Il bambino che è in noi: “Prefazione” di Carla Rinaldi

Prefazione

 

 

Sono amica da lungo tempo di Deliana Bertani e di Leonardo (Dino) Angelini. Conosco Deliana fin dai tempi dell’adolescenza e in tutti questi anni ho condiviso con lei idee e progetti, sogni e speranze. Altrettanto ho fatto con Dino allorché all’inizio degli anni ’70 arrivò a Reggio Emilia.

Avevo letto ed apprezzato ‘Il bambino che è in noi’ allorché nel ’95 era stato pubblicato. Nel rileggerlo, ora che Deliana e Dino ce lo ripropongono, mi sono tornate in mente tante cose che, come un vento caldo, immediatamente sono andate a far riardere forti emozioni che covavano sotto la cenere dei ricordi; e mi sono ritrovata con loro e con tanti altri in quei luoghi della sperimentazione del welfare che ha visto Reggio Emilia come protagonista in quel quarto di secolo che va dall’inizio degli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90.

Dei luoghi che a volte si scomponevano, a volte si univano, in base a visioni dei servizi in ogni caso confluenti nel definire i criteri del prendersi cura dei bambini, dei deboli, dei ‘matti’. Ma anche delle donne che allora, pur essendo statisticamente maggioranza, non erano ancora riuscite a imporsi come soggetti.

Luoghi di cura che, d’altro canto, vedevano accomunate due generazioni: quella dei nostri padri (Renzo Bonazzi, Loris Malaguzzi, Giovanni Jervis, …) e soprattutto delle nostre madri che erano state protagoniste della Resistenza (e stiamo parlando di Loretta Giaroni, Ione Bartoli, Eletta Bertani, Velia Vallini, Lidia Greci …). E la nostra, quella del ’68 che, dopo la fase della critica destruens (della ‘contestazione’), era stata chiamata dalla prima ad entrare come protagonista nei servizi. E cioè nelle scuole dell’infanzia, nei nidi, nel Centro di Igiene Mentale, nelle esperienze del tempo pieno, nell’assistenza, nella medicina del lavoro. E ancor prima nelle colonie: Deliana Bertani è stata una delle protagoniste di quell’esperienza che ancor oggi, nel ricordo di molti, e soprattutto di molte rimane come un primigenio luogo di sperimentazione di una modalità nuova di rapportarsi con i bambini, visti non più come oggetti bisognosi di assistenza, ma come soggetti con cui dialogare attraverso il gioco.

Bambini come soggetti ‘altri’ che da allora in poi in ognuno dei luoghi da loro abitati cominciammo a vedere come portatori di diritti, di bisogni e di un linguaggio, quello del gioco, che impone agli adulti che si dispongono al dialogo ed all’ascolto – siano essi il padre, la madre o l’educatrice – di ritornare alle proprie origini. E non per osservarli freddamente o per etichettarli, ma per porsi attraverso il gioco in una situazione di dialogo e di scambio con ciascuno di essi.

Ed è proprio questo che, fra l’altro, appare con tutta evidenza nel testo che oggi il lettore torna ad avere sotto gli occhi: il fatto che il nido è un luogo in cui – così come poi avverrà in scuola per l’infanzia e in scuola elementare – storie di educatrici e di genitori s’intrecciano in vari modi: come storie di singoli e di gruppi; ma anche come storie legate al presente che, stimolate dalla presenza dei bambini, evocano ‘vecchie’ storie che ora l’esperienza della genitorialità e dell’educazione (ma anche quella dell’accudimento!) obbligano a riattraversare. Con una complicazione in più rispetto ai riattraversamenti successivi: quella derivante dal fatto incontestabile che nei primi due o tre anni di vita, una volta intrapresa la strada dell’educazione, il mestiere di genitore e quello dell’educatrice finiscono sotto molti punti di vista per coincidere, innescando pericolosi fenomeni di concorrenza, di gelosia e di invidia, che richiedono un’attenzione costante.

Le pagine centrali del testo insistono senza infingimenti sull’analisi di questi nodi problematici mostrando ciò che è emerso in varie circostanze nei vari gruppi etero-centrati portati avanti dai due autori in sede formativa insieme alle educatrici e ai genitori coinvolti.

Un altro elemento che rende interessante il testo, anch’esso emerso proprio in questi gruppi, è costituito proprio dall’insieme di riflessioni che le educatrici hanno fatto sul significato che la nascita del nido ha all’interno dei piccoli paesi in cui, alle problematiche legate alla sovrapposizione dei due mestieri di educatrice di nido e di genitore, si aggiunge il disagio derivante dal fatto che nei piccoli paesi diventa difficile definire un ambito di ‘privacy’ per le educatrici poiché è molto facile incontrarsi con i genitori in ogni dove.

Insomma, ciò che emerge quasi in ogni pagina del testo è la sensazione di un profondo coinvolgimento che, per cause diverse, ma concorrenti, prendeva un po’ tutti in quel lasso di tempo. Le educatrici che si trovarono di fronte alle sfide di un mestiere nuovo che quasi imponeva la formazione in itinere. I genitori che furono coinvolti in un progetto sperimentale di ‘maternage moderatamente policentrico’,  che non a caso all’inizio fu osteggiato dagli ambienti più conservatori, ma anche dalla psicoanalisi mainstream. E gli stessi autori che, insieme a un nutrito gruppo di operatori della fascia prescolare, della psichiatria, della scuola e dell’assistenza, in quegli stessi anni, almeno in Emilia e Romagna si ritrovarono ad operare contemporaneamente sui bambini e sulle altre alterità, osando sporcarsi le mani con le riforme.

Oggi la situazione è profondamente mutata: la forza aggiuntiva derivante da quella poderosa spinta iniziale praticamente non c’è più. E le realizzazioni del presente, che pure risentono ancora dell’influsso che viene da quella originaria esperienza, viaggiano con tutto comodo su binari stabiliti. Direi che il fascino che viene dalla lettura delle pagine che seguono può essere uno stimolo per il ritorno ad una sperimentazione basata sulle urgenze del presente.

 

Carla Rinaldi

Reggio Emilia, 23 Aprile 2021

 

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