Riflessioni sul turismo in Valle d’Itria


UNADJUSTEDNONRAW_thumb_1a8cdi Dino Angelini

Tutta naturalità questa campagna: ed è pianificata come una città, modellata come una statua, dipinta come un quadro“. Questo forse è il passaggio più significativo della celebre e fantasmagorica descrizione della Valle d’Itria fatta all’inizio degli anni ’60 da Cesare Brandi nell’introduzione a un suo scritto su Martina. Frutto di quel modellamento erano i micro-appezzamenti di terra rossa (come quella della della Provenza, diceva Brandi) nei quali ognuna delle viti ad alberello era come racchiusa una piccola conca che alla sommità terminava in un quadrato di un metro e dieci per un metro e dieci, continuamente rimesso a nuovo con un paziente lavoro di zappa. Ai bordi i trulli, spesso costruiti con la pietra dello ‘scasso’ che aveva preceduto la messa a dimora dei vitigni; qualche fico, qualche mandorlo, qualche ulivo, e un insieme lussureggiante di erbe odorose, addossate ai muretti a secco, che dopo ogni pioggia impregnavano l’aria di mille odori. L’insieme (cito ancora Brandi) appariva “curato quanto le unghie di una signora”.

La sagacia di un trentino (Svaldi!) ch’era venuto qui come enologo di una grande ditta vitivinicola, e vi era rimasto per amore di una donna e di questa terra, aveva normato la messa a dimora dei vitigni nei nuovi pastini (40% di Verdeca, 40% di Bianco di Alessano e 20% di uve odorose) e inventato il Bianco Locorotondo.

Mentre i paesi che si affacciano sulla valle, come ebbe a dire un urbanista francese di passaggio, nella loro architettura sembravano essersi come ‘specializzati’: Martina la città della nobiltà e della borghesia agraria, Locorotondo con le sue cummerse quella dell’artigianato,  Alberobello il borgo dei contadini, che peraltro dappertutto (e quasi unici nel Sud) abitavano le campagne.

Proprio Negli anni ’60 Anthony Galt, il più acuto interprete di Locorotondo, notava come a cavallo del boom l’espandersi e l’arrivo anche qui da noi dei manufatti industriali cominciava a mettere in profonda crisi il mondo artigianale.

Ma il colpo mortale all’agricoltura della valle la diede il cosiddetto “piano Mansholt”, che altro non era se non un tentativo, fatto da Bruxelles!!, di ‘razionalizzazione’ dell’agricoltura europea, italiana e nostrana in particolare. Il burocratico ‘ragionamento’ di Mansholt era più o meno questo: siccome la resa delle viti della Valle d’Itria era di gran lunga inferiore a quella – se non ricordo male – del foggiano, e siccome d’altra parte questa terra era bella bisognava incentivare con moneta sonante l’espianto delle viti e favorire la nascita del turismo.

Nell’arco di qualche decennio il paesaggio della valle – come tutti i miei concittadini sanno – è profondamente mutato: sparite le viti, sparito il vino, inurbati molti contadini, cementificati in maniera selvaggia i paesi e rimesse a nuovo in maniera anarchica le campagne, che pure nel trullo presentano una struttura modulare estremamente raffinata, che poteva essere adattata alle nuove esigenze di vita senza tradire l’impianto originario (come ad es. hanno fatto in Alto Adige con i masi!).

Ma alla fine bisogna riconoscere che il dirigismo di Mansholt ha vinto, e la Valle d’Itria ormai sta diventando un luogo turistico che, come il resto della Puglia, attrae sempre più turisti interni e stranieri. Per cui il problema ora diventa: come muoversi in questa nuova direzione innovando, ma non tradendo le proprie ‘attrattive’?

E qui veniamo alle dolenti note! pochi giorni fa il vicepresidente della Confindustria pugliese, l’editore Laterza, ha messo sull’avviso circa i pericoli che anche la Valle d’Itria corre di diventare un Luna Park frutto di un’assenza di progettualità capace di mantenere ed espandere questa nuova forma di ricchezza.

Io concordo con Laterza: secondo me o si comincia a pianificare un turismo ‘sostenibile’, cioè non invasivo e in grado contemporaneamente di non calpestare le esigenze di loisir e di tempo libero di tutti; ma anche di rispettare i tempi di quiete e di riposo dei locali, oppure le luci del Luna Park sono destinate prima i poi di venire a noia, e a suscitare le ire dei più.

Faccio l’esempio dei B&B che ormai punteggiano le nostre campagne. Provate a chiedere ai loro gestori per quanti giorni in media rimangono qui con noi i turisti che vengono a visitarci. Vedrete che che vi diranno che rimangono pochi giorni .. e che poi vanno al mare in Salento. Come se qui mancasse il mare! come se qui mancassero iniziative per loro e per i loro figli! come se qui mancassero guide in grado di far loro apprezzare le bellezze naturali e le attrazioni culturali presenti nei dintorni! Come se qui non ci fossero iniziative di tipo esemplare (Il Locus, i libri nei vicoli, il Festival della Valle d’Itria, quello dei Sensi, Passaturi.it, etc.)!

Perché, chiedo, non ci si mette intorno a un tavolo per tempo al fine di pianificare come creare delle sinergie, e nello stesso tempo per trovare location per le iniziative musicali che mettano al riparo dal fastidio coloro che non intendono fruirne?

Personalmente non voglio negare a chi lo gradisce l’ascolto di una musica che a me non piace: basta che non rompa gli zebedei a me e a chi non intende fruirne! non voglio impedire a chi lo desidera di stare al bar fino all’una di notte, basta che lo faccia senza disturbare chi all’indomani deve andare a lavorare. Anche perché senza questi urbani accorgimenti il Luna Park alla fine rischia di mandare in vacca tutto il resto.

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