Di che colonia siete? Appunti per una storia dei movimenti di base del ’68 reggiano

colonia005di Deliana Bertani

 

Dalle colonie di tipo assistenziale a quelle di tipo educativo

Foto piene di bambini in fila, con pantaloncini corti tutti uguali, cappellini bianchi, magliette a righe blu spesso troppo strette o troppo larghe, sandali di plastica. Eccola qui l’immagine a cui tutti pensiamo quando si parla di colonie estive. E la foto, nelle nostre menti, è quasi invariabilmente in bianco e nero, riporta a ricordi d’infanzia un po’ sbiaditi. Non potrebbe essere altrimenti: anche le colonie estive, come tante altre tradizioni, si stanno trasformando in una rarità, un residuo del tempo che fu.

      Persino la parola sta cadendo in disuso ed è più comune sentir parlare di «centri estivi». La differenza però non è da poco: se le colonie si svolgevano al mare o in montagna, i centri estivi sono la loro versione urbana e offrono una serie di attività da fare nelle scuole di città, riaperte per l’occasione. Insomma, addio al fascino della scoperta e della vacanza senza mamma e papà. Addio ai pianti per la separazione da casa, ai pullman dove si cantava “per stare allegri”. Il vantaggio è tutto economico, perché costano meno sia alle famiglie che ai Comuni.

 Un tempo erano soprattutto i Comuni ad organizzarle e finanziarle, il contributo chiesto alle famiglie era molto ridotto e diventava così una forma di assistenza sociale e sanitaria: e cioè da una parte una vacanza anche per i figli di chi non poteva permettersi le vacanze; dall’altra – come dice Mazzaperlini – un momento di prevenzione e di cura di malattie, quali il rachitismo, endemiche un tempo sempre fra le classi più povere del reggiano[1].

Anche il comune di Reggio aveva la sua casa di vacanza che ha una storia, una storia importante per chi l’ha vissuta dagli anni dal 68/69 al 74/75; una storia che non è mai stata raccontata ma che è importante perché anche in colonia in quegli anni sono state fatte sperimentazioni educativo- pedagogiche che ci hanno permesso di riflettere, vedere e cogliere con maggiore competenza e lucidità i processi di interazione fra i bambini, i presupposti e la costruzione delle relazioni, la formazione dei gruppi spontanei e le loro trasformazioni, le relazioni adulto-bambino e i loro mutamenti progressivi, la capacità degli adulti di lavorare in gruppo, le dinamiche di questi gruppi di lavoro.

Si sono fatte modifiche che hanno trasformato la casa di vacanza da istituzione chiusa (totale) e assistenziale a servizio per l’infanzia aperto, a pieno titolo inseribile nel welfare locale nascente; e che anzi ha contribuito a ‘rifornire’ i servizi di personale (prevalentemente femminile) forgiato nelle nuove e aperte Case di Vacanza.

 Non più lunghe file, non più grandi e rumorosi refettori, non più una “signorina” che teneva una squadra, ma gruppi di bambini che insieme ad adulti facevano attività, molte delle quali nella colonia tradizionale non erano mai entrate.

In questa realtà trasformata con passione e con fatica da personale che scopriva ‘facendo’ le proprie capacità, le proprie risorse educativo-relazionali spesso anche “poco ortodosse” agli occhi di chi in città deteneva le “linee guida” del sapere pedagogico e non vedeva di buon occhio quello che riteneva soprattutto confusione.

In questa realtà sono cresciuti molti dei professionisti che dal 1970 in poi hanno contribuito in modo significativo a costruire i servizi per l’infanzia della città e della provincia.

Una storia – dicevo – che non è mai stata raccontata: ma accingersi a raccontare una storia, così come abbozzare una microstoria, è sempre un atto significativo. Così come è un segno la rinuncia a descriversi, ad autorappresentarsi, ad iscriversi all’interno di una propria mitologia familiare. In entrambi i casi si tratta di decidere che atteggiamento prendere non solo nei confronti del passato (del mito), ma anche, e soprattutto di come conciliare e coniugare passato, presente e futuro.

Oggi, in un’epoca di ri\dimensionamento del welfare reggiano ed emiliano-romagnolo (l’ultimo in ordine di tempo potremmo dire) – ri\dimensionamento che sta avvenendo secondo linee di ristrutturazione che in buona parte sono solo il riflesso galvanico di ciò che sta avvenendo a livello nazionale – riflettere sul proprio passato in termini non nostalgici diventa prima di tutto un atto di autonomia.

Tenteremo perciò, con questo spirito, di tracciare il canovaccio di una storia, o meglio, più che una vera e propria storia, il canovaccio di un pezzetto di una microstoria locale, che, per l’adialetticità dei processi di trasformazione in atto nel nostro territorio, rischia, fra un po’, di non poter essere più raccontata, o di esser trasfigurata dal racconto di nuovi soggetti più o meno interessati a rimanere fedeli alla sua trama originaria, più o meno in grado di attingere alle biografie di prima mano che l’hanno sostanziata.

desanctisUna storia di una realtà marginale che si inserisce però a pieno titolo nella storia dei servizi per i minori a Reggio, nella loro profonda trasformazione iniziata negli anni cui facevo riferimento inizialmente, trasformazione che ha significato atti importanti come la nascita dei nidi e delle scuole per l’infanzia, la chiusura dell’IMPP De Sanctis, l’inserimento dei bambini disabili nella scuola normale, la chiusura delle classi speciali e differenziali, l’apertura di un dialogo fattivo con il territorio e soprattutto con la scuola, la nascita di servizi socio-sanitari per l’infanzia.

Gli anni che vanno dal 1969 al 1970\71 sono stati i tre anni clou della storia della trasformazione della colonia: tre anni fecondi di risultati e di scoperte, tre anni che hanno liberato tante energie che si sono riversate poi nella scuola, nelle istituzioni sanitarie ed assistenziali, nel territorio, nel dibattito politico sui temi dell’educazione e della salute dell’età evolutiva, su quelli della partecipazione e della gestione.

In questi tre anni i soggiorni estivi hanno cessato di essere un momento a sé con caratteristiche custodialistiche nel periodo di chiusura della scuola e si sono trasformati in situazioni formative, di sperimentazione e di proposte rivolte alla scuola stessa, alle famiglie e ai cittadini in generale e questo non solo a Reggio ma in tutta la Regione.

Nel documento finale del gruppo di lavoro istituito dalla Regione Emilia e Romagna (1972) per la preparazione dei coordinatori dei soggiorni di vacanza sia diurni che di pernottamento si legge:

”i soggiorni estivi rispondono ad esigenze ed a finalità complesse in quanto si pongono, come obbiettivo, il superamento di interventi puramente assistenziali, cioè strutturati come parcheggi estivi, per qualificarsi come momento di integrazione della scuola, come momento di saturazione di tante esigenze dei ragazzi che la scuola così come è oggi strutturata, lascia insoddisfatte: socializzazione, creatività, bisogno di agire, di fare, di scoprire, di sperimentare. I soggiorni estivi pur rispondendo ad esigenze di particolari carenze fisiche o socio-economiche, devono collocarsi come interventi in grado di favorire nel ragazzo maggiore autonomia, senso critico, propensione alla socializzazione, legati ad una vita comunitaria particolarmente stimolante, devono rappresentare la possibilità di vivere esperienze rapportate al diverso ambiente sede del soggiorno estivo. ….. I soggiorni estivi devono collocarsi nel quadro globale degli interventi che nella realtà del territorio agiscono nei confronti dei problemi sociali ed educativi della popolazione infantile, avvalendosi sia di quelle strutture che nel territorio sono già costituite come risposta ad esigenze specifiche di intervento, sia di quei servizi che nel quadro generale della programmazione dei consorzi socio-sanitari [istituzioni socio sanitarie che hanno preceduto la nascita del SSN] sono in risposta ai problemi globali della formazione dell’infanzia e dell’adolescenza, nella visione politica-sociale che la soluzione di tali problemi comporta. Anche il momento della gestione dei servizi deve essere rapportato sia alle finalità di tipo educativo insite nella modalità organizzativa interna (rapporti interpersonali, dinamiche di gruppo, attività e centri di interesse, inserimento degli handicappati, momenti e strumenti di verifica del lavoro), sia al momento di partecipazione che garantisca concretamente i rapporti di interazione di tutte le componenti sociali e culturali:

  1. a) comitati scuola e città, consigli di quartiere, rapporto con i genitori, i cittadini, le forze sociali
  2. b) rapporto con le famiglie, con gli enti di invio, con il personale educativo e non, con le forze sociali interessate.

c)coinvolgimento di tutti gli organizzatori del servizio non solo nella fase organizzativa e di attuazione, ma nella fase di programmazione.”

In poco tempo sono stati fatti enormi passi in avanti.

Basti pensare che solo pochi anni prima il personale della colonia era assunto con il contratto del commercio; che i bambini delle colonie non potevano varcare, nelle loro passeggiate (in fila, una colonia dopo l’altra sempre avanti e indietro), i confini che ogni comune stabiliva: per es a Cesenatico si poteva passeggiare solo in viale Colombo, quello appunto delle colonie; che i bambini dovevano muoversi sempre in fila, che dovevano all’arrivo lasciare i loro vestiti per indossare la divisa; che i genitori nella domenica di visita dovevano stare fuori della rete di recinzione; che i bambini dovevano essere di sana e robusta costituzione – chi soffriva di enuresi non era ammesso in colonia figuriamoci i disabili, i caratteriali ecc.

In pochi anni la colonia era uscita dal ghetto e aveva assunto una valenza e una considerazione educativa: la colonia del comune di Reggio o meglio il personale della stessa ha avuto una parte determinante in questa trasformazione nonostante le tante polemiche suscitate in questo percorso.

Personale che ha contribuito ad elaborare anche a Reggio una controcultura che aveva propri contenuti, propri metodi di espressione, propri luoghi, propri tempi e propri intellettuali. In questo periodo le istituzioni sono luoghi della cultura dominante: cultura dell’esclusione, della selezione di censo, dell’etnocentrismo. Ci sono stati amministratori avveduti, proprio a cavallo degli anni di cui stiamo parlando, che hanno fatto sorgere, con il concorso degli esperti centri di libertà e di sperimentazione (il Centro di Igiene Mentale ne è l’esempio più chiaro).

La trasformazione della colonia da luogo assistenziale a luogo educativo, come si diceva sopra ha incontrato tanti ostacoli e suscitato tante polemiche sia sul piano dei contenuti che sul piano dei metodi.

A proposito dei metodi si può dire, anticipando un discorso che riprenderemo più avanti in modo articolato e circostanziato,che è in questi anni che nasce “ la partecipazione “che è collegata strettamente in questo periodo alla controcultura e cioè ad una soggettività libera e autonoma che si sviluppa dentro la società dominante come pratica esperienza della “città futura” (vedi ad es. i comitati “scuola e società “nati nei quartieri fuori dai partiti e dai sindacati).

Partecipazione che crescerà (anche se per un breve periodo), uscirà fuori dai luoghi separati in cui  era stata esercitata precedentemente e spesso diventerà la testa d’ariete che condurrà alla conquista delle istituzioni (vedi deistituzionalizzazione dell’IMPP Sante de Sanctis[2], chiusura delle classi differenziali e speciali, chiusura di tutti gli istituti della provincia, scuole a tempo pieno, scuole per l’infanzia, nidi e consultori famigliari partecipazione che tenterà di proporsi su tutto il territorio. Questo termine comincia ad essere usato proprio in questi anni e rappresenta il nuovo luogo nel quale (almeno inizialmente) “centri di libertà e di sperimentazione” si pongono non più in un’ottica di separazione dalla società ma in un’ottica di riforme per ridefinire tutto il sociale, il sanitario e l’educativo.

Torniamo alle colonie: cercando di sintetizzare per punti questo cammino che ha visto intrecciarsi obiettivi sindacali, educativi, di politica istituzionale, di modalità nuove di gestione interna e di sollecitazione alla partecipazione:

– Presa di coscienza delle contraddizioni più palesi: attività sindacale e passaggio dal contratto del commercio a quello delle scuole dell’infanzia. Collegamento con le altre colonie della zona.

– Formazione del personale con stage precedenti l’andata in colonia, inizio della strutturazione di una certa continuità da un anno all’altro del personale educativo.

– Sperimentazione di nuove modalità organizzative. La più significativa è stata l’istituzione del grande gruppo che sinteticamente ha significato:

– eliminazione della cosiddetta squadra (gruppo composto da bambini della stessa età e dello stesso sesso) che molto spesso finiva con l’essere un corpo a sé incapace di comunicare con le altre squadre, e perciò povero di esperienza;

– la possibilità di avere un’equipe di educatori con la conseguente possibilità di offrire un modello poliedrico di adulto eliminando la figura asilare del sorvegliante;

– maggiore funzionalità e varietà nelle attività che cessano di essere passatempi divisi e frammentari ma diventano un modo perché ognuno possa costruirsi il proprio posto, il proprio ruolo, la propria identità. A partire dalla considerazione che la posizione del bambino è diversa da quella dell’adulto, diversa la percezione della realtà, della maggiore o minore dimensione di gruppo a seconda dell’età del bambino, e diversa la sua percezione del rapporto fra realtà e fantasia.

colonia006Il grande gruppo come contenitore di piccoli gruppi alcuni stabili altri, quelli legati alle attività, in continuo cambiamento. Ovviamente i piccoli gruppi hanno un significato diverso a seconda dell’età dei bambini.

 Il grande gruppo è stato il momento più significativo del superamento della vita di colonia tradizionale: i bambini hanno trovato in modo più attivo una loro collocazione; gli educatori (fra i quali per la prima volta a partire ‘69 anche i maschi!) sono stati spinti dall’organizzazione ad una maggiore iniziativa individuale tesa però verso l’equipe, ad affrontare dinamiche di gruppo che hanno modificato molti schemi dei rapporti educativi.

Il grande gruppo ha condotto alla “imposizione” di momenti precisi e frequenti di verifica quindi di discussione dell’equipe degli educatori per affrontare i problemi mano a mano che si presentavano. Per rendere più omogenei e confrontabili questi momenti di verifica sono stati messi a punto degli “schemi di verifica”  su:

  • modi e tempi di formazione del grande gruppo;
  • rapporti tra adulto e bambino;
  • reazione dei bambini nelle varie situazioni;
  • senso nuovo delle attività;
  • bambini difficili e loro inserimento;
  • dinamiche fra gli adulti.

– Eliminazione di alcune limitazioni date dalla ritualizzazione di azioni legate alla quotidianità: entrata in refettorio, andata in bagno, le passeggiate, il sonno, il riposo quotidiano.

– Abolizione della figura dello specialista addetto a particolari attività (sport, attività artistiche, ecc.) e inserimento delle stesse attività nello svolgimento della vita del grande gruppo.

 – Introduzione della figura maschile fra gli educatori.

– Stage residenziali articolati su temi individuati negli anni precedenti:

– L’esperienza del bambino in colonia: partenza e arrivo; distacco dalla famiglia; l’ambientamento nei primi giorni, l’evoluzione dello stesso.

– Rapporto bambino-adulto in colonia: l’accoglienza, i primi contatti; la dimensione dinamico relazionale del grande gruppo; l’adulto come tramite del rapporto con gli altri bambini; l’adulto come modello di identificazione

-La programmazione delle attività: rapporto fra piccoli gruppi e grande gruppo; rapporto fra bambini e bambine; attività di gioco, attività sportive, attività espressive e teatrali; senso delle attività;

– Attività e centri di interesse (su questo torneremo successivamente affrontando il tema autoritarismo / spontaneismo).

– Apertura verso l’esterno: contatti con i genitori; collegamenti con le altre colonie sia a livello sindacale sia per un confronto metodologico – educativo.

– Bambini difficili, bambini con handicap e loro inserimento (anche su questo punto torneremo perché è stato il tema principale di coniugazione della colonia, terreno marginale e limitato, con le istituzioni educative, assistenziali e sanitarie per l’infanzia.

La nuova colonia come esperienza diversa e aperta

Questo lavoro educativo-politico-istituzionale, che abbiamo riassunto nei suoi punti principali, ci ha portato a molti momenti di frizione con le linee educative ufficiali in quel tempo imperanti nelle istituzioni.

L’apertura verso l’esterno, l’attività centrata non più sull’assistenza, ma sull’educazione, e il modo conseguente in cui bambini ed educatori “si presentavano all’esterno” ha fornito un’immagine diversa della colonia. O meglio ha fornito un’immagine, ha testimoniato una presenza di tanti bambini[3] e tanti adulti, presenza che non poteva più essere ignorata perché era riuscita ad avere una voce e soprattutto un pensiero. E questo ha sconvolto l’equilibrio di questo mondo tradizionalmente ghettizzato. Ha costretto le autorità a prendere atto di questa realtà che è riuscita a imporsi non tanto come esperienza pilota o isola felice, ma come modo nuovo, diverso di impostare il lavoro educativo: il rapporto tra pari, così come il rapporto adulto-bambino; e di affrontare coraggiosamente e con spirito aperto e sperimentale le dinamiche che tutto questo presupponeva.

Ciò ha significato quindi colonia come esperienza diversa ma soprattutto aperta, prima e dopo nella vita del bambino, delle famiglie e della comunità: infatti il breve tempo della permanenza rende infatti questo prima e dopo importanti e necessari perché l’esperienza non rimanga una parentesi racchiusa in se stessa.

Diversa – fin quanto ha potuto agire, e per quanto è stato possibile – in direzione delle strutture scolastiche e in generale delle iniziative educative quotidiane nelle quali è inserito il bambino.

Aperta: – in quanto capace di coinvolgere sempre più i genitori; – perché collegata con le altre istituzioni educative del Comune; e cioè con i campi estivi, i doposcuola, ecc.; in quanto capace di definire nuove modalità di consulenza specialistica alle scuole in tema di disagio, handicap; in direzione inizialmente degli operatori delle classi speciali e differenziali, successivamente degli insegnanti titolari e d’appoggio delle scuole normali.

L’obbiettivo è stato quello di trasformare i soggiorni estivi in strutture educative in grado di favorire nel ragazzo maggiore autonomia, senso critico, socializzazione; e in un insieme di interventi centrati su una vita comunitaria particolarmente stimolante, in grado di dare al ragazzo la possibilità di vivere esperienze in un ambiente diverso e più ricco di quello abituale.

Riassuntivamente le aree nelle quali si sono raggiunti maggiori risultati sono state:

–  l’uscita dal ghetto, ed il passaggio da una dimensione custodialistica ad una di tipo educativo e formativo;

– la maggiore considerazione da parte delle amministrazioni locali seppur spesso nella conflittualità (come si diceva più sopra):

– la gestione dei servizi intesa come organizzazione interna, cioè superamento della squadra, e diminuzione del numero di bambini per ogni adulto educatore;

– la elaborazione e sperimentazione di nuove linee educative – pedagogiche -relazionali;

– la scoperta di significati nuovi delle attività: i centri di interesse come modo diverso di rapportarsi dell’educatore con il bambino e dei bambini fra di loro;

 – il superamento dell’attività come passatempo, e la scoperta dell’attività come strumento intorno al quale e col quale costruire la propria identità, arricchire le proprie competenze e le proprie risorse esterne, e soprattutto interne.

Cosa abbiamo voluto intendere con la denominazione “centri di interesse“? L’intelaiatura all’interno della quale ogni operatore, tenendo conto della realtà che lo circonda, delle sue inclinazioni nonché delle caratteristiche dei bambini coi quali deve lavorare, dovrà muoversi e nella quale potrà verificare sia il senso delle attività e dei giochi sia delle dinamiche e le implica­zioni di carattere psico-pedagogico che sono insite nel suo rapporto con i bambini, nei rapporti dei bambini fra di loro, nel rapporto con i colleghi.

Non si tratta quindi di propinare programmi e soluzioni già fatte poiché una dettagliata “prefigurazione” di come “dovrà essere” la giornata dei bambini e dei ragazzi sarebbe prima di tutto velleitaria e soprattutto costrittiva per i bambini e per gli educatori

E’ implicita in una impostazione di questo genere una critica prima di tutto a quei tipi di esperienza che potremmo definire di esasperazione contenutistica, cioè quella tendenza da parte dell’educatore o del collettivo degli educatori a proporre al bambino una serie di tematiche che, per la sottovalutazione sia del modo con cui sono poste, sia degli interessi dell’interlocutore principale (il bambino), finiscono col riproporre gli schemi, i modelli e perfino contenuti che si vorrebbero rifiutare.

Quali sono questi indirizzi?

Prima di tutto la tendenza a proporre i cosiddetti contenuti alternativi che venne rifiutata “in quanto che, oltre a proporre quasi sempre al bambino questi contenuti ricalcando pari pari le modalità e diremmo quasi i riti con cui sono posti i contenuti regressivi da parte delle istituzioni – tendeva a so­vrapporre in ogni caso l’ideologia dell’adulto agli interessi reali del bambino e ad indurre così modelli di comportamento falsamente o superficialmente critici nei confronti dei va­lori che l’adulto intende criticare e, in tutti i casi, opportunistici e piattamente imitativi dei comportamenti e degli ‘ideali’ dell’educatore. Conclusione: i contenuti, alternativi per il bambino, specialmente per i più piccoli, non hanno niente di alternativo.

Molto schematicamente sostenevamo[4] che fare un gruppo di interesse sulla conoscenza dell’ambiente socio-economico circostante in sé e per sé non ha alcun significato alterativo rispetto ad una qualsiasi lezione o ricerca che il bambino fa a scuola se dentro quest’esperienza non passa un diverso modo di rapportarsi dell’educatore col bambino e dei bambini fra li loro.

Ma questo diverso modo di rapportarsi non deve signi­ficare a nostro avviso cadere nella tendenza che è speculare di quella precedente: cioè lo spontaneismo e l’anti-autoritarismo.

Questo tipo di impostazione parte da una giusta critica dell’autoritarismo e dell’adultocentrismo delle impostazioni reazionarie e paternalistiche. Ma, lasciando il bambino ” libero” si libera in effetti quello che c’è già e cioè i contenuti, i modi, gli stereotipi, i pregiudizi che le istituzioni e il mondo degli adulti in generale gli propongono dalla mattina alla sera; e propo­nendosi di non sovrapporsi al bambino e di lasciare “libero spazio” ai suoi interessi non si fa che scatenare quelle esigenze, quelle tendenze che gli derivano da quegli interessi che non sono reali, ma indotti.

Ciò può condurre nel peggiore dei casi al caos ed allo sviluppo di una violenza e di una aggressività che sono esse stesse indotte dalla violenza dei rapporti alienanti all’interno dei quali quotidianamente il bambino si trova inserito.  Nel migliore dei casi si riesce ad attenuare nel bambino l’urgenza derivante da quelle che abbiano definito esigenze e tendenze indotte dagli schemi di comportamento alienati facendolo “sca­ricare”, ma non gli si danno gli strumenti che possono favorire in lui l’accrescere delle sue possibilità di conoscenza.

Abbiamo sottolineato “non si danno” perché la critica fondamentale da farsi agli spontaneisti ed agli antiautoritari sta proprio qui: nel fatto che, da parte loro si mistifica il ruolo dell’adulto: fingendo di porsi come uguali al bambino in effetti ci si pone in una posizione molto comoda, ma profondamente sbagliata.

colonia012L’adulto non è uguale al bambino, non può porsi come spettatore di fronte alla sua crescita, e se lo fa non eserci­ta nessuna funzione educativa, e poiché l’educatore è lui e come tale è vissuto dal bambino (non fosse altro che per il fatto che è adulto), comunque esercita una funzione educativa che è quella o di permettere che passi tutto quello che gli altri adulti intendono  far passare o al mas­simo di fare da camera di decompressione.

Ad esempio, chiunque abbia esperienza di lavoro con i bambini sa che la loro tendenza, se abbandonati a se stessi, dopo un momento iniziale di presa di coscienza del fatto che non c’è nessuna figura che esercita l’autorità, è quella di scatenarsi in giochi violenti e movimenti caotici e di assumere nel gioco e nelle altre attività un atteggiamento piattamente imitativo della realtà degli adulti (calcio per i maschi, gioco delle bambole per le bambine).

 Quindi tutti gli adulti, in quanto tali, consapevolmente o no, prevaricano i bambini.

La prevaricazione però può essere negativa cioè castrante, regressiva, passivizzante, etc., ma può essere anche positiva cioè liberatoria, stimolante, generatrice dell’accrescersi delle possibilità di conoscenza del bambino.

Con la critica a quelli che a nostro avviso sono gli indirizzi da evitare non abbiamo voluto fare un discorso astratto e non attinente al tema, ma prima di tutto dire quello che per noi non va fatto nell’impostazione del rapporto col bambino e, in secondo luogo, far scaturire dalla critica qual’ è il senso che le attività, i giochi, cioè i centri di interesse debbono avere.

Diciamo anche “giochi” perché è importante sottolineare che i giochi non sono da intendersi come qualcosa di diverso e di contrapposto alle attività “serie”, di apprendimento, così come la scuola è abituata a farceli considerare, ma vanno recuperati e quindi reimpostati come strumenti e occasioni di maturazione e di crescita. Senza perdere di vista alcune cose che non sono difficili da individuare:

1) L’età del bambino — All’interno di uno stesso Centro di inte­resse le attività debbono essere impostate diversamente per il bambino di 6 anni e per quello di 12. Il primo ha bisogno di realizzare, di concretizzare quello che sta facendo in un tempo molto più limitato del secondo.

Infatti il bambino di 6 anni non ha le capacità di differire e di programmare a lunga scadenza. Quindi l’attività stessa deve essere articolata sia per quello che si diceva prima, sia perché altrimenti si risol­ve nel non lasciare al bambino piccolo un suo spazio di espres­sione e di creatività.

2) La storia che ogni bambino ha – Cioè tener conto dell’esperienza familiare e scolastica del bambino, di come lui si percepisce e di come lo percepiscono gli altri. Ciò, è chiaro, non per fare una fotografia, ma per impostare realmente una attività di gruppo che parte da un punto dato che è il bambino come  giunge in colonia (valutato o “non valutato” in una certa maniera dalla scuola, condizionato dalla famiglia, portato dall’ambiente alla competizione e quindi frustrato e prepotente etc.) per ar­rivare non ad una improponibile creazione di un bambino diverso, ma semplicemente al potenziamento della sua area di sviluppo au­tonomo; conoscenza di nuovi strumenti, di nuovi giochi, dì modi diversi di usare quelli attuali etc. –

3) Infine è fondamentale considerare dove siamo cosa è, e come è organizzata la colonia. Infatti la partecipazione libera fa si che non possa contare su gruppi fissi tali che in sé stessi tengano legato il bambino sui tempi predeterminati, ma si debba considerare che molto per non dire tutto, è basato sul ruolo dell’educatore, sulla sua capacità di diventare un punto di riferimento che dia continuità all’attività, conservi e tramandi le esperienze del giorno prima, del momento prima, del bambino che quel giorno non è presente.

Senza titolo1L’inserimento dei bambini con handicap

Nei tre anni considerati la colonia ha ospitato numerosi bambini che durante l’anno scolastico frequentavano classi differenziali e speciali, bambini che vivevano in vari istituti della provincia perché illegittimi (allora era ancora in vigore questa denominazione), orfani, bambini difficili con disturbi del comportamento più o meno pesanti, con disturbi dell’apprendimento con handicap più o meno gravi.

Sono stati inseriti ad iniziare dal 1970 / 71 anche bambini ricoverati all’IMPP Sante de Sanctis.

 Stiamo parlando di soggiorni estivi quindi non è questo il luogo per parlare di problemi specifici, è opportuno invece affrontare il problema in relazione all’ansia e all’insicurezza degli operatori determinate soprattutto dalla carenza di esperienza e dalla non conoscenza. L’esclusione del bambino con handicap dalle strutture normali era un dato di fatto suffragato da studi e teorie dei maggiori specialisti dell’epoca quindi l’esperimento di questo bambino nel soggiorno estivo diventa per la comunità fonte di perplessità, di chiusure, di pregiudizi e di “produzione” di stereotipi.

Sono state evitate scelte di specificità e organizzazione di momenti e settori riservati ai bambini con handicap. E’ stato anche superato rapidamente con il fare la credenza che l’inserimento del bambino con handicap nelle attività ludiche e nelle situazioni di gioco fosse più facile rispetto alle pratiche e alle situazioni scolastiche.Questa opinione sbagliata deriva dal fatto di considerare educative e serie le attività di studio, mentre le attività ludiche sono più o meno solo un passatempo.

Questa distinzione non tiene conto dell’impegno globale del momento “apprendimento” che investe gli spazi ludici, le operazioni concettuali, di adattamento al gruppo, di controllo dell’emotività, di proiezione dei propri conflitti che il bambino compie in esse. Un intervento che voglia essere adeguato alle esigenze specifiche del bambino con handicap non può non considerare la socializzazione né metterla in secondo piano rispetto ad interventi specifici  di natura riabilitativa. I due aspetti debbono coniugarsi strettamente per produrre crescita, autostima e fiducia nelle proprie capacità qualsiasi esse siano. L’handicap non è solo dato dal deficit ma da questo e dalla gestione che di questo fa la società.

L’inserimento del bambino con handicap ha dato in generale esiti favorevoli e soprattutto ci ha fornito indicazioni e ci ha sostenuto positivamente nel lavoro di inserimento nella scuola e negli altri servizi esistenti: il punto nodale dell’attività è che debbono essere curati gli aspetti educativi e globali della personalità del bambino.

Le attività del gruppo non possono essere terreno e motivo di competitività, sede di strutturazione di ruoli definiti e rigidi di leader e di gregario. In un gruppo siffatto al bambino handicappato non resterebbe altra alternativa che il ruolo di zavorra da scaricare al più presto. In secondo luogo è opportuno strutturare dei gruppi che, almeno per i ragazzi più grandi gestiscano i problemi e li affrontino e attraverso la discussione e attraverso lo svolgersi delle attività. Il gruppo che riassorbe al suo interno il problema è strutturante anche e soprattutto per i normali. Il ruolo dell’educatore non può essere giocato in modi diretto nei riguardi dell’handicappato.

L’educatore proprio nell’esaltare la discussione, nel rapportarla al mondo esterno e nel recuperare, in termini di esperienza quotidiana, l’emarginazione che tocca l’handicappato ma minaccia gli altri, trova un ruolo nei confronti del gruppo e non di questo o di quel particolare ragazzo.

Nei centri di interesse il nucleo originario si divide, secondo anche le esigenze derivanti dal lavoro in corso e i singoli partecipanti dal centro di interesse rifluiscono al “grande gruppo ”riportando contenuti e dinamiche nuove che,nella discussione comune,diventano patrimonio comune del gruppo. È perciò proprio in questo momento e in questa ricomposizione di ogni singolo frammento di gruppo nei centri di interesse che il lavoro dell’educatore si fa più difficile.

La sua partecipazione e corresponsabilizzazione sono di fatto fondamentali per l’esperienza di una struttura educativa che conseguentemente non può essere verticistica ma partecipata da tutti i suoi componenti: dalla direzione, allo staff degli educatori, al personale ausiliario ognuno con un suo ruolo parametrato e complementare a quello degli altri ma specifico e definito.

In questo contesto la formazione degli operatori è stata fondamentale, formazione che si è basata su presupposti concreti e su momenti di elaborazione, di teorizzazione e di verifica che partono dalla prassi reale.

Abbiamo accennato più volte alle frizioni con le istituzioni e con le concezioni educative dominanti. Inseriamo a questo punto stralci della relazione conclusiva dell’anno 1971; l’ultimo anno della nuova direzione. Relazione che doveva essere presentata ad un convegno che il Comune si era impegnato a fare per discutere e risolvere pubblicamente i nodi di scontro che si erano evidenziati nei tre anni di cui abbiamo parlato. Il convegno non fu mai fatto: fu cambiata la direzione e furono di fatto annacquati i contenuti e i metodi perché potessero rientrare nei ranghi.

Questi qui sotto sono alcuni stralci della relazione delle tre direttrici[5] dei turni scolari del 1971, che non fu mai presentata:

“Il momento della preparazione e i momenti più importanti di verifica durante i tre turni sono stati affrontati, nei limiti del possibile insieme da tutta la direzione, in modo da evitare dispersione di forze, spezzettamento di esperienza, parcellizzazione dei problemi, distorsioni nella valutazione finale.

Per trarre le conclusioni emerse dai fenomeni rilevati nei singoli turni conviene rifarsi al tipo di finalità che ci sembra debba avere la relazione.

In sintesi quello che si propone é: 1) mettere in grado di conoscere e comprendere l’esperienza chi l’ha vissuta dall’esterno; 2) contemporaneamente riflettere noi stessi su quelli che erano i presupposti di partenza alla luce degli sviluppi che hanno avuto, prendendo come parametri di valutazione i punti strutturanti della esperienza stessa.

Ciò significa esaminare criticamente:

  1. a) i processi di interazione tra i bambini, tra gli adulti e i rapporti che fra di loro si sono andati formando in un contesto di sperimentazione, di messa in crisi dei ruoli tradizionali e di tentativi di costruirne, meglio, di ipotizzarne di diversi;
  2. b) le componenti (genitori, Ente gestore, personale, situazione locale) che dall‘esterno si sono proiettate all’interno e viceversa in modo da vedere la collocazione della colonia nel complesso degli spazi di educazione e di vita del bambino, di esperienza pedagogica e politica dell’adulto;
  3. c) l’efficacia, infine, di talune peculiarità “tecniche” (non a caso scegliamo di mettere tra virgolette questa parola) e cioè schemi di verifica, organizzazione, preparazione del personale, strumenti.

Infine ci sembra opportuna un’unica relazione, perché ogni tipo di considerazione si deve basare sul materiale che é stato prodotto,materiale comune di verifica sui bambini, sul tipo di attività, soprattutto sul tipo di dinamiche di vita collettiva che si sono create Infatti ciò che si é reso possibile quest’anno più che gli anni scorsi, per i motivi che successivamente andremo esponendo, é stata una conoscenza più specifica di ogni bambino, in particolare per tutti coloro che sono arrivati in colonia come “casi”, ma soprattutto dei tipi di rapporto, delle modalità e dei tempi della formazione di questi rapporti.

2) Gli strumenti di questo lavoro sono stati  gli schemi di verifica,che si sono andati trasformando durante gli anni, che sono una sistematizzazione delle scelte pedagogiche-politiche maturate e che costituiscono uno dei modi con cui si concretizza da una parte il legame fra la scuola e la colonia e la famiglia e dall’alta la possibilità che l’esperienza fatta in colonia potesse essere utilizzata anche successivamente da altre istituzioni (Centro Medico Psico-pedagogico, Centro d’Igiene Mentale) nella conoscenza e nella trattamento dei singoli bambini.

Non a caso si é iniziata la relazione partendo da questo problema perché, lungi dall’essere un fatto burocratico, la compilazione degli schemi di verifica é sempre stato un momento di controllo del lavoro, di maturazione per tutti gli operatori, e per la direzione é sempre stato il momento più reale di svolgimento del proprio ruolo. Questo discorso, è chiaro, nella misura in cui gli educatori sono preparati e disponibili. Ha più consistenza, più peso, più contenuto.

In questi anni è emerso chiaro un punto: l’unica possibilità per fare un discorso educativo reale, che non prescinda cioè dalla realtà in cui viene fatto, senza peraltro esserne condizionato, si ha quando l’adulto ha capito qual è la funzione dell’educatore, cioè quando si é responsabilizzato individualmente e collettivamente al di là di qualsiasi tipo di controllo e, perché no, di premio o di castigo. Ci rendiamo conto che tutto questo é difficile, ma non é utopico e so-prattutto é, ci pare, l’unico modo per evitare degenerazioni dell’azione educativa o in senso autoritario o in senso libertario.

Del resto uno dei nodi da sciogliere per lo sviluppo di una espe-rienza politica che cresca e maturi all’interno delle istituzioni educative è quello relativo alla funzione di educatore. Il rifiuto del ruolo tradizionale ha portato spesso ad esperienze di educazione anti-autoritaria in senso libertario, come appunto si diceva prima, con l’annullamento dell’adulto educatore e di ogni sua funzione.

È un pericolo questo in cui si rischia di incorrere e che può avere due conclusioni: una è appunto quella di cui sopra, l’altra è il ritorno alla “restaurazione” – tra parentesi possiamo dire di avere visto molte esperienze di questo genere nella scuola. Se però l’educatore non lavora solo e soprattutto se il lavoro svolto é strettamente e puntualmente verificato, il rischio diminuisce.

Il rifiuto del ruolo è un momento specifico di azione politica quando significa qualcosa che va oltre la declamazione di principi ideologici (declamazione che storicamente ha avuto una funzione) e assume un specifico aspetto in una precisa metodologia educativa poggiante sulla coscienza che l’azione educativa si svolge in un ambito comunitario tra individui che devono risolvere problemi di attività e di organizzazione e che devono chiarirsi la loro situazione e le finalità che insieme possono porsi per modificare la realtà seppur in un’area periferica come la colonia. Tutto questo discorso necessita di alcune precisazioni e chiarimenti:

1) considerare il lavoro in una comunità educativa come azione politica significa che tutti i quadri (direzione, educatore personale ausiliario) debbono svolgere costantemente un lavoro di analisi del reale, un lavoro di iniziativa responsabile.

2) La condicio sine qua non é che ci sia la possibilità di esprimersi in quelle che sono le cariche vitali individuali e di regolare le cose sulla base di una ricerca comune delle soluzioni valide volta per volta.

3) tutto il discorso fin qui fatto acquista un significato ancora più pregnante se si pensa che é rivolto ai bambini, per i quali i rapporti interpersonali e la figura dell’adulto acquistano un peso e un’importanza determinante rispetto alle esigenze di autonomia, autoaffermazione, sicurezza e fiducia.

Alla luce di quanto si é andato dicendo fino ad ora, dovrebbe risultare chiara l’angolatura che si é voluto dare agli schemi di verifica. Il punto di partenza era il bambino singolo considerato però non nella sua astratta individualità fatta di attributi datigli dagli adulti con i quali aveva condotto e conduceva le sue esperienze, individualità quindi interpretata, ma il bambino considerato come punto di partenza e di arrivo di rapporti con altri bambini, con gli adulti, con l’organizzazione e le strutture della colonia.

La verifica di questa rete di rapporti tendeva ad individuare quanto e come un bambino, con tutta la sua storia precedente, riuscisse a vivere una struttura organizzata quale é quella che gli veniva pro-posta e si andava via via costruendo con particolarità diverse in ogni gruppo.

Le verifiche sono state, nel 2° e 3° turno, ripetute più di una volta, per avere un’immagine dinamica del bambino e del gruppo.

Concretamente gli schemi di verifica hanno evidenziato che nei rapporti del bambino entra in gioco tutta la colonia, il personale ausiliario, educativo e la direzione‘ che in questa dimensione trova un ruolo non organizzativamente determinato, ma datogli dalla possibilità di avere, in quanto ai limiti e non all’interno dei gruppi,una visione più complessiva e più critica della situazione.

E‘ chiaro che ogni gruppo era una comunità in cui ognuno aveva lo spazio per costruirsi il suo posto, cioè il suo ruolo, la sua identità. Naturalmente era diverso il ruolo dell’adulto rispetto a quello del bambino, diverse la percezione della realtà, della maggiore o minore dimensione di gruppo a seconda dell’età del bambino, diversa la percezione del rapporto tra realtà e fantasia.

Questo non ha significato affatto la ricostruzione dei ruoli tradizionali maestro-alunno, genitore-bambino ecc. ma soprattutto si è capito che ricostruire ruoli diversi richiede una omogeneizzazione di scelte e di conduzione e una verifica puntuale, perché come si diceva prima, al bambino non vengano fatte molteplici  e contraddittorie richieste di “adeguarsi” a schemi di definizioni di sé, di identità non coerenti.

4) I bambini e gli adulti non si sono “espressi” in modo generico e caotico, ma attraverso precise attività. Così anche il loro formare un gruppo (piccolo o grande, a seconda dell’età, e della loro capacità) non si è sostanziato tanto di regole poste fin dall’inizio, quanto di cose fatte insieme e insieme liberamente programmate. Proprio per questo esse si sono dispiegate in modo estremamente ricco e vario. Le attività scaturivano dal tipo di ambiente nel quale i bambini vivevano (il mare – il parco) ed erano attività vere e reali. Nella

nostra colonia non si fingeva di costruire, si costruiva veramente, e si svolgevano vere feste e gite; ogni turno il parco si é riempito di costruzioni svariatissime, complicate ma non artificiose, in quanto concepite dai bambini come “luoghi” da loro progettati per scopi precisi.

Niente in queste attività richiamava il concetto del “laboratorio” o dell’atelier”, nel quale si propongono ai bambini vari lavori che dovrebbero soddisfare loro “attitudini” o “bisogni”, ma che spesso soddisfano solo le esigenze narcisistiche dell’atelierista o dell’istituzione.

 I genitori, nella domenica riservata alla visita collettiva, al di là di ogni discorso teorico (pure fatto in precedenza, prima della partenza dei bambini per la colonia) avevano la possibilità di vedere e capire dalle costruzioni e dai lavori svolti quale era la vita dei loro figli in colonia, quali le novità della vita di gruppo, quali i rapporti dei bambini con gli adulti.

La “realtà” dell’impegno dei bambini nelle attività costruttive e di gioco aveva come conseguenza un modo più disinvolto di comportarsi, di vestirsi, di sporcarsi: purtroppo tutto ciò non poteva avere sempre una giusta conclusione, la sera, in termini di docce, poiché in colonia l’impianto dell’acqua calda non ha mai funzionato adeguatamente.

 

Queste attività non erano un gioco, un aggiuntivo per i bambini, ma l’ambiente costruito da loro stessi diventava vita loro; la realtà veniva rapportata al bambino non tanto perché resa artificiosamente “alla sua misura”, ma perché da lui “costruita” secondo la sua percezione (diversa nelle varie età), e con un dispiegarsi della fantasia e della creatività notevole.

Non ci sono state sostanziali differenze, nei tre turni, per quanto riguardava l’impostazione delle attività e il volume delle co-struzioni “prodotte”, salvo che in alcuni turni si sono dispiegate verso l’alto e in altri si sono svolte quasi sempre sottoterra.

Infatti ormai questo tipo di attività è divenuto momento imprescinbile della nostra esperienza di colonia, ed è stato ampiamente collaudato; la minore esperienza degli educatori del primo turno ha comportato solo più lentezza nel procedere, e una minore capacità di alternare e organizzare i tempi di intensa attività di gruppo con i tempi “vuoti”.

Mediante le attività si sono formati i gruppi e si è strutturato il rapporto degli adulti (in èquipe e singolarmente) con i gruppi dei bambini.

La via del rapporto individuale fra un adulto e uno o due bambini in realtà serve di più all’adulto che al bambino, e mai è il tramite per il formarsi del gruppo. E‘ utile e necessario con i ragazzi più grandi, con i bambini “difficili” (poiché può servire a rassicurarli, calmarli e nel contempo offrire loro l’esempio di un rapporto diverso con l’adulto) e con i bambini handicappati (per il ruolo rassicurante e “protettivo”).

 

4 – Riguardo al problema dei “bambini difficili” crediamo siano necessarie alcune precisazioni:

È vero che nella nostra colonia ce ne sono sempre stati molti.

È vero che i bambini provenienti dai collegi o in carico all’ISSPM (Istituto Santissimi Pietro e Matteo) avrebbero dovuto essere meglio distribuiti nei tre turni (e andrebbe posto fin dall’inizio come indicazione precisa per gli enti che li inviano).

È vero che nel terzo turno la loro presenza è stata sentita in modo meno pesante che nel primo (nonostante che il rapporto numerico fosse abbastanza simile) grazie ad una maggiore esperienza e quindi capacità degli educatori. Bisogna tuttavia cominciare a porre delle precise distinzioni e individuare gli ordini di difficoltà poste dai vari tipi di bambini “difficili”. Il bambino handicappato (debole mentale, o con difficoltà motorie, di orientamento, di autonomia personale) non pone problemi molto gravi: nel clima della

nostra casa di vacanze è benissimo accettato dagli altri bambini: si pone solo un problema quantitativo, in termini di maggiore necessità di assistenza personale, in certi casi addirittura continua (un adulto per lui solo).

 Altri tipi di bambini pongono reali difficoltà: dal bambino con gravi problemi di carattere, a tutti i bambini che vivono continuativamente negli istituti, a tutta la gamma dei disadattati sociali vari (figli di immigrati, di famiglie in gravi difficoltà, ecc.)

Noi stessi gli anni scorsi abbiamo affermato, più volte, che la colonia del Comune doveva trasformarsi da istituzione assistenziale in istituzione educativa; e nel contempo abbiamo accettato   tutti i bambini disadattati che il nostro tessuto sociale produce a ritmi accelerati, cercando di costruire una vita di gruppo che fosse sempre più a loro misura, che desse spazio a tutti i bambini, anche a quelli per cui gli spazi per vivere diventano sempre più “difficili”.

C’era una grossa mistificazione in tutto questo, un divario tra un discorso che si dichiarava non più assistenziale, e una pratica ancora assistenziale, necessariamente assistenziale (il nuovo tipo di assistenza, al disadattamento sociale – non più alla povertà nera, come nel passato, negli anni del dopoguerra).

Quest’anno ci siamo resi conto, in maniera più chiara, che in realtà la colonia del Comune per il tipo di bambini che ospita, continua a portare avanti un discorso “assistenziale”, sia pure in termini molto diversi che nel passato.

Avere coscienza di questo pone diversi problemi e nello stesso tempo, ci sembra, sgombri il campo da vari equivoci. Non possiamo certamente risolvere noi questi problemi, perché entrano in campo gli indirizzi futuri dell’assistenza e dei servizi sociali, i problemi economici che comporteranno, il loro significato a livello politico.”

Mi sono soffermata molto sui dettagli del lavoro e del significato dell’esperienza della colonia negli anni citati perché mi premeva disegnare un quadro dal quale si potesse dedurre come qui sono nate e sono state verificate tante idee che poi possiamo ritrovare nelle esperienze educativo, sanitario, assistenziale della politica nei confronti dell’infanzia a Reggio e nelle istituzioni che di questo si sono occupate.

Va detto innanzi tutto che molte considerazioni, molte annotazioni sono “datate” nel senso che si riferiscono a bambini diversi da quelli attuali, bambini per es. che poco ancora avevano avuto a che fare con la tv, bambini che ancora giocavano in cortile e nelle strade.

 Non va dimenticato cioè che abbiamo parlato di anni fra la fine del 60 e l’inizio del 70 che il contesto era diverso, Reggio era diversa (e a mio avviso migliore di quella attuale) –

Vorrei concludere queste note storiche sulla colonia con alcune considerazioni personali:

– è stato difficile e anche doloroso fare una full immersion nel passato: allora guardavo avanti per costruire un futuro migliore, adesso guardo indietro, al passato appunto per ritrovare le” orme” che hanno dato senso a tutto il mio percorso lavorativo e di vita ; orme che mi hanno fatto rivedere le cose nelle quali ho creduto e continuo a credere e soprattutto mi hanno descritto un lavoro in progress un “da cosa nasce cosa”.

E di cose ne sono nate tante mi basta citare l’ultima: Gancio Originale, Le stanze di Dante, Free Student Box (ma questa è un’altra storia peraltro già scritta); e fra le prime in ordine di tempo la partecipazione alla nascita dei Comitati Scuola e Società, e soprattutto la chiusura dell’IMPP Sante de Sanctis che ha dato avvio a Reggio e provincia a tutto il lavoro di inserimento nella scuola dei bambini con problemi e alla creazione di alternative a proposte segreganti: classi differenziali, classi speciali, istituti.

Guardo indietro perché posso rallegrarmi, sorridere e ridere insieme con tutte le persone che via via mi sono tornate alla memoria, persone che hanno riacquistato un volto chiaro.

È stato doloroso prendere atto che non riesco a vedere come inventare nuove orme, passi avanti in percorsi nuovi che possano non disperdere le reti, le energie e le cose prodotte.

Non credo sia solo un fatto di età.

La colonia di Cesenatico è stata un crogiuolo di esperienze, di idee, di formazione politica, umana e professionale importante per molte persone di Reggio della mia generazione; persone che erano per lo più donne: questa è una storia che si declina prevalentemente al femminile. Molte di coloro che hanno lavorato in quegli anni in colonia sono poi confluite nel Centro di Igiene Mentale diretto da Jervis, nella scuola, nelle varie istituzioni socio-educative-sanitarie, spesso contribuendo a fondarle e a dirigerle. Poche, direi nessuna, è diventata dirigente di partito, molte hanno preso parte alle esperienze collegate ai movimenti per i diritti civili e hanno conservato un alto senso della partecipazione e del dovere sociale cercando di esprimere nella propria professione il senso di un profondo rispetto per le regole del vivere civile.

Purtroppo non c’è stata un’analoga forza nel mondo politico dopo che negli anni ’60 primi anni ’70 una generazione di amministratori “illuminati” aveva permesso e sostenuto le trasformazioni avvenute a Reggio. Alcuni di loro provenivano dalla resistenza, altri più giovani ne avevano raccolto i valori Mi permetto di citarli: innanzi tutto Velia Vallini, Lidia Greci, Livio Montanari, Loretta Giaroni, Giuseppe Gherpelli, Adele Denti, Gabriele Vezzani e il sindaco Renzo Bonazzi.

Chi è venuto dopo non è riuscito a difendere presso gran parte della popolazione il valore delle nuove conquiste e si è precipitati sempre di più in un generale arretramento culturale e civile e nella perdita di ideali.

desanctisLa chiusura del Sante de Sanctis, il reparto infantile dell’Ospedale psichiatrico

Nel 1970 stava per essere terminata a Reggio Emilia la costruzione del nuovo edificio dell’IMPP un istituto per l’infanzia handicappata, fuori dall’OP dall’altra parte della via Emilia. Lo si era progettato ed edificato come dice Egle Becchi nella prefazione al libro Deistituzionalizzazione (uscito nel 1977 per La nuova Italia editrice, e scritto da medici, psicologi, educatori dei servizi per l’infanzia che avevano contribuito a chiudere l’istituto stesso) secondo quei raffinati criteri di gestione del deviante che Foucault ha definito lo spazio disciplinare: ”Ad ogni individuo il suo posto; ed in ogni posto il suo individuo. Evitare le distribuzioni in gruppi; scomporre le strutture collettive: ……. Si tratta di stabilire le presenze e le assenze, di sapere come e dove ritrovare gli individui, la loro diffusa circolazione inutilizzabile e pericolosa …… di instaurare le comunicazioni utili, d’interrompere le altre, di potere in ogni istante sorvegliare la condotta di ciascuno, apprezzarla, sanzionarla, misurare le qualità e i meriti.”

Il nuovo De Sanctis di Reggio sarebbe stato infatti una città per bambini matti che come tali vanno amministrati e controllati con spreco ridotto di forze, ma in maniera esaustiva: la struttura, che avrebbe potuto ospitare 300 bambini, rispondeva perfettamente a questa logica.

 Diamo un’occhiata: è costituita dal ripetersi continuo di moduli identici uno all’altro convergenti, attraverso una lunga rete di canali comunicanti, verso il blocco centrale dell’edificio che costituiva il cervello dell’istituto. Tanti blocchi comunicanti costruiti con i criteri della più stretta sorveglianza, dominati da una gabbia centrale per l’assistente che poteva controllare 24 bambini contemporaneamente, le stanze da gioco, le stanze da letto e i gabinetti che sono aperti mediante vetrate.

L’esperienza deistituzionalizzante del reparto minori dell’OP di Reggio nasce fuori dall’istituzione e mostra quanto stretta sia l’implicazione fra potere e sapere e come ogni forma di scienza nuova regga in quanto si connette a un potere trasformato. Il nuovo sapere che vuole farsi carico di chi è segregato nel reparto minorile, sapere deistituzionalizzante, ricostitutivo di relazioni comunitarie sospese ma non abolite, si appoggia a un potere non assodato, non garantito da autorità, tradizione, prestigio. Nel caso reggiano il nuovo sapere inizia in spazi, momenti, modi di incontro e di contatto anomali o comunque non tradizionali: la colonia, i comitati di quartiere, le assemblee, le mostre, le inchieste, i convegni di larga partecipazione di base.

Il sapere nuovo, l’idea nuova e la sua messa in atto, l’idea che ha costituito la guida dell’intera esperienza è stata che il destino del portatore di handicap ha esito negativo se non  si svolge nella comunità interagendo con essa  e con le sue istanze. Nella realizzazione di questa idea le competenze e i saperi specifici sono stati non negati ma riformulati facendo i conti con il territorio, non più facendosi scudo della diagnosi cui i soggetti sottostavano ma poggiandosi sulla fitta rete di nessi sociali, economici, culturali di un’intera comunità.

Questa ridefinizione delle competenze tecniche non è avvenuta per acquisirne tout court altre diverse, ma si è tentata una revisione di ruoli di potere, è avvenuta perché il ruolo di ciascuno impegnato nell’opera di deistituzionalizzazione ha assunto una valenza politica, della quale prima era ignaro o privo.

Un movimento, un’inchiesta, un convegno

Il lavoro – come già accennato – iniziò fuori dalle istituzioni, dai partiti e dai sindacati, come frutto della sintesi e della elaborazione che partendo da esperienze diverse, alcuni gruppi di persone avevano fatto all’interno di un movimento di base composto prevalentemente di studenti, che si sviluppò in varie direzioni, e che rappresentò – in assenza allora di una Università locale – uno dei movimenti più qualificanti del ’68 reggiano.

Tre furono le matrici di di questo movimento:

– la prima era rappresentata dal pensiero e dall’azione che derivavano dall’esperienza che si andava facendo all’interno delle strutture estive (la colonia di Cesenatico): un’esperienza – come abbiamo già ampiamente descritto – pedagogico-politica di gestione “diversa”, che si muoveva all’interno e all’esterno con un discorso sindacale e politico teso a mettere in discussione il rapporto complessivo del bambino con la società, la scuola, la famiglia, il tempo libero, la gestione della sua salute;

– La seconda che partiva dal lavoro di un comitato di base di quartiere (lo stesso dove aveva sede il De Sanctis) sulla scuola dell’obbligo e sulla pre-scuola e che aveva fatto un’esperienza di lotta sugli strumenti di selezione, di emarginazione, nonché sulla connotazione di classe della scuola stessa;

– La terza che aveva portato avanti la lotta contro il manicomio e aveva cominciato a fare esperienze importanti di medicina del lavoro in fabbrica.

L’innesto di queste tre componenti diede origine al gruppo di lavoro sul De Sanctis, lo pose al centro del dibattito politico prima del quartiere poi della città. Tante furono le iniziative: la più impegnativa un convegno sul “Disadattamento scolastico” che aveva lo scopo di lanciare a livello cittadino il problema del nuovo De Sanctis nel contesto di una discussione che coinvolgesse la scuola con tutti i suoi strumenti interni ed esterni di selezione.

Fu fatta un’inchiesta, e si dimostrò, dati alla mano, la stretta dipendenza dell’istituto dagli altri istituti della città e della Provincia, dai CMPP, dall’EMPPF; il legame con le classi speciali e differenziali, e con le Case di carità. Dai dati ricavati da questa inchiesta, fatta già prima del ’70, si era potuto vedere un certo movimento di andata e ritorno fra il De Sanctis, le case di carità, e gli altri istituti, compreso il reparto Golgi dell’Ospedale Psichiatrico San Lazzaro di Reggio E. per non scolarizzabili, sito dentro il manicomio stesso.

Tornando alle domande e ai problemi che si riuscirono a lanciare a livello cittadino sulla scuola, sulla selezione e sull’emarginazione va detto che l’unico discorso che in quegli anni veniva avanti riguardava i nidi e scuole per l’infanzia.

Nulla o quasi era detto sui contenuti della scuola, laddove l’unica proposta, quella della cosiddetta Gestione Sociale, negli anni 68/69 era partita dal PCI come tentativo globale di mettere in discussione e modificare attraverso l’apertura all’esterno e la partecipazione della classe operaia, il secolare monopolio del clero e quindi della DC sulla scuola. Era naturale che il terreno più favorevole di sperimentazione della Gestione Sociale fosse l’Emilia, là dove il potere contrattuale del PCI era più forte.

Non starò a fare una critica ideologica a questa esperienza, limitandomi a dire che – almeno a Reggio – la gestione sociale si realizzò nelle strutture prescolastiche e in alcune scuole a tempo pieno, laddove cioè la presenza dell’ente locale era economicamente massiccia. Per il resto ciò che produsse fu la scomparsa o la perdita di mordente dei vari comitati di base sorti in città e nella provincia. Essi furono costretti, da questa proposta piovuta dall’alto, ad abbandonare le loro modalità autonome di lotta e di scontro. A istituzionalizzarsi o a perire.

L’ultimo comitato di base a morire fu quello del “Villaggio Stranieri” quello che come ultima iniziativa partecipò alla chiusura del De Sanctis. Altro non riuscì a fare per pesanti ingerenze esterne e per lo scoraggiamento dovuto soprattutto ad una serie di richiami all’ordine che resero impossibile portare avanti lotte autonome fuori dal PCI e dal sindacato.

Così come la contestazione al manicomio aveva avuto uno sbocco istituzionale con la creazione dei CIM, alla fine del 1970, anche i movimenti sulla scuola, sull’emarginazione, sul disadattamento hanno avuto uno sbocco esclusivamente istituzionale: la convivenza della partecipazione dal basso e dell’agire istituzionale non fu possibile. Nacquero i servizi socio-sanitari per l’infanzia: ma con questo neo iniziale.

 Il De Sanctis venne chiuso nel 1975 nel più assordante silenzio! Comunque la nuova struttura fu restituita alla città, e fu usata per un nido, una scuola per l’infanzia, una scuola media, una palestra e una piscina aperta al pubblico.

La deistituzionalizzazione dei minori spronò gli operatori a pensare nuove modalità di cura e riabilitazione, obbligò gli amministratori a finanziare soluzioni alternative al grande istituto, costrinse la scuola ad adeguarsi alle esigenze dei nuovi bambini. Mi preme sottolineare che a connotare quei tecnici fu un atteggiamento militante ma, insieme, fortemente anti-ideologico, attento a coniugare i principi abolizionisti con una strategia flessibile di azioni alternative all’internamento, calate nella realtà politica e sociale contingente. Tale approccio derivava dalla capacità di quei tecnici di concepire anche mediazioni temporanee, sulla base delle quali dialogare con altri operatori e provare a trasformare anche settori meno toccati dal rinnovamento.

Furono così creati dei “centri diurni” che dovevano servire ad affrontare problemi e difficoltà di apprendimento o disadattamento, concepiti secondo il principio di “non settorializzazione tecnica” corrispondente alla convinzione che all’origine dei problemi dei bambini con handicap ci fosse anche un deficit di socializzazione (‘anche’ si badi bene!).

Per i ragazzi con handicap più gravi si apprestarono invece delle “esperienze ponte”: le “classi popolari” dislocate nelle scuole medie e i “centri di appoggio” con specifici programmi di riabilitazione, le classi speciali in scuole normali costituirono gli esempi più significativi.

Le difficoltà pratiche e politiche incontrate nel tentativo di inserire i bambini e gli adolescenti nel tessuto sociale e scolastico normale furono enormi. Il principale ostacolo fu rappresentato dalla chiusura con cui l’istituzione scolastica accolse l’idea stessa dell’inserimento di quei bambini. Per aggirarlo, gli operatori cercarono di stringere rapporti con gli insegnanti più sensibili.

Ciò avvenne in modo assai efficace nel caso degli asili e delle scuole dell’infanzia dove un apposito coordinamento provinciale creato tra gli operatori dei servizi per minori del Comune e soprattutto del CIM permise di gestire direttamente i contatti con i bambini e le loro famiglie, forzando talvolta anche l’orientamento delle educatrici, ispirato a criteri di maggiore gradualità nell’inserimento.

Il problema principale rimaneva la scuola dell’obbligo. Con il tempo però alle iniziali resistenze individuali di alcuni insegnanti moderati subentrò una opposizione organizzata all’inserimento dei bambini handicappati, stimolata in particolare dagli ispettori e dai direttori didattici più legati alla DC e a tutti gli altri partiti del centrodestra. Si costituì il Gruppo magistrale in difesa della scuola che fu all’origine della “lettera dei 509” indirizzata nel 1974 ai giornali cittadini e alle pagine regionali dei giornali nazionali, secondo la quale l’inserimento dei bambini disabili andava subordinato al mantenimento di un istituto speciale che praticasse la selezione e alla presenza nelle scuole di équipe tecnicamente qualificate che li seguissero individualmente.

Nel novembre 1974, in seguito all’approvazione dei “decreti delegati”, fu formalmente sancita la chiusura delle scuole speciali e delle classi differenziali. Rimase invece senza successo o fortemente limitato ogni tentativo di intaccare l’impianto tradizionale dell’istituzione scolastica. Ci fu l’incapacità di imporre all’apparato scolastico quelle istanze di trasformazioni avanzate; incapacità non tanto di una minoranza di insegnanti e degli operatori della salute mentale, ma in primo luogo dalle amministrazioni locali e regionali, dai partiti di sinistra e dal sindacato.

Reggio Emilia 4.2.17

[1] cfr.: M. Mazzaperlini: “Storia delle Scuole Materne reggiane“, Futurgraf ed. 1977

[2] cfr.: AA.VV. Deistituzionalizzazione. l’esperienza del “De Sanctis” di Reggio Emilia, prefazione di Egle Becchi, Nuova Italia, 1978

[3] Ancora alla fine degli anni 60 e agli inizi degli anni 70 i bambini della colonia di Reggio Emilia erano 250 per turno

[4] cfr. anche: “Relazione sui centri d’interesse -1973”, di Angelini, Bertani

[5] le direttrici in questione erano: Deliana Bertani, Lina Griminelli e Luisa Leoni

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