Taranto, il capretto e l’altro indotto

di Dino Angelini

 

La Grafica Angelini & Pace di Locorotondo all’inizio degli anni ’70 faceva parte dell’indotto Italsider, poiché la riforniva – come diceva mio padre – dei ‘bollettari’, cioè di quei moduli sui quali i vecchi computer stampavano le fatture.

Di quel periodo ricordo in particolare un episodio: era Pasqua, e come al solito ‘scesi giù’ dal profondo nord come facevo anche per Natale e per le vacanze estive. Era già nata mia figlia, che all’epoca avrà avuto tre o quattro anni.

Una mattina arrivò a casa un macellaio che aveva sulle spalle un capretto, che – si sapeva – una volta macellato ‘doveva andare’ a Taranto. Il macellaio fu fatto accomodare su in solaio, dove tutto era pronto per la macellazione.

Poco dopo mia madre venne giù, prese mia figlia per un braccio e la esortò a seguirla. Antonia – che portava il suo nome! – prima la seguì, ma a un certo punto, e precisamente quando cominciò a capire che dal solaio venivano dei lamenti strazianti, cominciò ad opporre resistenza, finché io non le raggiunsi e, strappata mia figlia alla presa materna, la riportai dentro casa.

Avevo assistito a una scena di altri tempi, e di altri destini familiari … e personali: Nonna Rosa, la madre di mia madre era una massara, e nelle masserie per far superare ai bambini e alle bambine quel senso di pietà che si sente allorché si vede ammazzare un animale (e specialmente un animale domestico), li si costringeva ad assistere alla loro macellazione affinché anche loro un domani fossero in grado di farlo, al bisogno.

Anche mia madre a suo tempo lo aveva fatto. Evidentemente anche lei da bambina era stata costretta ad indurirsi sottoponendosi a quella cerimonia di iniziazione. Fino a che un lutto grave la inibì. E lei con quel gesto stava cercando di iniziare la nipote che portava il proprio nome ad un’usanza cui aveva dovuto sottrarsi.

Poi una volta macellato il capretto ‘andò’ a Taranto. Ce lo portò mio padre: serviva per oliare le ruote giuste perché l’Italsider pagasse per tempo il dovuto per quei bollettari. Non come i comuni dell’hinterland. Come Grottaglie ad esempio, che dopo anni pagava solo gli interessi. Lo aspettammo in macchina. Giunse trafelato, ma contento. Il capretto a quelli dell’Italsider, disse, e noi a mangiar pesce al Veliero di Porto Cesareo.

 

Si, perché fin all’inizio degli anni ’60 l’Italsider aveva portato a Taranto un sacco di gente. C’erano i famosi metalmezzadri di cui aveva già parlato Walter Tobagi, che poi erano spesso contadini raccomandati dai carabinieri e dai maggiorenti locali della DC, che non mollavano la campagna, e neanche le usanze dei propri paesi (il che – si badi bene –  non impedì loro di fare poi le proprie lotte). Da Martina ogni giorno partivano per l’acciaieria circa 1.500 lavoratori. E da Locorotondo quasi 400. Molti di loro facevano coincidere le ferie con la mietitura, la vendemmia, e con il periodo delle feste padronali.

Con loro molti impiegati, ‘selezionati’ allo stesso modo; e l’indotto, di cui fin dall’inizio faceva parte la Grafica Angelini & Pace. Poiché però i Pace non facevano parte della ‘coscia’ – come si diceva di coloro che spesso solo per via delle proprie aderenze politiche (o ecclesiastiche) godevano dei piccoli e dei grandi privilegi che anche la provincia è in grado di offrire –  e tantomeno gli Angelini, che anzi avevano fama di essere socialisti quando questo nome non era ancora stato infangato da Craxi, è pensabile che la nostra Grafica avesse ricevuto le famose commesse dei bollettari solo perché in totale assenza di concorrenza, almeno in loco.

 

Ho ricordato queste cose nel tentativo di far comprendere qual insieme di attese avesse generato l’arrivo a Taranto dell’acciaieria. Questa cattedrale nel deserto nata, come tutte le altre, in base ad un cortocircuito che metteva insieme il nuovo e il vecchio, le esigenze del capitale – l’acciaio! – e quelle dei maggiorenti locali in cerca di voti, il meridionalismo col clientelismo di marca democristiana, i contadini con gli altiforni. Una delle tante: alcuni passaggi del film di Rosi su Mattei – quelli sui comizi in Sicilia (vedi il video qui sotto) – ci permettono di immaginare qual era allora il contesto.

Nel sud c’era allora come oggi un bisogno di uscire dalla miseria. Ma questo bisogno allora si presentava in maniera più cruda: i contadini anche la domenica venivano in paese con le pezze al culo. Anche nella Bassa Murgia, dove allora come ora si viveva meglio, le coppole erano il frutto di un variopinto ‘lavoro fatto con le pezze’ (un patchwork). E soprattutto nel tarantino per campare si migrava.

Fu sul quel bisogno che si attaccarono i politici: per risolverlo a modo loro, per investire soldi pubblici a favore non della cantieristica, che aveva visto Taranto eccellere a lungo, ma dell’acciaio senza chiedere ai padroni che fruivano di quel vantaggio alcuna contropartita, e per ottenere obbedienza controllando i voti di una provincia, e soprattutto di una città che nel primo dopoguerra era stata rossa.

 

Mio padre, mia madre, quasi tutti i miei parenti, molti miei amici nel frattempo sono morti a causa dei tumori. Probabilmente non tutti per le polveri dell’acciaieria. Ma intanto Locorotondo è a poco più di 20 chilometri dall’Ilva, Martina meno, nel mezzo tutta la provincia di Taranto: e nessuno in questi anni si è mai preoccupato. Nessuno ha chiesto che venisse reso pubblico il registro dei tumori della zona. O almeno nessuno lo ha chiesto con la dovuta forza. Nessuno ha chiesto spiegazioni sul quell’altro indotto: quello che si chiama morte per assassinio.

Fino a quando, mei concittadini, dobbiamo sopportare tutto questo? Fino a quando le polveri, quelle altrettanto vere che ci rendono ciechi e sordi, ci impediranno di vedere e di ascoltare il grido che viene dai nostri morti?

 

6 Novembre 2019, San Leonardo

 

 

 

Potrebbero interessarti anche...