Una storia lunga sessant’anni

Dondero7di Leonardo Angelini

   (premessa a “Quando saremo a Reggio Emilia. Gli psicologi, il welfare e le trasformazioni della società reggiana dal dopoguerra ai giorni nostri”, di L. Angelini, Psiconline, 2014)

Quasi tutti gli scritti raccolti in questo testo derivano dalla trascrizione di lezioni tenute, prevalentemente ad operatori del welfare reggiano, in vari ambiti formativi.

Lo scritto più recente (La scuola di ieri e quella di oggi a confronto) è del 2010; mentre lo sritto meno recente – e sicuramente più datato – il lavoro sugli asili nido che risale al 1984 \ 85.

A parte questo lavoro – che lascia in sospeso una storia delle istituzioni della prima e della seconda infanzia che poi, sappiamo, ha avuto una sua evoluzione, per certi versi gloriosa – tutti gli altri si collocano nel quindicennio scorso e perciò, con qualche aggiunta e con alcune puntualizzazioni, possono tranquillamente essere ascritti all’oggi.

Però, dato che in taluni casi le aggiunte e le puntualizzazioni possono contribuire a gettare una luce più vivida sul presente – e con ciò rendere più facile la messa a fuoco su ciò che è accaduto di recente in questa città che è stata una delle fabbriche del welfare dei servizi in Italia – mi preme in questo scritto introduttivo fare qualche rapido cenno ad esse.

Lo farò a partire da un riattraversamento delle tre sezioni che compongono il testo, in modo che le righe che seguono possano diventare anche un sunto di ciò che il lettore troverà nel testo stesso.

  1. A) Nella storia del welfare reggiano a mio modo di vedere sono distinguibili quattro fasi:

– quella che ho definito della “controcultura comunista” che prende tutto il primo dopoguerra fino alla vigilia del ’68, che vede soprattutto il movimento femminile comunista lottare per la nascita del welfare;

– questa prima fase viene superata allorché nascono il centrosinistra e le regioni. In quel momento, mentre nell’Italia “democristiana” prevale un welfare dei sussidi, in quella “comunista” si diffonde il welfare dei servizi.

Ciò a Reggio significa la nascita di veri e propri centri di libertà e sperimentazione che avranno vari punti di eccellenza. Si va dal CIM guidato da Jervis, alla medicina del lavoro, alle esperienze di tempo pieno nelle scuole e, prima ancora, alla nascita delle scuole per l’infanzia e dei nidi comunali in tutta la provincia, ed in particolare a Reggio città con l’esperienza malaguzziana.

– Il passaggio dallo sperimentalismo alla “cultura amministrata” che avviene verso la fine degli anni ’70, segna un primo scacco per il modello reggiano che, immaginato per una società che tende rapidamente a scomparire e non accompagnato da un reale decentramento amministrativo e fiscale, comincia a perdere la propria funzione redistributiva e, paradossalmente, a favorire a livello locale il partito degli evasori e della rendita finanziaria.

– Infine con la crisi della prima repubblica e con la nascita della seconda sia il welfare dei servizi che quello dei sussidi si ridefiniscono sotto il segno dell’aziendalizzazione e del rigore che tradiscono, sia nella versione prodiana, sia – in maniera più violenta – in quella berlusconiana, le ragioni redistributive, di tutela e di benessere che erano alla base della nascita del welfare, e lo accompagnano verso il declino.

Ciò che voglio sottolineare in proposito è qualcosa che agli inizi della seconda repubblica era possibile solo intravedere, ma ora è molto più evidente: è stato dall’incontro fra quegli ex-PCI e quegli  ex-DC che costituiscono l’ossatura del nuovo centrosinistra locale che nasce a Reggio E. (ma da quel che so la stessa cosa avviene un po’ dappertutto in Emilia e Romagna) un nuovo blocco sociale che s’incardina intorno ai seguenti vettori:

– la speculazione edilizia che va cementificando le città, incanalandole sempre più in una vera a propria situazione di stress ecologico, oltre che di rischio da un punto di vista della legalità: vedi in particolare a Reggio il discorso sull’Area Nord e sulla stazione mediopadana;

– la finanziarizzazione dell’economia ed il suo doppio allontanamento dall’economia reale e dal territorio locale, che a Reggio da qualche tempo vede come protagoniste perfino le coop, che in questo modo si vanno sempre più allontanando dalla loro funzione di ammortizzatori sociali. Ciò ha determinato una profonda discontinuità con quello che fu negli anni ‘70 il comportamento dei protagonisti del boom economico emiliano e reggiano di allora che – non dimentichiamolo – reinvestivano nell’innovazione e nella produzione locali.

– l’assalto ai beni comuni, che ha in Iren e in Hera i suoi capisaldi, e che consiste essenzialmente nella  finanziarizzazione dei servizi e nella privatizzazione dell’acqua in tandem con l’alta finanza italiana e vaticana.

– E da ultimo la sostanziale privatizzazione e, per molti versi, clericalizzazione del welfare locale, che nel caso di Reggio parte dall’importazione del modello bolognese di convenzione con il privato nelle scuole dell’infanzia per giungere più di recente  alle ASP (Aziende di Servizi alle Persone), alla privatizzazione delle Farmacie Comunali, etc. –

Quale fine facciano in questo nuovo quadro le preoccupazioni redistributive e compensative delle vecchie amministrazioni penso sia fin troppo chiaro.

  1. B) Il nuovo operatore psichiatrico, quello che fin dagli inizi degli anni ’70 operava nei nuovi servizi territoriali, veniva visto da Diego Napolitani – uno dei miei maestri – come un “operatore di frontiera” che – al contrario di ciò che accadeva al vecchio operatore, visto da Napolitani come un doganiere pavido che non lasciava passare alcuna alterità nei territori bonificati della normalità – si poneva impavido su quel luogo liminare per incontrare “l’altro da me”, per ascoltarlo, per dialogare con lui senza alcun timore per le caratteristiche perturbanti del suo essere, del suo dire, del suo pensare e desiderare.

Ciò che ho cercato di mettere in luce nella seconda sezione del testo – centrata sulla definizione dei profili identitari dei protagonisti del welfare – è la sovrapponibilità fra questo operatore di frontiera – quello della psichiatria – e gli altri operatori dei vari comparti del welfare locale, almeno qui a Reggio Emilia.

E ciò non solo perché anch’essi si dispongono impavidi nei confronti delle varie alterità di cui si prendono cura (i bambini, i malati, le donne, i giovani, etc.) , ma anche perché all’interno di questo processo di avvicinamento alle varie alterità sono sottoposti a processi di definizione, o di ridefinizione della propria identità professionale:

– di definizione per le nuove identità professionali – come quelle dello psicologo, di NPI o di operatore di asilo nido – che si forgiano per la prima volta all’interno del welfare;

– di ridefinizione – come avviene ampiamente per lo psichiatra, per il docente, per l’operatrice di scuola materna, etc. – cioè per le vecchie identità che, di fronte a ai nuovi sistemi di cura, devono rinascere a nuova vita.

Un altro elemento che accomuna tutte queste identità professionali è la sperimentazione, sul piano metodologico, di nuovi luoghi della riflessione e della decisione in cui i rapporti gerarchici sono temperati da una orizzontalità che libera la creatività di tutti e promuove lo spirito critico: nei casi più estremi al posto della competenza; normalmente insieme ad essa.

Là dove in precedenza c’erano dei “tecnici” che “non si ponevano il problema della cosa” – per dirla con Adorno – si cerca di far nascere a tutti i livelli degli “esperti” che si pongono criticamente nei confronti della “cosa”, cioè dei problemi, e che non rinunciano ad avere una visione complessiva di ciò che accade. Basta considerare l’importanza che in questi contesti di cura prende la prevenzione, per rendersi conto di che cosa questo significhi.

In questi nuovi luoghi anche la formazione si ridefinisce e si ricolloca, spesso all’interno di reti che a volte si sovrappongono in termini interdisciplinari, a volte si dispiegano in termini monoprofessionali e specialistici, sempre s’influenzano vicendevolmente e sempre nascono da bisogni reali e non da istanze narcisistiche volte a ri\dirsi tautologicamente quanto si è bravi.

Attualmente questo modello praticamente non esiste più: sono state le torsioni a cui in ogni istituzione è stato sottoposto dalle varie burocrazie che hanno segnato la sua decadenza e – da ultimo – la sua fine.

Ma il colpo mortale è giunto dai processi di aziendalizzazione che hanno reso perfino sospetto qualsiasi cenno che vada nel senso della discussione e della critica.

Il processo di aziendalizzazione è figlio della seconda repubblica ed è fondato sul trasferimento tendenziale del lavoro di cura dall’ambito della spesa a quello delle entrate.

Perché questo fine possa essere perseguito è necessario non un ritorno alla vecchia burocrazia, ma la nascita di una nuova “dirigenza” che – ancora con qualche eccezione – più che in base alla competenza viene selezionata in base all’appartenenza alle varie oligarchie politiche che si occupano – ed “occupano” ormai – le istituzioni.

In barba a quanto volevano farci credere nel momento iniziale, il risultato è stato innanzitutto l’aumento dei costi del welfare, che dai manager pubblici ormai da anni viene spacchettato e dato in appalto al privato profit o no profit: a quelli profit quando la componente organica del capitale occorrente ai privati per mettere in piedi il servizio è alta, a quello no profit quando è bassa.

Conseguentemente, al fine di avere un manodopera fungibile, sia da parte della dirigenza pubblica che da parte di quella privata si va precarizzando e – ovunque sia possibile – dequalificando il lavoro (ad esempio risparmiando sugli aggiornamenti).

Infine – ed è la cosa più lontana dal modo di lavorare in auge fino a vent’anni fa, almeno in Emilia e Romagna – manca una programmazione capace di prevedere i fenomeni e di predisporre piani lungimiranti e flessibili: si lavora in base agli input che provengono dai potentati locali, che vanno non tanto dove c’è bisogno di cura, quanto là dove si può lucrare sulla cura.

In questo clima può accadere di tutto.

Si va dalla rinascita – sia pure in scala ridotta – di luoghi separati, a volte anche promiscui, che si affiancano o si sostituiscono alle vecchie equipe territoriali, all’Intesa, cioè all’appalto alle materne private, per lo più cattoliche; appalto che, in barba al dettato costituzionale, prevede un congruo contributo comunale e – implicitamente – un depotenziamento dell’intervento diretto da parte dell’ente locale.

Da una assurda concorrenza fra scuole per accaparrarsi i finanziamenti che avviene senza alcuna analisi di tipo previsionale sui futuri bisogni di manodopera del territorio, ad una privatizzazione dell’assistenza che, attraverso le ASP, e mille altri rivoli giunge ai soliti potentati locali – gli stessi che cementificano le città, manovrano le banche e privatizzano i beni comuni – che apparentemente sono a valle dell’appalto, in effetti a monte di tutto: l’esempio parmense in questo caso forse è il più scandaloso.

Per non parlare del singolare destino dei nidi e delle scuole per l’infanzia malaguzziane che nella pratica di tutti i giorni sostanzialmente perdono le funzioni di tipo compensativo che furono fra le principali ragioni del loro nascere, sulla spinta del movimento femminile comunista.

Mentre a livello si facciata vendono in giro per il mondo un modello mummificato, dietro al quale passano gli accordi con le private cattoliche: cuore pulsante dei nuovi accordi fra i vari potentati che si spartiscono la città.

E ciò proprio nel momento in cui la società reggiana, diventata nel frattempo multietnica, avrebbe nuove e più profonde ragioni per rispondere laicamente, efficacemente e soprattutto precocemente alle nuove esigenze di tipo compensativo derivanti dal fatto che molti bambini vivono in una situazione di bilinguismo avendo però alle spalle genitori che non padroneggiano l’italiano (la lingua egemone), e perciò non possono aiutarli adeguatamente a conquistarlo prima dell’arrivo in scuola elementare.

Probabilmente una delle ragioni di questo sostanziale scollamento rispetto alle ragioni iniziali è nel fatto che l’esperienza malaguzziana – al contrario di ciò che avveniva negli altri luoghi della sperimentazione – è rimasta sempre incapsulata all’interno di un modello sostanzialmente gerarchico, simile ad una direzione didattica; modello che, evidentemente, ha funzionato per il meglio finché il polso della situazione è rimasto in mani esperte.

  1. C) Nel frattempo il territorio reggiano è in rapida trasformazione e, nell’arco di due sole generazioni è passato da una società contadina e proto-industriale dapprima ad una società industriale, e poi ad una società terziarizzata. Ciò, con il recente arrivo di un altissimo numero di migranti, fa si che i rischi di anomia e di scollamento fra i vari strati e le varie classi sociali siano estremamente elevati.

Nella terza ed ultima sezione si cerca di mettere a fuoco alcuni aspetti di questo cambiamento.

– Innanzitutto si cerca di comprendere il significato della cogestione educativa, cioè di quella esperienza di maternage multiplo che da ormai quarant’anni prende il trenta per cento delle famiglie con bambini sotto i tre anni, ed il cento per cento di quelle con bambini fra i tre e i cinque. Si tratta di un modello moderatamente policentrico, che ha prodotto non solo un nuovo modello di crescita, ma anche un nuovo rapporto fra famiglie e istituzioni prescolari, in cui da una parte e dall’altra si va verso una “professionalizzazione” del proprio mandato.

– In secondo luogo, nella ricerca più lontana nel tempo, si è cercato di osservare il rapporto fra italiano e dialetto a Correggio, una delle città più operose della provincia di Reggio Emilia; di comprendere – più in particolare – ciò che accadeva nel rapporto fra genitori che usavano ancora il dialetto e i loro figli che frequentavano le materne comunali in un momento particolare della storia della città e della provincia: cioè nel momento in cui si compiva il  passaggio dalla società rurale a quella industriale.

Abbiamo così potuto vedere su quali piani il dialetto correggese – che come tutti i dialetti emiliani è un dialetto locale – tendeva a scomparire per cedere il posto all’italiano (prevalentemente sul piano lessicale), e su quali continuava ad opporre una certa resistenza (prevalentemente nella struttura sintattica della frase).

Sarebbe interessante vedere cosa succede ora, sia a livello lessicale che sintattico, a casa e a scuola nella babele linguistica innescata dalla società multietnica.

– Seguono due riflessioni, nate all’interno delle molteplici esperienze con i giovani che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni di lavoro nel pubblico: la prima – Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista – centrata sull’analisi dell’impatto che le nuove strutture sociali (tardo-capitalismo), familiari (famiglia affettiva), etc. hanno avuto sul profilo del giovane reggiano di oggi.

La seconda – Giovani precari sulla linea d’ombra – sui problemi di natura psico-sociale che insorgono allorché, come avviene anche qui, il lavoro si precarizza e conseguentemente diventa più difficile appurare quando si diventa realmente adulti, cosa significa oggi diventarlo, come oggi avviene il passaggio dall’ideale dell’Io megalomanico adolescenziale all’Ideale dell’Io adulto, caratterizzato dalla riparatività: cioè – per dirla in soldoni – come oggi si passa dal sogno adolescenziale al progetto adulto.

– In fine un lungo lavoro di elaborazione di una ventina di biografie di donne delle terza età, che hanno attraversato, da protagoniste nel mondo del lavoro, della politica e degli affetti, tutte le trasformazioni avvenute in questi ultimi settant’anni, con tutte le sorprese che derivano da una storia raccontata dall’interno.

In conclusione una nota di carattere personale:

ho avuto la ventura di vivere a Reggio Emilia e di lavorare fin dal settembre 1972 all’interno dei vari comparti del welfare reggiano a partire dal Centro d’Igiene Mentale guidato da Giovanni Jervis. E ho avuto la ventura di farlo a fianco di Deliana Bertani, con la quale fin dall’inizio ho condiviso praticamente ogni passo che ho fatto nella professione e nella vita.

Per cui sappia il lettore che le pagine che seguono da una parte sono il frutto di una esperienza collettiva che nel tempo ha assunto le caratteristiche di un viaggio di gruppo, fatto insieme a centinaia di operatori, e soprattutto di operatrici, del welfare reggiano, all’interno dei territori della sanità, del sociale, della scuola e della prescuola.

Dall’altra esse sono come tanti punti d’arrivo – sempre provvisori – di uno scambio, direi, totalizzante con Deliana. Scambio che dura da una vita e che per me è stato ragione di vita.

Scambio così intricato che diventa difficile ora dire cosa è mio e cosa è suo.

Per cui, anche se ho scelto di aggiungere il suo nome accanto al mio solo in quelle occasioni in cui testo è apparso originariamente come di entrambi, sento di dovere dire che non c’è rigo del presente lavoro che non sia stato scritto sotto la sua influenza.

L.A.

Aprile 2012

 

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