Ricordo di Gino Palmisano

ginodi Dino Angelini

Ho conosciuto Gino Palmisano verso la metà degli anni ’50. Era arrivato a Locorotondo, da Cisternino, dove era vissuto grosso modo fino alla terza media, insieme alla sua famiglia composta, oltre che da lui, dai suoi genitori Pietro e Italia, e dai due fratelli Lino e Annamaria.

Il padre, già carabiniere – ma proveniente da un’umile famiglia contadina originaria delle campagne fra Locorotondo e Cisternino – all’epoca del loro arrivo a Locorotondo era da lungo tempo in pensione ed aveva trovato lavoro qui in paese presso un distributore di benzina all’inizio della via che conduce a Martina Franca.

In quel periodo Gino già frequentava  con ottimo profitto la scuola agraria Basile-Caramia di Locorotondo, mentre suo fratello Lino era iscritto da tempo al liceo Tito Livio di Martina Franca, dove aveva stretto amicizia con buona parte di coloro che poi diventeranno gli amici locorotondesi di entrambi.

E fu così che, dall’oggi al domani, attraverso questa strada, Gino e Lino entrarono all’interno di un gruppo di ragazzi e di giovani locorotondesi, prevalentemente figli della piccola e media borghesia locale, la maggior parte dei quali faceva parte fin dalla fanciullezza di questo agglomerato spontaneo, poi confluito, solo per qualche tempo almeno per coloro fra noi che crescendo diventarono laici, all’interno dell’Azione Cattolica.

Si trattava di un gruppo verticale che comprendeva sei o sette fasce di età. Un gruppo che perciò, in base a questa moderata asimmetria, era solito stemperare – come qualsiasi altro gruppo verticale mediamente sano – la naturale rivalità, tipica dei gruppi adolescenziali, in un agone centrato sulla lealtà e sulla propensione di tutti alla cooperazione e allo scambio.

Si trattava altresì di un gruppo i cui membri avevano preso a consumare i propri giorni, verso la metà degli anni ‘50, in una sorta di luogo mentale comune, che era fatto di accanite discussioni sia sui grandi temi della vita: quella sull’esistenza di Dio era una delle più gettonate; seguivano a ruota quella di tipo estetico – incentrata sul tema “è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace?”- e quella sul suicidio. Sento ancora la voce di Gino “non vorrete mettere sullo stesso piano il suicidio di Pavese con quello della quindicenne che si è ammazzata perché suo padre non le permetteva di indossare la minigonna?”).

Ma anche la musica (che per alcuni di noi era la musica classica, per altri il jazz, per altri ancora la musica leggera), lo sport erano fra i nostri interessi … giù giù fino a quel cazzeggiare su ogni cosa che – come hanno poi acutamente rappresentato Truffaut e la Comencini nei loro film – fa parte di quella palestra della crescita e della maturazione che caratterizza l’adolescenza, anche se lì per lì appare, specie se guardata dall’esterno, come una oziosa perdita di tempo (per descriverla, lo psicoanalista Donald Winnicott usa la bellissima metafora del “dibattersi nella bonaccia”).

Si trattava infine di un gruppo che viveva – come abbiamo detto prima – fra la seconda metà degli anni ‘50 e la prima metà degli anni ‘60, in una situazione di perfetta marginalità rispetto al mondo adulto ed al paese. Marginalità accentuata dal fatto che questo luogo mentale – il nostro gruppo – si trovava a vivere all’interno di un luogo fisico, il paese, marginale esso stesso rispetto ai grandi fatti del mondo, che a quel tempo a noi giungevano ancora attraverso la radio e i giornali, più che attraverso la TV, che solo allora cominciava ad entrare nelle nostre case.

All’interno di questo gruppo Gino, in base all’età, si trovava in una posizione intermedia: non era fra i più grandi, e neanche fra i più giovani di noi.

A partire da questa posizione mediana però, nel mio ricordo, Gino prese subito ad assumere una posizione preminente, innanzitutto all’interno della conversazione: in base alla sua bontà d’animo e alla sua vivacità intellettuale – doti che condivideva con il fratello Lino e che – sempre nel mio ricordo – provenivano loro rispettivamente dal padre, e dalla madre.

Bontà d’animo, vivacità intellettuale e – aggiungerei – severità solo verso se stessi che li spingeva naturalmente a comprendere e valorizzare sempre l’interlocutore, chiunque esso fosse, ma anche ad esprimere sempre con acume e chiarezza la propria posizione.

Ma Gino primeggiava anche all’interno dello sport, ed in particolare nel calcio: attività che lo vide ben presto nella posizione di allenatore della nostra squadra (posizione, peraltro, alla quale a un certo punto fu costretto, per via della sua malattia).

Allenatore della gloriosa CTG (imbattuta nel ’59!) che ben presto cominciò a scontrarsi sui campi di calcio in epiche battaglie senza pubblico, e con degli avversari che presto divennero gli avversari di sempre: i Cistranìse, i fasanesi, e soprattutto i martinesi di Dell’Erba erano i nostri avversari esterni; mentre sul piano interno altrettanto epiche erano le battaglie con la Mazzola – la squadra degli operai e degli artigiani all’interno della quale ala sinistra era Dudduzzo Pastore, nei primi tempi non ancora nostro amico, ma leale avversario, bravissimo attaccante: capace di mangiarsi un gol pur di non perdere una battuta del suo grande amico Nannino, il centravanti della Mazzola.

Il calcio però non era l’unico sport da noi praticato. Facevamo di tutto e di più, per la maggior parte del tempo: ad esempio per tutta l’estate praticamente ogni pomeriggio correvamo in bicicletta.

Un brutto giorno però, durante una di queste escursioni che ci portava in giro fra Locorotondo e i paesi limitrofi, Gino cadde. Cadde dalla bici e finì su di un “parete” irto di sassi appuntiti. La caduta gli procurò un vero e proprio squarcio al di sopra del labbro, ma a questa, che allora apparve come la cosa più allarmante, posero rimedio dapprima il chirurgo e poi la barba che Gino si lasciò crescere, se non ricordo male prima ancora che venisse di moda.

Ciò che non fu colto subito, ma che presto richiese cure drastiche, fu il fatto che, in base all’impatto della cassa toracica con la pietra, vi fu una fortissima compromissione delle sue capacità polmonari. Gino dovette ben presto rinunciare alla frequenza scolastica, allo sport, e – per lunghissimi periodi – alla maggior parte di quegli agi della vita normale, cui solitamente nessuno di noi fa caso, per essere spesso ricoverato in luoghi di cura che, specie in quell’epoca, erano delle vere e proprie istituzioni totali, chiuse per ragioni sanitarie all’esterno, anche se dotate all’interno di ogni confort.

Da quel momento Gino prese ad entrare ed uscire ciclicamente da questi luoghi, abbandonò per sempre di studi regolari e tenne per sé ogni informazione sulla propria vita là dentro. Per cui presto ci abituammo a vederlo apparire e scomparire da Locorotondo; imparammo a non chiedergli nulla sulla sua condizione e a ricomprenderlo, ad ogni suo ritorno, nel nostro tran tran fatto dei soliti nostri cazzeggi, come se nulla fosse accaduto.

Si andò definendo così nel tempo una nuova modalità di vita da parte di Gino destinata ad influenzare fortemente il suo carattere, la natura dei suoi interessi, il suo metodo di studio.

Affinché voi comprendiate meglio partirò proprio da quest’ultimo punto, il suo metodo di studio: comincia in quel periodo – e a seguito dell’incidente – una modalità di studio del tutto specifica di Gino.

Si tratta di una modalità incentrata su un impegno metodico e accanito che ad esempio lo porterà, dopo un lungo periodo di assenza da scuola, a tentare l’esame di seconda liceo classico (lui che si era fermato alla penultima classe di Caramia) con risultati strabilianti: otto in greco, nove latino – pensate che aveva cominciato a studiarli insieme praticamente un anno prima! – dieci, se non ricordo male,  in italiano .. con una pecca, però: un ‘cinque’  in matematica che spinse assurdamente la commissione d’esame a rimandarlo a settembre.

Sfortuna volle che a settembre Gino stesse male e non potesse andare a sostenere l’esame di riparazione in matematica. Risultato: bocciato! bocciato nonostante in tutte le altre materie avesse preso come minimo ‘otto’!

Si trattò d’uno scandalo. A nulla valse un ricorso, sollecitato da tutti noi e perfino dai nostri genitori; a nulla valse l’appello da noi inviato all’allora neo-eletto presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. E fu così che Gino lasciò lì per sempre gli studi classici regolari e continuò a studiare e ad approfondire per conto proprio le cose che più lo interessavano: cose che erano tantissime e che andavano dalla politica, alla letteratura, all’arte, eccetera.

Ricordo il suo grande amore per Hemingway, il cui ritratto campeggiava sul suo tavolo di studio, insieme ad una foto raffigurante due giocatori di rugby e ad una di Belinda Lee, la bella attrice morta giovanissima in un incidente aereo: tutte icone che a mio avviso ci parlano di lui, della sua vitalità e del suo male.

Diventò un autodidatta tardivo, in grado quindi di approfittare al massimo dei gradi di libertà maggiore che l’autodidatta ha rispetto a chi compie studi regolari, senza perdersi nei vicoli secondari e sterili del sapere, come spesso capita agli autodidatti precoci.

Tardivo e onnivoro, che si immergeva totalmente nella lettura dei suoi autori preferiti e nell’ascolto della buona musica.

Diventato più grande, lui – che era socialdemocratico (un socialdemocratico, però, che leggeva Marx!) e che già era in rapporto epistolare sia con Pellicani (un teorico della socialdemocrazia italiana, che aveva anche una rivista e che era parlamentare dello PSDI) che con Saragat – per un certo periodo visse a Ferrara e divenne segretario proprio di Pellicani, che evidentemente aveva capito che Gino, pur non avendo fatto studi regolari, – come si dice a Locorotondo – jère ‘nu pìzze de ròbbe! Constatazione che più tardi, da quanto mi risulta, ha fatto anche l’editore Laterza nell’assumerlo come redattore.

Gino proveniva da una famiglia cattolica (come sapete, suo fratello Lino diventò poi sacerdote) e, in quel contesto, dirsi socialdemocratico diventava già un elemento di distinzione e di rottura; in secondo luogo, come sappiamo, Gino si trovò a vivere fuori dal mondo la fine dell’adolescenza, periodo in cui molti allora cominciavano a maturare una posizione politica.

Fuori dal mondo, ed in quei luoghi separati ed ovattati in cui la maggior parte delle cose mondane dovevano apparirgli come sfuocate: ne so qualcosa io che ho avuto modo di frequentarlo – come dicevo prima – poco prima del 68 ad Arco e che discutevo con lui delle cose che andavamo facendo a Trento all’interno del gruppo di studenti che stava per diventare il nucleo centrale di quello che pochi mesi dopo diventerà il ‘68 trentino. Lui ascoltava, mostrava interesse, ma, anche se non lo diceva, io sapevo che il suo pensiero rimaneva distante dal mio.

Subito dopo, a poco a poco, e per vie sotterranee, gli ideali del ‘68 finalmente entrarono dentro di lui, lo condussero ad allontanarsi dal suo ideale socialdemocratico, e si coniugarono felicemente con tutte quelle sue parti interne più profonde: politiche, pre-politiche e caratteriali che lo abitavano da sempre, dando origine a quello che potremmo definire come il profilo adulto di Gino.

Il ‘68 rappresentò un momento di passaggio e di discontinuità per tutti i giovani di allora: lo fu in particolar modo per Gino che – come del resto accadde a molti in quel periodo – fu come fulminato sulla quella vera e propria via di Damasco che fu il ‘68.

Poco dopo verso la fine del ’68, quando io e mio fratello Antonio tornammo a Loco da Trento con l’idea di fondare un nucleo sessantottino in paese ci trovammo di fronte alla novità: Gino aveva nettamente cambiato la propria posizione politica! Fu allora che insieme a Dudduzzo ed a un già nutrito gruppo di giovani studenti ed artigiani fondammo il gruppo “Che Guevara” di Locorotondo.

Stilammo un documento introduttivo centrato sull’esigenza di fare un’inchiesta maoista – come si diceva allora – cioè trasformativa e non meramente sociologica sulla realtà sociale del paese (inchiesta dalla quale poi Gino trarrà lo spunto per la sua brillante analisi sulla condizione dei contadini locorotondesi), e nacque il gruppo Che Guevara di Locorotondo.

Il Che Guevara fu subito attivo su vari fronti: il primo e più importante dei quali era quello della testimonianza: ciascuno di noi, con lo spessore della propria presenza, con la forza e l’autonomia della propria parola, scritta e orale, nelle iniziative e nei discorsi pubblici sottolineava la presenza di un punto di vista e di azione nuovo in paese, la presenza in esso di una nuova e più radicale opposizione.

In quella sede iniziale, che paradossalmente era collocata dentro uno dei palazzi simbolo dello scempio edilizio che si stava già perpetrando in paese, ci riunivamo spesso insieme ad altri giovani che non aderivano al Che Guevara, ma  che avevano voglia di conoscere le nostre idee e condividere con noi le loro. Ricordo, ad esempio, le accanite discussioni che facevamo con le amiche locorotondesi di Mani Tese[1], che – come noi – sentivano le ragioni dei dannati della terra, ma che cercavano soluzioni diverse e, paradossalmente, meno palingenetiche e più concrete delle nostre: quante litigate abbiamo fatto sulla opportunità o meno di raccogliere fondi per inviare una pompa idraulica in Africa!!

All’interno di queste presenze spiccava quella di Carmelo Giacovazzo, di Martina Franca, già docente universitario a Bari, che non entrò mai nel Che Guevara, ma che – come vedremo fra un po’ – fu decisivo nel determinare il nostro ingresso nella lotta dei coloni martinesi.

La nostra attività, come Che Guevara, oltre che su quest’opera di presenza in paese, era incentrata sul tentativo di cercare una base all’interno degli studenti della scuola agraria e, soprattutto, su quello – senz’altro più riuscito – di estendere la nostra influenza fra i giovani apprendisti che lavoravano nelle botteghe artigiane. Apprendisti  che presto divennero il nerbo del Che Guevara e, successivamente, della sede locorotondese del Circolo Lenin di Puglia.

L’incontro con il Circolo Lenin di Ceglie, prima, e l’ingresso nel Circolo Lenin di Puglia, poi, avvennero a partire da Trento: fin dal 64\ 65 si era formato a Trento fra gli studenti meridionali di sociologia quello che oggi si chiamerebbe un gruppo di lettura e di discussione sui problemi del meridione (gruppo che comprendeva – per dirvi un nome poi diventato famoso nel campo della politica italiana e della lotta mondiale contro la droga – il calabrese Pino Arlacchi; ed – oltre a lui – siciliani, pugliesi, abruzzesi, lucani e campani).

A partire dalla pubblicazione su “Nuovo Impegno” – una delle riviste più autorevoli della sinistra radicale di allora – dello scritto di Pietro Mita[2], fondatore del circolo Lenin di Ceglie,  sulla condizione dei contadini e dei braccianti del sud, e dalla notizia che stava partendo a Ceglie una dura lotta dei braccianti guidati dal Circolo Lenin locale nacque l’idea di uno di noi meridionalisti trentini in erba, l’abruzzese Claudio Renzetti, detto Ciccillo – attuale sociologo clinico e redattore della rivista di Don Ciotti “Animazione Sociale” – di scendere giù a Ceglie.

Mio fratello Antonio in quei mesi era a Locorotondo, così Ciccillo, Antonio e con loro Dudduzzo, entrarono in rapporto con il Circolo Lenin di Ceglie; e da quel momento il Circolo Lenin di Ceglie non fu solo una, pur interessantissima sigla posta sotto ad una fresca analisi della situazione contadina e bracciantile di quegli anni, ma un gruppo in carne ed ossa, peraltro vicinissimo a Locorotondo.

Cosicché presto entrammo in contatto con i compagni di Ceglie proprio mentre cominciavamo a trarre i primi frutti, sul piano della pratica, nonché della riflessione sulla pratica, di quel lavoro di inchiesta cui accennavo prima, che stava avvenendo a Locorotondo sotto la direzione e l’impulso di Gino.

Legammo subito! E pochi mesi dopo eravamo, con i giovani della sinistra radicale di Ceglie, Bari e Lecce, una delle quattro realtà che fondarono il Circolo Lenin di Puglia.

La trasformazione del Che Guevara in sezione locorotondese del Circolo Lenin di Puglia non comportò alcuna defezione: il gruppo locorotondese ormai era stabile, ed anche le frequenti partenze per il Nord o verso la Germania, da parte di alcuni giovani compagni costretti a migrare, non significò mai un allontanamento di alcuno di essi dal Circolo Lenin di Puglia.

Chi di voi ha avuto la ventura di far visita illo tempore alla sede locorotondese del Circolo Lenin (quella posta di fronte alla Chiesa Madre) avrà notato un manifesto bellissimo, affisso proprio di fronte all’ingresso, sul quale campeggiavano una enorme bandiera rossa e un semaforo acceso sul verde, con una scritta in tedesco: “Grunen licht fur rote fahne” letteralmente “luce verde per la bandiera rossa”. Ebbene quel manifesto era stato portato Locorotondo da uno dei nostri iscritti, emigrato in Germania.

Gino divenne ben presto l’animatore della sede, frequentata anche da una giovane maestra barese, Marisa, che aveva avuto un incarico a Locorotondo e che presto diventerà la sua compagna.

La spiccata propensione di Gino a fare proseliti e, soprattutto, alla cura e alla educazione dei neo-iscritti una volta che essi si erano avvicinati al Circolo Lenin, la dolcezza del suo carattere che, direi, gli impediva di assumere atteggiamenti astiosi nei confronti sia degli amici che degli avversari, la sua acuta intelligenza, la sua sensibilità, il suo rigore (che era presente anche in Lino, e che – come cercavo di dire all’inizio – non si esprimeva mai in una pretesa verso gli altri, ma solo come un dovere di coerenza interna), e il suo sapere lo portarono ad assumere un ruolo dirigente sia all’interno della sede locorotondese che, più in generale, nel gruppo dirigente del Circolo Lenin di Puglia.

Dell’inchiesta locorotondese lui curò soprattutto la parte sui contadini. E, quando Carmelo Giacovazzo – ‘U Professòre[3] – ci chiamò a guidare con lui la lotta dei coloni martinesi contro i padroni assenteisti, Gino partecipò, insieme a tutti noi a quella lotta che si concluse con uno sciopero e una manifestazione per le vie di Martina. Manifestazione all’interno della quale ho potuto vedere con i miei occhi di quanta dignità e di quanto sobrio orgoglio siano capaci i contadini nell’espressione corale delle proprie ragioni e dei propri diritti.

Oltre che in quella direzione, la nostra attenzione al mondo contadino locorotondese, lasciati da parte i democristianissimi coltivatori diretti, allo stesso tempo attori e vittime del modello clientelare locorotondese, si concentrò sul fenomeno delle giovanissime  braccianti che, reclutate da caporali senza scrupoli e spesso sporcaccioni, raggiungevano ogni giorno il metapontino a bordo di quei famosi pullmini Volkswagen che partivano da Locorotondo e dai paesi circumvicini ancora nel cuore della notte di ogni santa giornata, sovraccarichi di ragazze fra i 15 ed i 25 anni che poi, spesso, già a trent’anni avevano la schiena rotta dalla fatica.

Ma, su questo piano, subito la nostra azione si arenò perché – come ben presto capimmo – c’erano mille lacci e laccioli che legavano la loro condizione, realmente bracciantile, a quella dei loro genitori e dei loro parenti coltivatori diretti. Lacci e laccioli che le portavano ad avere – almeno qui a Locorotondo – una visione del mondo non bracciantile, ma “contadina”; e cioè, nel nostro caso, tutta incentrata sulle mille astuzie e connivenze burocratiche in base alle quali i coltivatori diretti, diventavano braccianti, si iscrivevano negli elenchi anagrafici e godevano di tutele di cui non avrebbero dovuto godere.

L’intervento della sede locorotondese del Circolo Lenin di Puglia, guidata da Gino, continuò a concentrarsi sugli studenti e sui giovani apprendisti, ma soprattutto su quella importante opera di presenza e di testimonianza in paese cui accennavo prima: per cui ogni ricorrenza, ogni evento critico, ogni trauma nazionale ed internazionale veniva presentificato al paese, ricordato e interpretato in base alla nostra autonoma visione del mondo.

In uno di questi episodi su un ta-tse-bao gl’inquirenti intravidero qualcosa di grave che semplicemente non c’era. Alcuni di noi finirono per qualche tempo in galera; altri – prevalentemente i figli dei borghesi – furono denunciati a piede libero. In quel periodo io ero già su a Reggio Emilia da oltre un anno, e penso che Gino fosse già Bari. Eppure fummo denunciati anche noi: evidentemente la verità non interessava a quegli inquirenti che, attraverso le manette e le denunce, volevano far chinare la testa a chi l’aveva levata alta e fiera, ponendosi fuori dai balletti dell’arco costituzionale, come allora si diceva.

Volevano ridurre al silenzio una voce scomoda, una voce alta che era diventata capace di articolare un discorso critico, a partire da una visione del mondo che un gruppo di giovani locorotondesi aveva acquisito nella pratica e nella riflessione comune che faceva perno sulla figura, il sapere e l’esempio di Gino Palmisano.

 

[1] ricordo su tutte Rosanna Bagnardi, sorella del nostro amico Sandro, uno degli storici componenti del nostro gruppo adolescenziale

[2] Pietro Mita successivamente è stato sindaco di Ceglie Messapica e deputato in Parlamento.

[3] Carmelo Giacovazzo, già a quel tempo docente di Mineralogia all’Università di Bari, è poi diventato uno scienziato di fama internazionale insignito di vari prestigiosi premi, nonché Direttore dell’Istituto di Cristallografia del C.N.R.

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Una risposta

  1. 28 Agosto 2023

    […] nostri allenatori erano Gino Palmisano e, in sua assenza, Paolo Smaltino. Da loro imparammo subito a disporci in campo: e lo facemmo […]