Che ci azzecca il Reggio Approach con la riabilitazione?

di Dino Angelini

 

Schermata 2016-06-23 alle 11.42.09L’altro giorno ho letto incredulo (su “Prima Pagina” del 23.6.16 a pag.3) che il sindaco Luca Vecchi tende ad ascrivere a Reggio Approach il discorso reggiano sulla riabilitazione. Ora è vero che ciò di cui si stava parlando è la riabilitazione dei carcerati, ma siccome la stampa è letta da chi – sia per ragioni anagrafiche, sia per una inveterata tendenza da parte dei media a rendere non accaduto ciò che non rientra nei canoni di uno storytelling addomesticato –  sa poco o nulla di quel tratto della microstoria locale che ha a che fare con la riabilitazione, una puntualizzazione su ciò che è stata la tradizione reggiana in tema di riabilitazione mi pare d’obbligo.

A Reggio Emilia il discorso sulla riabilitazione nasce nel Centro d’Igiene Mentale (CIM) di Jervis all’inizio degli anni ’70 dal lavoro di deistituzionalizzazione e di reinserimento nella società degli adulti, e soprattutto dei bambini ‘matti’ e disabili fino ad allora reclusi nel San Lazzaro. Lavoro che fin dall’inizio fu contraddistinto da una propensione alla riflessione sulla pratica quotidiana[1] che impediva l’assunzione di posizioni ideologiche e aprioristiche, a favore di un apprendere dall’esperienza particolarmente importante nel momento in cui si consegnava alla città ed al territorio ciò che ‘per ragioni di polizia e di pulizia’ (Foucault) fino ad allora era stato tenuto nascosto.

Ho avuto modo di far parte fin dal settembre ’71 del Gruppo Infanzia del CIM, per cui sono testimone diretto, insieme a centinaia di operatori che poi si aggregarono al nostro gruppo, di quel lavoro, e leggere che “la riabilitazione è al centro del Reggio Approach” per me è una dichiarazione ‘negazionista’.

Impiegammo più di otto anni per chiudere il Se Sanctis, cioè il reparto infantile del San Lazzaro. La stessa cosa facemmo con vari altri istituti (per ciechi, sordi, sordastri), con le varie scuole e le varie classi speciali e, in una parola, con gli altri gironi dell’esclusione; riportando a casa e in scuola ‘normale’ centinaia di bambini e di adolescenti, usando l’insegnante di sostegno prima che il ministero istituisse questa figura a livello centrale. Recuperammo al lavoro di equipe e al territorio tutti gli operatori che lavoravano negli enti disciolti. E riflettendo sul lavoro ben presto non ci accontentammo più di ‘inserire’ i bambini a scuola e di reinserirli a casa, ma inventammo, sperimentammo e perfezionammo nel tempo un modello reggiano di riabilitazione. Per una storia del Gruppo Infanzia del CIM vedi: Appunti per una microstoria dei servizi psichiatrici per minori di Reggio Emilia dal 1968 ai giorni nostri.

La stessa cosa – mutatis mutandis – fecero con gli adulti gli operatori del CIM che lavoravano per la chiusura degli altri reparti del San Lazzaro. Ora dov’era il De Sanctis ci sono le scuole elementari e medie di Ospizio. Dov’erano gli altri reparti per gli adulti ci sono gli uffici dell’Ausl e il campus universitario. Mentre la piscina del De Sanctis ora serve tutti i bambini della città.

Il rapporto con la scuola, che all’inizio – con una lettera firmata da 509 docenti – rifiutò gl’inserimenti, è proseguito (anche grazie alla disponibilità dell’ispettore Sergio Masini, un altro grande dimenticato dalla città) sotto il segno di una collaborazione sempre più stretta non solo sul piano della consulenza, ma anche su quello formativo: fummo noi psicologi e neuropsichiatri del CIM ad esempio a formare, insieme a Masini e per conto del Provveditorato, le prime generazioni di docenti di sostegno della provincia.

Il lavoro poi si estese agli adolescenti per i quali furono allestiti programmi riabilitativi e assistenziali flessibili, capaci di predisporre programmi di crescita realistici e non ‘destini’ irrevocabili, come ebbe a dire una di noi. Mentre con le famiglie fu intrapreso, sotto la supervisione di Massimo Amanniti, un programma di counselling psicologico, mirato ad aiutarle nei vari momenti critici.

Nacquero così degli ‘operatori di frontiera’ che non miravano più a disporsi come ‘doganieri pavidi’ incapaci di accogliere l’altro da me (la definizione è di Diego Napolitani), ma come tecnici in grado di definire, attraverso la riabilitazione, percorsi individuali autentici all’interno della società.

Il tutto sfociò nella stesura di protocolli d’intesa con le scuole ‘di ogni ordine e grado’. E se proprio vogliamo dirla tutta fu proprio Malaguzzi a mal sopportare, almeno in un primo tempo, il confronto nei nidi e nelle scuole per l’infanzia con questi operatori della riabilitazione, optando per una soluzione più integrale ed interna del sostegno[2]. Altro che Reggio Approach!

Questo vero proprio modello entrò in crisi col passaggio dalla prima alla seconda repubblica, all’inizio per cause esogene e prettamente politiche: cosicché sotto le mentite spoglie del risparmio accadde che il welfare, e soprattutto quegli aspetti del welfare che avevano a che fare con “la famiglia” (e non a caso uso il singolare!), fu dato in appalto essenzialmente ai vari carrozzoni messi su dai popolari. E senza concorso, così come prevedeva la nuova legge Bassanini. E cioè favorendo senza controlli gli amici degli amici![3]  –

Successivamente e, direi, di conseguenza, in base ad una selezione che mirava a porre in mano i servizi riabilitativi a quei dirigenti più propensi a ragionare in base a questa nuova politica psichiatrica, sono state approntate nuove soluzioni per i problemi delle varie alterità: a volte in continuità con le pratiche precedenti, a volte in profonda discontinuità con esse; e in tutti i casi volte a spendere meno per il welfare grazie alla precarizzazione del lavoro dei nuovi operatori del privato sociale[4].

Vedi su tutte da una parte la nascita delle ASP, dall’altra quella del cosiddetto Minicomio, che hanno visto emergere una nuova classe di tecnici disposta a buttare a mare porzioni crescenti dei servizi pubblici: – per compiacere, attraverso operazioni clientelari e perfino immobiliari (come è il caso del Minicomio), i grandi elettori cattolici e non; – e soprattutto per devitalizzare un’esperienza territoriale esemplare onde poter tornare al vecchio e tranquillo mestiere del doganiere pavido di cui parlava Napolitani.

—————————————————————————————

[1] Esiste una ricca bibliografia sull’argomento. Cfr.:  Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, 1975;     – Leonardo Angelini, Deliana Bertani, Giovanni Bilancia, Giovanni Polletta, Carla Tromellini … [et al.], Deistituzionalizzazione : l’esperienza del De Sanctis di Reggio Emilia, prefazione di Egle Becchi, Firenze, La nuova Italia, 1977;   – Giovanni Polletta, Educazione e abilitazione del bambino a rischio di handicap, Roma : NIS, 1982;   – Giovanni Bilancia, Paolo Capurso, Giovanni Polletta, Dalla diagnosi neurologica precoce al servizio di tutela della prima infanzia : esperienza dei servizi territoriali di Reggio Emilia, Roma, Bulzoni, 1982;   – Leonardo Angelini, Deliana Bertani (a cura di), Setting riabilitativi con gli adolescenti handicappati, Usl di Reggio Emilia, 1990, con introduzione di Marcella Balconi;    – Leonardo Angelini, Deliana Bertani, Giovani uguali e diversi, Il lavoro degli psicologi con adolescenti disabili, Edizioni Psiconline, Francavilla al Mare (CH), 2010

[2] Cfr.: Cristiani a Confronto, Reggio E., N. 21, del Nov.\Dic. 1977, pp. 21-26

[3] a proposito si potrebbe sapere come l’Ovile ha ricevuto l’appalto per la riabilitazione nelle carceri? Ci sono stati dei concorrenti? E nel caso quali sono i meriti in base ai quali l’Ovile ha vinto la concorrenza?

[4] Un po’ com’è successo con le scuole (post-)malaguzziane, che con la famosa Intesa hanno fatto comunella con le private per compiacere i nuovi alleati ex-democristiani poi entrati nel PD.

Potrebbero interessarti anche...