quella di coloro che nelle istituzioni ci sono solo ‘di passaggio’, ad esempio gli studenti, che vengono fuori da tutte le classi sociali, si vede come facilmente possono nascere contrasti, contraddizioni fra coloro stessi che portano avanti la lotta anti-istituzionale.

  1. Coloro che lottano dentro le istituzioni e sono da esse economicamente dipendenti dei quattro obiettivi indicati al punto 10 tendono a privilegiare gli ultimi due. Non solo: ma, sia per la loro collocazione all’interno delle istituzioni, sia anche per la loro estrazione sociale piccolo o medio borghese, tendono ad inserire la lotta sul piano di una strategia riformista che – partendo dalla giusta posizione di rendere sempre meno dannose per il proletariato le istituzioni borghesi – giunga alla mistificazione di rendere più democratiche, più a favore del proletariato, più funzionali alla sua crescita autonoma queste istituzioni. Queste posizioni sono delle mistificazioni che non fanno crescere il movimento di massa, e servono invece ad incapsularlo, legarlo al carro della borghesia.

Per quanto riguarda le esperienze alternative la tendenza è appunto quella di fare il ghetto d’oro, ma questo ove si crea effettivamente è solo dovuto all’incontro fra una élite di operatori del settore che per la loro particolare posizione possono dedicarsi alle loro ‘serre private’ ed una élite di fruitori che per la loro particolare posizione nella società possono permettersi questi lussi (ad esempio gli asili antiautoritari).

Avviene così che proprio queste esperienze, che pretendono di essere la critica più pratica alle presenti istituzioni, effettivamente risentano fino in fondo dell’ideologia borghese in quanto che il loro atteggiamento nei confronti delle istituzioni e quello di vederle come terribili (e ciò è vero); ma anche imbattibili: e ciò – che è all’origine del loro rifugiarsi nella piccola esperienza bellissima – è falso e deriva da una profonda sfiducia nei confronti delle masse per cui in questa società non si può far nulla fuorché coltivarsi gli orticelli.

  1. Coloro che sono fuori dalle istituzioni o sono dentro di esse per forza generalmente lottano con maggiore decisione contro istituzioni. Inoltre per loro la lotta attraverso le istituzioni non ha senso, se non – per i carcerati e gli spostati – inequivocabilmente nel senso di rendere meno dannosi per se stessi carceri e manicomi nella prospettiva altrettanto inequivocabile, del loro smantellamento.
  1. Però anche fra coloro che sono impegnati in questo secondo tipo di lotta esistono delle diversità. Prima di tutto, nonostante in più precisi contorni di classe di coloro che sono impegnati in questa lotta, c’è la tendenza ad essere conseguenti nella lotta anti-istituzionale solo nei confronti di alcune istituzioni, e di avere un atteggiamento è una prassi riformista, se non controrivoluzionaria, nei confronti di altre: tipico ad esempio è l’atteggiamento spesso reazionario dei proletari mi confronti degli spostati e del manicomio.

Ciò è dovuto sia al fatto che la reale funzione di alcune istituzioni è meglio camuffata a causa della influenza più determinante dell’ideologia e dei miti della borghesia e dei miti della borghesia (ad esempio il mito della malattia mentale).; sia al fatto che in certe condizioni di prostrazione fisica e di sofferenza ha scarsissime possibilità non dico di svilupparsi, ma anche di impiantarsi (ad esempio ospedali e manicomi)

  1. In secondo luogo anche a questo livello esistono i pericoli di incanalare la lotta contro le istituzioni in lotta per il controllo democratico delle istituzioni stesse (ad esempio la classe operaia deve controllare le immissioni manicomio) Per cui si conduce il proletariato ad autocontrollare il proprio sfruttamento. Ed anche per ciò vale il discorso sull’ideologia riformista come ideologia della borghesia per incapsulare la classe operaia.
  1. Sia che si agisca dall’esterno, sia ancora di più se si agisce dall’interno la lotta non ha un gran significato se non è collegata, almeno tendenzialmente e non necessariamente fin dall’inizio, ad una strategia generale anticapitalistica poiché solo così è possibile evitare di essere usati dalle forze politiche che agiscono per la conservazione del sistema. Occorre cioè inserire la lotta anti-istituzionale all’interno di un progetto di lotta generale anticapitalistica (ciò è ancora più urgente nelle zone in cui il revisionismo ha una grossa influenza sulle masse, e gestisce una parte del potere).

Più in generale la tendenza in atto da parte di coloro che portano avanti la lotta anti-istituzionale all’interno di un progetto riformista è quella di stravolgere l’opera di neutralizzazione (ed il significato delle esperienze alternative) in opera di democratizzazione delle istituzioni, nell’illusorio tentativo di cambiare lo stato borghese senza battere gli organi che custodiscono il potere e la ricchezza della borghesia; e, nello stesso tempo, mobilitare a questo fine le masse, e non per la crescita di una coscienza rivoluzionaria.

  1. Ciò significa che almeno tendenzialmente i due livelli di militanza: 1. La militanza all’interno del settore specifico per portare avanti la lotta anticostituzionale: 2. La militanza a livello generale anticapitalistico – vanno posti in stretto collegamento fra di loro affinché fra avanguardie della lotta istituzionale e avanguardie politiche generali non ci sia reciproco disinteresse. Poiché ciò è molto spesso l’anticamera da una parte degli errori e delle deviazioni sopra dette, dall’altra dell’abbandono di fatto al nemico di classe di forze che altrimenti avrebbero potuto essere mobilitate in maniera organizzata e lungimirante contro di esso.
  1. Il nemico è soprattutto il capitalismo ma anche, per quanto detto prima, il revisionismo: entrambi sanno molto bene come utilizzare queste forze, come istituzionalizzarle, come farle muovere nel senso voluto della borghesia, o almeno da una parte di essa (quella più avanzata).
  1. Perciò uno dei presupposti fondamentali sia per chi è dentro sia perchi è fuori è costituito dall’autonomia reale del collettivo che intende impiantare la lotta: Solo così fra l’altro si pone in maniera corretta il rapporto con le avanguardie politiche generali.

Per coloro che sono dentro le istituzioni a questo proposito vanno battute due posizioni speculari: – la prima è quella dell’identificazione dell’operatore con istituzione stessa (ad es. considerare il proprio lavoro come lavoro politico e non la lotta contro l’istruzione come lavoro politico); – la seconda è sottovalutare la necessità della lotta anti-istituzionale ed adagiarsi in un lavoro di routine impiegando i propri sforzi altrove, come se l’istituzione fosse un altro pianeta e non un aspetto del capitalismo.

 

Seconda parte: la lotta anti-istituzionale oggi

  1. La lotta anti-istituzionale nel 1972 non si può più riproporre mettermi in cui si pose nel 1968.
  1. Nel 68 da una parte ci si trovava in un periodo di espansione economica che avveniva in un quadro politico in cui l’esperienza riformista del centrosinistra era in atto, e d’altra parte proprio per le contraddizioni che il progetto riformista della borghesia faceva nascere, – e per l’intrecciarsi di queste nuove contraddizioni con quelle preesistenti – ci si trovava di fronte ad un forte movimento di massa che rifiutava ora taluni aspetti (i più aberranti) della società borghese e dell’assetto istituzionale dello Stato, ora la società borghese in generale.
  1. In tutti casi il movimento di massa ebbe un carattere spontaneo. Non vi fu nessuna forza rivoluzionaria che all’interno di questo movimento riuscisse a unificare e generalizzare le esperienze più corrette, a criticare e correggere quelle meno indicative.

Cosicché diverse esperienze consistettero fianco a fianco anche se in effetti alcune, per la presenza in esse di forze rivoluzionarie, andavano verso una critica esplicita o implicita al revisionismo, altre erano egemonizzate da forze meno decise e conseguenti nei confronti del revisionismo. E quindi venivano inserite (o furono inserite in seguito) all’interno del progetto riformista di democratizzazione delle istituzioni.

  1. Mancò cioè nel 68 un catalizzatore rivoluzionario che riuscisse ad inquadrare le rivolte, le inquietudini degli studenti, degli intellettuali piccolo borghesi all’interno di un punto di vista proletario.

Perciò ogni tentativo che fu fatto in seguito di portare avanti la lotta anti-istituzionale degli studenti e di trovare dei collegamenti con la classe operaia avvenne nel senso di un prolungamento dei temi antiautoritari ed egualitari del 68, senza dare ad essi una valenza che andasse al di là di quella che era venuta fuori spontaneamente all’esplodere delle lotte.

  1. Cosicché quando la classe operaia andò a chiedere i conti alla borghesia per lo sviluppo economico che dal contratto-farsa del 66 (degli anni successivi alla crisi 63 64) era andato avanti totalmente sulle sue spalle trovò al suo fianco da una parte quelle forze che si erano ad esso a collegate sui temi del 68 (e sui limiti del 68!). Dall’altra chi, come il sindacato ed il PCI, vedeva nel contagio della classe operaia e nella sua esplosione del 69-70, una spinta che doveva essere incanalata per esercitare una pressione sulla borghesia più avanzata al fine di rendere più organico e democratico il programma riformista.
  1. Ma la coscienza sindacale delle masse operaie e la coscienza politica maturata nella lotta dalle avanguardie di fabbrica per tutto il 70 ed anche oltre (anche oggi) travalica ogni previsione. Il contagio una volta avvenuto si espande contro ogni previsione fino ad intaccare i margini di profitto dei monopoli.

Ed allora cade il governo Rumor (luglio 70), avviene la scissione del PSI – PSDI, ecc., e i padroni cominciano a richiedere lo Stato forte. Cioè le riforme per ora non si fanno: bisogna prima piegare la classe operaia.

  1. Questo nuovo clima di repressione vede un generale spostamento a destra di tutto l’arco delle forze parlamentari: basta considerare l’accordo Fiat dell’anno scorso, la maniera con la quale i sindacati si preparano ai contratti in questi mesi, l’atteggiamento del PCI a partire dalla revoca dello sciopero generale del luglio 70 per rendersene conto.
  1. In questo clima il progetto riformista di democratizzare le istituzioni e di renderle a favore del proletariato non trova più spazio, poiché perde, oltre che ogni possibilità mistificata di realizzazione, anche ogni credibilità (ad esempio vedi la fine che ha fatto la parola d’ordine “disarmo della polizia”).
  1. Ma ciò non significa che la lotta anti-istituzionale non sia più l’ordine del giorno. Ciò significa solamente che la maniera riformista di vedere e fare la battaglia anti-istituzionale è crisi.

Cioè quel modo di concepire la lotta di classe, le spinte della classe operaia e dei proletari come strumenti di pressione affinché all’interno del gioco della democrazia borghese le istituzioni diventino sempre più democratiche, sempre più a favore del proletariato, mostra la corda quando la borghesia monopolista, visti restringersi i margini di manovra attraverso i quali in passato la riuscita ad imbrigliare il proletariato, è costretta a passare ad una gestione del potere che taglia fuori momentaneamente, cioè finché la classe operaia nel loro intenzioni non venga battuta, ogni programma riformatore delle istituzioni così come di ogni altra cosa.

  1. Questa crisi del riformismo, che ha la propria origine nella fase che stiamo vivendo (crisi economica – livello della coscienza operaia) toglie alla lotta anti-istituzionale alcune forze: quelle che negli anni scorsi avevano impostato la battaglia in termini meno conseguenti. Ma questo è un bene o male?
  1. E’ un male se si continua nella linea spontaneista per il solo fatto che la lotta, avvenendo in spazi più ristretti ed avendo perso tutta una serie di alleati, non può reggersi se non supera a breve scadenza lo spontaneismo e non si collega con il movimento reale anticapitalistico.
  1. E’ un bene se si supera lo spontaneismo, collegando come linea di tendenza ogni singola lotta anti-istituzionale all’interno di un progetto generale anticapitalistico.
  1. Perdere queste forze cioè può diventare un bene se si fa chiarezza e si reimposta tutto in termini conseguenti.

 

Terza Parte – La lotta anti-istituzionale al CIM

  1. Il CIM nasce dalla istituzionalizzazione di una lotta anti-istituzionale condotta al Reggio Emilia da alcuni intellettuali a sinistra del PCI nel 68.
  1. I CIM funzionano nel senso dello sviluppo di una psichiatria democratica nei luoghi in cui in Italia il capitalismo è più permissivo: ad esempio Reggio Emilia.
  2. Per spiegare Reggio Emilia occorre fare un’analisi del PCI in generale, e del PCI gestionalista in particolare.
  3. – Pci in generale: strategia delle riforme attraverso una politica organica di riforme si mira a trasformare le istituzioni, a renderle non più funzionali alla borghesia ma al proletariato: ciò, aldilà delle mistificazioni, implica la non negazione del lavoro salariato (operaio = forza-lavoro), ma nel nostro campo sviluppo di programmi di assistenza – previdenza – eccetera, che riaffermano la condizione di sfruttamento e reificazione degli operai, in un quadro che quindi qualitativamente è identico a quello pre-riforma.
  1. – Nelle regioni rosa la strategia riformista tenta di materializzarsi secondo modelli parziali (necessariamente, poiché il potere reale è solo in proporzioni modeste nelle mani nel PCI) ma appunto per questo estremamente indicativi: la lotta contro il ‘vecchio’ (cioè il capitalismo arretrato e l’assetto industriale ad esso più congeniale) avviene nell’esaltazione di ciò che è funzionale alla nuova società capitalistica, nella completa assenza di una strategia rivoluzionaria.
  1. Il fine del PCI è dimostrare che ‘Bologna è meglio di Roma’ cioè che la società emiliana è più integrata e più efficiente in quella italiana in generale.

E nello stesso tempo dimostrare come una società così fatta possa con maggiore facilità assorbire e incanalare le spinte potenzialmente eversive che vengono dalle masse (in effetti non dimostra affatto questo, ma tutt’al più pretende di farlo).

  1. All’interno di queste ipotesi gestionalista il CIM (centro di igiene mentale) di Reggio Emilia rappresenta la volontà sia di dimostrare all’esterno efficienza e modernità (il fiore rosso all’occhiello), sia di inglobare una serie di forze studentesche e di intellettuali che anche qui il 68 aveva prodotto, sia di chiudere il cerchio dell’integrazione sociale utilizzando queste forze così istituzionalizzate, cioè asservite.
  1. Quindi la locanda istituzionale degli operatori del CIM deve essere posta all’interno di questo quadro! non si può fingere che la lotta anti-istituzionale sia quella del CIM contro il manicomio poiché il CIM e il San Lazzaro sono nel progetto (sia pure confuso scarsamente efficace) del riformismo due realtà solo apparentemente l’un contro l’altra armate. In effetti sono l’una il complemento dell’altra: per dimostrarlo basta il fatto che il datore di lavoro è lo stesso.
  1. Il primo punto da demistificare è questo: la lotta anti-istituzionale passa anche all’interno del CIM, ed è una lotta contro il progetto riformista del controllo sociale per la conservazione del sistema. In questo senso è anche lotta per la demistificazione delle assemblee del CIM, e del clima di falsa politicizzazione del centro! e contro tutti coloro che alimentano queste cose.
  1. Lotta per che cosa?
  2. a) rendere sempre più chiari ai proletari i meccanismi della violenza e della manipolazione;
  3. b) sviluppare un movimento di massa che nella lotta anti-istituzionale trovi un momento di attacco al capitalismo e di comprensione della necessità di una lotta generale per il potere;
  4. c) cercare di rendere sempre meno dannose per il proletariato queste istituzioni;
  5. d) in momenti eccezionali costruire a titolo di esempio esperienze alternative.
  1. Necessità di momenti autonomi: il comitato di base (CUB)
  1. Per ora: problema delle alleanze. La necessità di allearsi con una parte del PCI e dei sindacati comporta il pericolo di essere fagocitati all’interno di una logica riformista di sinistra. Come evitarlo? Discussione politica all’interno del comitato: Autonomia del comitato.
  1. Ma soprattutto, in prospettiva, passaggio da operatori frustrati a militanti della lotta anti-istituzionale, a militanti politici renerali, o almeno in collegamento con i militanti politici generali.
  1. Insomma non si può fare da detonatore ad un movimento di massa senza che ci siano le forze in grado di recepire quello che ne viene fuori, inquadrarlo all’interno di una strategia, generalizzarlo (oppure agitarlo e propagandarlo).

Se queste forze non ci sono ci sono le altre che utilizzano per fini diversi ed opposti con la loro politica! e noi non ci si può far niente.

  1. Smettere di considerare il nostro lavoro come lavoro politico il primo lavoro politico è la lotta contro l’istituzione CIM -San Lazzaro-De Sanctis.
  1. La sinistra PCI è lontana 1000 miglia dalla lotta avanti-istituzionale. Questo sarebbe un bene forse se ci si trovasse da qualche altra parte. Non lo è in Emilia.

Qui infatti il PCI ha in mano tutta una serie di istituzioni attraverso le quali attua il suo piano riformista.

Per cui – venendo alla politica della FGCI – seguire solo la classe operaia sul piano sindacale, ed disinteressarsi del resto da parte della FGCI ha tutta l’aria d’una fuga, o meglio di una compensazione alle frustrazioni che ai militanti sinistri capita di subire nel PCI emiliano. Tanto è vero che l’unica lotta anti-istituzionale che la FGCI porta avanti a Reggio Emilia è quella nella scuola dove, oltre ai giovani studenti e di fronte ad essi, ci sono: i presidi reazionari, il provveditore, il governo …… insomma tutti tranne il PCI.

 

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