Finanziamento ai partiti, quei soldi sono una droga

Marco Revelli

(Repubblica, 21/3/2013)

Personalmente credo che sarebbe una buona idea, per Pier Luigi Bersani, accettare di restituire quei 45 milioni di cosiddetti “rimborsi elettorali”. E un buon esercizio mentale, per tutti noi, provare a immaginare un drastico taglio dei “costi della politica”: non solo del finanziamento pubblico, ma in generale del flusso di denaro da cui i partiti politici sono diventati dipendenti, come un tossico dipende dalla propria droga. Credo infatti che il rapporto patologico tra politica e denaro sia diventato, oggi, una questione mortale per la nostra democrazia, sintomo e insieme causa della sua crisi.Si dirà che quelle poche centinaia di milioni di euro di “rimborsi” sono una goccia nel mare del nostro gigantesco debito pubblico. Che la loro eliminazione non risolverebbe i nostri problemi economici. Ed è vero. Ma, intanto, occorrerebbe tener conto di tutte le voci che contribuiscono a formare il budget dei partiti, aggiungendo alla punta dell’iceberg del finanziamento diretto l’enorme massa di quello indiretto: i 250 milioni annui erogati a deputati e senatori; i circa 3 miliardi investiti annualmente per i centocinquantamila appartenenti agli organi rappresentativi regionali, provinciali e comunali, e gli altri 3 miliardi destinati allo sterminato esercito dei titolari di incarichi o consulenze per le amministrazioni pubbliche, reclutati in base alle rispettive appartenenze partitiche; oltre ai 2 miliardi spesi per i 24mila membri di nomina politica delle circa settemila società partecipate.E poi, come in ogni buona analisi economica, bisognerebbe tener conto del trend, davvero esplosivo, del fenomeno: la campagna elettorale del 2008 è costata alle casse pubbliche dieci volte di più di quella del 1996!Intendiamoci, la tendenza è generale, riguarda tutte le democrazie occidentali (anche se in Italia, come al solito, si manifesta in forma abnorme). Kennedy e Nixon, nel 1960, avevano speso rispettivamente 9,7 e 10,1 milioni di dollari; Obama e Romney, nel 2012, ne hanno investiti 2 miliardi… In Francia il finanziamento pubblico ai partiti è cresciuto, nel corso degli anni ’90, del cinquecento per cento. Nemmeno la sobria Germania si salva: nel 1959 il finanziamento diretto era di cinque milioni di marchi, alla vigilia dell’entrata nell’euro era salito a oltre trecento milioni, e si calcola che con quello indiretto oggi si giunga a circa un miliardo e mezzo di euro.Ovunque la quantità di denaro necessaria ai partiti politici aumenta esponenzialmente, in proporzione diretta, potremmo dire, alla loro crisi di fiducia e alla difficoltà di procurarsi, con mezzi politici, il consenso necessario a svolgere il proprio ruolo di rappresentanza. Ciò che un tempo si producevano da sé – la fedeltà dei propri militanti e dei propri elettori, l’immagine pubblica connessa ai propri valori e alla propria cultura politica –, oggi se lo devono procurare sul mercato. Detto volgarmente, se lo devono comprare, pagando una pletora di seguaci-dipendenti, e acquistando di volta in volta, con operazioni di marketing, la propria immagine di fronte a un elettorato scettico e volubile. Così come l’economia reale si è finanziarizzata, producendo quello che Luciano Gallino ha definito il finanz-capitalismo, allo stesso modo la politica si monetarizza, in una sorta di finanz-democrazia.Per questo i termini classici del dibattito sul finanziamento pubblico non valgono più: se un tempo esso serviva per liberare la politica da vincoli di mercato, oggi esso sancisce la riduzione della politica al mercato. La sua mercatizzazione. E vanno per questo motivo ripensati.

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