Il welfare, De Magistris e noi

Dino Angelini

29.1.12

 

De Magistris a Napoli domenica scorsa: “La valorizzazione dei beni comuni e del welfare è il cuore della politica del terzo millennio”; e Lucarelli, il braccio destro di De Magistris, che inquadra il tutto all’interno di un modello di democrazia partecipata: leggendo queste cose ieri e oggi sui giornali come non pensare allo stato attuale del nostro modello di welfare, dei nostri beni comuni, del nostro modello di partecipazione?

Partiamo dal welfare e dal welfare locale in particolare: il vecchio modello reggiano di welfare era incentrato sull’erogazione di servizi. Nell’Italia della prima repubblica a questo modello si contrapponeva il welfare dei sussidi, che era prevalentemente democristiano, così come il welfare dei servizi era quasi esclusivamente comunista.

Da questa biforcazione emergeva un’Italia a macchia di leopardo in cui i due modelli poi s’incarnavano in concrete sperimentazioni, che variavano da luogo a luogo, e così finivano col presentare elementi di peculiarità che in certi casi – e Reggio era uno di questi – s’imponevano in base a un proprio specifico profilo che, a sua volta, era figlio delle mille e mille coniugazioni fra amministratori e cittadini.

Con la crisi della prima repubblica i pidiessini locali hanno buttato a mare il bambino con l’acqua sporca. Un po’ perché si sono vergognati del proprio modello di welfare, come se questo fosse assimilabile a un qualsiasi dispendioso welfare dei sussidi. Un po’ forse perché quel welfare non era stato voluto dalla totalità dei comunisti reggiani, ma piuttosto da una loro minoranza, prevalentemente femminile, che negli anni 50 e 60 si era spesa in maniera molto forte anche contro il ventre molle dei maschi del partito che praticamente avevano accettato molti aspetti di quel welfare solo perché le donne del partito, le militanti dell’Udi e delle organizzazioni femminili li avevano perseguiti con forza e lungimiranza.

Eh, si! Perché se c’è una cosa che contraddistingue il welfare dei servizi da quello dei sussidi è che, mentre i servizi danno i loro frutti nel tempo, i sussidi sono come una specie d’idrovora che succhia denaro e lo ridistribuisce subito a coloro che ne hanno bisogno (la strada maestra – badate – attraverso la quale si formano le clientele!).

Anche il welfare dei servizi implicitamente distribuisce soldi. Lo fa erogando ciò che gli economisti chiamano salario indiretto, in base al quale ad esempio inserire un bambino in un nido, preferibilmente condotto a dovere, permette a una madre di ritornare più presto e tranquillamente al lavoro e di contribuire così all’incremento del salario familiare.

Insomma, entrambe le forme di welfare sono degli strumenti redistributivi e funzionano come degli ammortizzatori locali. Con la differenza che il sussidio si estingue nel qui e ora dell’erogazione, ma genera consenso; mentre il servizio continua a distillare salario indiretto e vantaggi mirati nel tempo, ma lo fa solo se ben amministrato. E Reggio lo fu.

Poi, nel momento in cui la Zarina all’inizio degli anni 90 si accordò con gli ex-democristiani, poiché la Zarina non era certo la Vallini (o la Bartoli, o la Giaroni, etc. etc.), iniziò un processo di ritiro strategico degli enti locali reggiani dai servizi, al quale si accompagnò fin da subito un invito, a volte neanche tanto richiesto, prevalentemente ai cattolici e alla chiesa affinché svolgessero funzioni via via più importanti all’interno del welfare locale. Il tutto in una logica di appalto senza concorso, permesso dalle norme semplificatorie instaurate dal primo governo Prodi (Do you remember Bassanini?).

Oggi il passaggio dalla Zarina a Delrio, almeno da questo punto di vista, non rappresenta una svolta, ma anzi un sempre più conseguente distacco dell’ente locale dalla gestione diretta di una parte crescente del welfare locale, che rimane certamente un welfare dei servizi, ma un welfare di servizi privatizzati e, direi, clericalizzati. Esemplare in questo quadro è la nascita delle Asp, a cavallo fra la prima e la seconda giunta Delrio.

Altrettanto esemplare è, sulla questione “beni comuni”, l’operazione-Iren. Mentre sul piano della partecipazione è sparita da tempo ogni parvenza di democrazia e tutto è affidato alla logica premiale che proviene dai media e in special modo da quei media che “danno i voti”, che fanno le classifiche.

Quasi che avere un buon piazzamento sul Sole24Ore sia segno di una maggiore capacità di centrare gli obiettivi rispetto a quella che deriva, come dice Lucarelli, da un uso sistematico degli strumenti partecipativi in una logica di democrazia partecipativa basata sull’uso paziente dell’ascolto e del dialogo.

Insomma ciò che dice sulla città l’esperto venuto da fuori che neanche la conosce (Gardner, toh! .. un Gardner non si nega a nessun tavolo!) varrebbe di più di quel rompersi gli zebedei nell’ascolto con i cittadini che erano l’anima delle vecchie giunte, dei vecchi amministratori e delle vecchie amministratrici.

 

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