Sui criteri di selezione della classe dirigente da parte del M5S

chiara-appendino-e-virginia-raggi-fotodi Dino Angelini

Il primo elemento che salta agli occhi non appena ci si pone il problema della selezione della classe dirigente da parte del M5S è il rapporto tangenziale che spesso s’instaura fra i singoli militanti e il movimento. Cioè il fatto che quello che lega il singolo al tutto nella maggior parte dei casi non è un qualcosa di nucleare, che coinvolga l’individuo nella sua più piena identità, ma solo una specie di calamita che lo porta ad avvicinarsi ed a combaciare col movimento: tangenzialmente, appunto.

Ma a fianco a questo primo elemento ve n’è un secondo, a mio avviso strettamente connesso col primo, che potremmo definire la natura naif del movimento stesso: cioè il fatto che ostentatamente esso si ponga al di fuori di qualsiasi tradizione politica ed ideologica. Ed anzi neghi qualsiasi parentela, se non quelle che di volta in volta appaiano funzionali ad un discorso antisistema (in questo concordo con Dario Fo). Anche se questi richiami rapsodici a questa o a quest’altra parentela concorrono poi alla diffusione di ogni diceria sulle effettive origini del movimento: vedi soprattutto i rumori che ancora oggi echeggiano intorno alla figura di Casaleggio.

Basta prendere in considerazione il sistema di reclutamento on line e la sua connessione con la regola ‘uno vale uno’ per rendersene conto. I Pirati tedeschi – che appaiono oltretutto naif come i grillini – per ovviare ai rischi connessi con un sistema così anodino di reclutamento, sottopongono tutti i loro militanti, e soprattutto i loro aspiranti candidati ad un lungo fuoco di fila di domande, cioè ad un vero e proprio terzo grado che mira, se non a raggiungere, almeno a fissare ‘fotograficamente’ la parte più nucleare di ciascuno, scontando così un ritmo di espansione più lento rispetto a quello a valanga  del M5S; e quindi condannandosi a permanere in uno stato di marginalità.

In Italia il ‘combinato disposto’ fra le maniere più spicce di reclutamento, la natura tangenziale dell’adesione, e quella naif del M5S da una parte hanno garantito una sua rapida espansione, dall’altra non hanno prodotto sufficienti garanzie sul piano dell’adesione dei singoli al gruppo. E i pannicelli caldi delle firme da apporre, dei giuramenti da fare, com’è sempre più evidente servono a poco.

Ora, al di là della pretestuosità delle polemiche che i giornaloni vanno sollevando in questi giorni sul caso Raggi, a chi come me proviene dalla sinistra italiana e – come dice acutamente Saviano – ha riposto nel M5S ‘l’ultima briciola di fiducia’ e di speranza che i deboli, i giusti e gli onesti di questa Italia possano trovare una occasione di riscatto, fa girare letteralmente gli zebedei che il M5S rischi d’incartarsi in maniera così balenga.

È chiaro che se uno guarda a cosa è ridotta la sinistra italiana verrebbe da buttare tutto a mare, se non lo avessero già fatto, come realmente è accaduto, gli stessi dirigenti della sinistra almeno a partire dalla Bolognina.  Ma, a guardar bene, almeno fino al ’68, la sinistra era stata capace di elaborare nel tempo (sottolineo ‘nel tempo’!) un criterio di selezione della propria classe dirigente, che sicuramente non può essere riproposto pari pari oggi, ma che a mio avviso presenta alcuni punti sui quali occorre riflettere.

Mi riferisco innanzitutto agli assunti gramsciani che non esistono intellettuali al di sopra ed al di fuori delle classi sociali, e che se le classi subalterne aspiravano realmente al potere dovevano darsi dei propri intellettuali, assemblandoli (anche attraverso i giornali, le riviste), specializzandoli e selezionandoli sia in sede locale che nazionale in base al loro impegno mano a mano che essi si dimostravano capaci e risoluti ‘nel fuoco dello scontro di classe’, come si diceva allora. Selezione che richiedeva una ‘organicità’ che coinvolgeva il militante fino al midollo.

Ora è chiaro che questo modello, che poi Togliatti adatterà al partito di massa, funzionò in un certo modo finché i partiti della sinistra stettero effettivamente nel fuoco dello scontro di classe; e poi in un altro, mano a mano che essi si allontanarono dalla loro mission iniziale e s’imborghesirono.

Così com’è chiaro che durante la Seconda Repubblica la sinistra ha buttato a mare l’acqua sporca col bambino dentro: un po’ per lo spirito autodistruttivo che animò la Bolognina, un po’ a imitazione acritica del modello personalistico di Berlusconi, un po’ perché altrettanto acriticamente attratta dal modello d’importazione USA delle primarie che hanno ucciso la discussione al suo interno (primarie che – ricordiamolo – Prodi aveva usato per darsi un profilo più forte, mentre Renzi ha usato per scalare il partito per conto delle banche e di altri più oscuri poteri forti).

Il problema è capire cos’è oggi l’acqua sporca da buttare, e cosa il bambino da salvare e da adattare alle mission del presente che albergano nel M5S, e non più nel PD (taccio per carità di patria su ciò che sta accadendo nei vari cespuglietti della sinistra radicale). Secondo me questa operazione non può che avvenire nelle viscere del M5S e nel ‘fuoco delle lotte’ attuali.

A mio avviso però per riconoscere i connotati di questo bambino da salvare, cioè delle basi attuali sulle quali costruire nel tempo una propria classe dirigente non si può prescindere dall’affrontare e risolvere alcuni punti che sono quelli che ho cercato di elencare sopra: – passare da un tipo di adesione tangenziale ad uno che coinvolga più nuclearmente gl’individui; – dopo ampia discussione osare darsi dei programmi locali e nazionali che siano figli di parentele certe ed trasparenti; – selezionare, specializzare ed assemblare (in un ‘partito’, intendo) la futura classe dirigente in base a questi programmi, ed ovviamente alle esigenze dei vari territori e del paese.

E nel frattempo darsi tempo!

Reggio Emilia, 10.9.16

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