Dalla casa dei matti alla Stanza di Dante – Intervista a Deliana Bertani

Da: Mara Pellegrino, Dimma Spaggiari, Rina Spagni (a cura di), Reggio Emilia: femminile plurale. Storie di donne che fanno e organizzano, che creano e inventano, Diabasis – Istoreco, Reggio Emilia, 2010, pp.19 \ 34

 

– Deliana Bertani non ama parlare di sé, preferisce ascoltare. Forse per la lunga abitudine a fare domande mirate e ad ascoltare i ragazzi delle scuole, i genitori che la interpellano, i suoi pazienti e gli altri operatori del Servizio di psicologia clinica.

Poiché è una psicoterapeuta, ascolta il racconto del vissuto dei suoi interlocutori e studia i comportamenti, poi, insieme a Dino Angelini, anche lui psicoterapeuta e compagno di una vita, ecco che si inventa Open G, Gancio Originale e La stanza di Dante, tutte realizzazioni innovative per combattere a Reggio Emilia il disagio e l’emarginazione dei giovani.

Pure dopo molte insistenze è più facile far parlare Deliana di ciò che ha realizzato nella sua lunga carriera di psicologa militante che raccogliere confidenze o ricordi personali. Anche del lungo sodalizio con Dino — sono sposati e lavorano insieme da trentacinque anni — non dice molto, sia per naturale riserbo, sia perché non crede nei protagonismi, neppure di coppia. Ci tiene a dire che quello che hanno creato è frutto dell’impegno collettivo di tante persone che hanno coinvolto a lavorare con loro: medici, operatori sociali, studenti e insegnanti.

L’interesse alla socialità, infatti, spunta fuori con evidenza appena si ricompone lo scarno mosaico dei ricordi dell’adolescenza: i genitori e i nonni sono comunisti e vivono insieme in una famiglia molto unita e paritaria, dove la madre Liliana, impiegata in Comune e attivista dell’UDI, esercita una grande influenza sulla formazione delle figlie, Deliana e poi Loretta, nata quattordici anni dopo la sorella.

Non era facile essere una bambina comunista

– Andavo in vacanza nei campeggi in montagna gestiti dalle Cooperative, che li avevano ereditati dall’Associazione dei Pionieri Italiani, per la sinistra è l’equivalente degli scout. I turni erano per ragazzi dagli undici fino ai diciotto anni, rigorosamente separati i maschi dalle femmine, fino a quando ci siamo trasferiti dal Trentino alla Val d’ Aosta, regione autonoma più permissiva che per Statuto prevedeva i gruppi misti. L’indirizzo educativo non era di parte, ma quello classico, fondato sui valori tradizionali.

Della mia vita da pioniere ricordo con piacere l’esperienza di capo-tenda, perché tutto mi sembrava un’avventura: i tendoni grigi dei primi anni erano residuati bellici americani e bastava toccarli che ci pioveva dentro; facevamo i giochi, i falò, le escursioni.

Avevamo un forte spirito di appartenenza, che però qualche volta era pesante da portare: la scuola si ispirava ancora ai principi cattolici più conservatori, e all’ingresso delle chiese era esposto l’indice dei film che si potevano vedere.

Nemmeno a Reggio era comodo essere di famiglia comunista. Non a caso i miei, pur non religiosi, mi hanno fatto ricevere Battesimo, Cresima e Comunione: non volevano che avessi problemi.

Questa diversità ci faceva però sentire più forti, quanto meno ugualmente “appartenenti” a un sistema di valori. Io, poi, fin da piccola andavo in giro con mia madre, che era stata staffetta partigiana e che nell’UDI si dedicava al “lavoro di massa”, cioè andava per le case a fare riunioni di caseggiato sulla condizione femminile, sull’educazione dei figli, sulla pace.

Mi ricordo una raccolta di firme contro il pericolo atomico: me lo ricordo perché la possibilità dello scoppio di un’altra guerra mi terrorizzava.

A scuola, a volte, per non sentire la diversità, mi adeguavo a quello che facevano gli altri. Ad esempio a Pasqua si facevano i “fioretti” e c’era un cestino sulla cattedra dove si mettevano chicchi di grano per ogni buona azione compiuta. lo dicevo tra me e me: «Beh, sono stata buona, perciò il fioretto ce lo metto anch’io.»

Dopo le medie ho frequentato l’Istituto magistrale e, nonostante mi piacesse studiare, in seconda sono stata bocciata. A posteriori mi spiego così la cosa: era nata mia sorella e, anche se avevo già quattordici anni, ci sono rimasta molto male. Soprattutto non gradivo che mia madre, che aveva ricominciato a lavorare quasi subito dopo il parto — le leggi a tutela della maternità allora non c’erano — mi chiedesse di uscire con la carrozzina. Qualche spiritoso mi domandava se portassi a spasso mia figlia e io mi vergognavo da morire. Così per un anno ho smesso di studiare. Mia nonna, poco pratica di scuola, si stupì molto della mia bocciatura; diceva che era impossibile, perché vedeva che io leggevo sempre. Ma non erano i testi scolastici.

A diciott’anni ho cominciato l’esperienza della colonia come educatrice. Ci sono andata anche per guadagnare un po’ di soldi, ma era soprattutto un modo per non andare al mare con mia madre e mia sorella. È stata una bella esperienza, ma molto faticosa: mi avevano dato la squadra dei maschi più grandi, e fra me e loro c’erano solo cinque anni di differenza!

Le prime esperienze nel campo dell’educazione

– La scelta successiva di studiare Pedagogia a Magistero è stata quasi obbligata.

Veramente la mia idea era di fare Filosofia. Era un’idea infantile: mi ricordo che una volta, camminando per la città, vidi una via intitolata a Pascal e sotto al nome c’era scritto “pensatore”. In quel momento decisi che anch’io volevo diventare un pensatore. Poi, nel corso degli studi, si è sviluppato l’interesse per la Psicologia.

Ho studiato a Bologna con Carla Rinaldi, mia compagna delle magistrali, abbiamo sostenuto bene gli esami e insieme abbiamo deciso di fare la tesi sull’adolescenza: lei l’ha fatta su adolescenza e sessualità e io sull’identità nell’adolescenza.

Mentre frequentavo l’università ho continuato a lavorare nelle colonie del Comune a Cesenatico. Ho cominciato come educatrice, poi “ho fatto carriera” fino a diventare, nel 1969, direttrice.

-Deliana Bertani descrive una colonia molto diversa da quella malinconica e un po’ angosciante conosciuta dai bambini nati nell’immediato dopo guerra e mandati al mare per forza, per le famigerate cure elioterapiche.

-Nelle colonie mi sono fatta una grossa esperienza, sia dal punto di vista pedagogico che dal punto di vista organizzativo, che poi mi è servita molto nell’attività successiva. C’erano duecentocinquanta bambini, sessanta persone addette ai servizi e una ventina di educatrici; quindi la gestione era molto complessa. Inoltre, sull’onda delle nuove idee pedagogiche, abbiamo trasformato la colonia da struttura assistenziale a occasione educativa, e questo comportava sperimentazione e un entusiasmante lavoro creativo di riorganizzazione, oltre che uno sforzo costante di formazione e aggiornamento degli educatori.

Si sperimentavano nuove attività con i bambini: si cominciava a uscire, ad andare a iniziative e spettacoli, a fare entrare i genitori per un’intera giornata.

Allora le colonie assomigliavano molto a delle caserme, a delle istituzioni totali, e fino a quegli anni i genitori potevano vedere i loro figli solo rimanendo al di là della rete di recinzione. Nel’70 abbiamo cominciato a inserire in ogni turno bambini provenienti dalle scuole speciali per caratteropatici, per sordastri, per insufficienti mentali: venivano dal “De Sanctis” di Reggio Emilia e dal “Lorenzini” di Guastalla ed era un’esperienza di integrazione un po’ alla garibaldina. D’altra parte a quei tempi non esisteva molta letteratura in proposito, ma è stata un’esperienza esaltante, che ci ha dato molte indicazioni per il lavoro successivo.

Insieme, dirigenti ed educatori, abbiamo anche organizzato una lotta sindacale per cambiare le cose dal punto di vista contrattuale. Fino a quell’epoca il personale era inquadrato nel contratto del commercio; guadagnavamo pochissimo, ma soprattutto ci sentivamo offesi da quella collocazione. In Emilia e Romagna abbiamo aperto una vertenza coinvolgendo tutto il personale delle colonie della fascia adriatica — più di quaranta colonie — e siamo riusciti ad avere il contratto delle scuole materne.

Quello stesso anno mi era stato chiesto di entrare in politica, in occasione delle elezioni amministrative. Ho rifiutato perché la politica dei partiti non mi piaceva e poi senz’altro ha influito anche quello che mia madre mi ha sempre detto: «fai il mestiere che vuoi, ma non fare mai la funzionaria di partito.»

 

L’incontro con la psichiatria

– lo facevo politica, come si direbbe adesso, “a livello di movimento”. Ero entrata nel comitato Scuola e Città del villaggio Stranieri, sorto come altri comitati di base in riferimento ai problemi della scuola. Abbiamo fatto una mostra e un convegno sui luoghi dell’esclusione, il cui simbolo in quegli anni era proprio l’Istituto medico psicopedagogico De Sanctis, padiglione dell’Istituto psichiatrico San Lazzaro, situato nel quartiere. Abbiamo iniziato a richiamare l’attenzione della cittadinanza sul problema dell’emarginazione dell’infanzia nelle scuole speciali e nelle classi differenziali.

– Lì a quel punto l’incontro di Deliana con la psichiatria, che vive negli anni intorno al °68, a Reggio Emilia, l’affermarsi di una nuova pratica, sul modello dell’esperienza condotta a Gorizia da Franco Basaglia: si progettano il servizio pubblico per la salute mentale e la creazione dei Servizi psichiatrici territoriali, ma soprattutto la battaglia per la chiusura dei manicomi. Una rivoluzione che ancora fa discutere.

Le lotte per la chiusura del “De Sanctis” vedono Deliana, come altri studenti reggiani, tra i protagonisti, insieme a un gruppetto molto colorito di giovani medici, psichiatri e sociologi confluiti a Reggio da ogni parte d’Italia.

– E’ stata Velia Vallini, allora assessore alla Sanità e alla Scuola, a invitarmi in via della Racchetta, dove la Provincia stava aprendo il Centro di Igiene Mentale. Velia Vallini, che è stata veramente una grande amministratrice oltre che una grande donna, aveva capito tutta la carica innovativa del progetto. Più o meno mi disse: «Vai a provare a lavorare con questi giovani: hanno tante idee muove, hanno fatto esperienze importanti. Anche se sono un po’ strani. Ma anche tu sei giovane.»

Una di queste persone strane era il professor Giovanni Jervis, e gli altri venuti a Reggio con lui erano nomi che avevo letto su quelle pubblicazioni che ci facevano discutere fino a notte, quando ci incontravamo tra amici e colleghi: «Quaderni piacentini», «Quaderni rossi», «Fogli di informazione di psichiatria alternativa», che affollavano le librerie in quegli anni. Sono venuti a Reggio perfino alcuni operatori che lavoravano in Inghilterra con R.D. Laing ed eravamo in contatto con tutta l’antipsichiatria italiana.

Il Centro d’Igiene Mentale in città diventerà presto noto come ‘la gabia et màt’, non per i problemi che affrontava, ma per lo stile degli operatori che vi circolavano, che erano considerati un po’ eccentrici anche nel modo di vestire, Le donne, ad esempio, erano arrivate con gli zoccoli e le gonnellone a fiori, anticipando qui da noi la moda femminista che poi dilagò. Era senz’altro un ambiente molto stimolante per chi aveva la fortuna di lavorarvi, un crocevia di idee, ma anche di attività in campi nuovi. Lì si cominciava a gettare le fondamenta per la Medicina del Lavoro, per il processo d’integrazione dei disabili nelle scuole, e più tardi per i SERT.

Per quanto riguarda la fase iniziale, quella che potremmo definire dell’antipsichiatria, ricordo che un momento eroico della nostra lotta per l’apertura del manicomio è stato quando con i sindaci della montagna, zona dalla quale proveniva una forte percentuale dei ricoverati, abbiamo organizzato dei pullman di parenti, per le famose ‘calate’ sul manicomio. Volevamo portarli a vedere cosa avveniva dentro alla “città dei matti”, dove nei reparti dei cosiddetti agitati c’erano ancora le camicie di forza e altre situazioni da incubo. Per tutti fu un vero choc.

Era importante anche far capire che il problema dell’emarginazione cominciava fin dall’infanzia; far riflettere le Istituzioni sulle bocciature, sulle classi speciali e differenziali, sul tipo di ragazzi che le frequentava, sugli Istituti psichiatrici, sulla loro gestione e sulle modalità di trattamento dei bambini e ragazzini ricoverati. Quello era il momento giusto, perché si cominciava a parlare della costruzione di un nuovo edificio per il De Sanctis, costruzione che avrebbe significato, data la spesa di un miliardo di allora, il congelamento di qualsiasi altra ipotesi alternativa. Per questo abbiamo organizzato un convegno al teatro Municipale con relazioni scientifiche di altissimo livello su questi temi: i movimenti di base si sono espressi e hanno potuto incidere veramente sulle scelte che si sarebbero fatte a Reggio sulla scuola e sulla psichiatria. Una cosa del genere oggi ci sembra quasi impossibile.

 

L’antipsichiatria alla prova dei fatti

– Il padiglione De Sanctis ospitava bambini con disabilità varie — ritardo mentale, oligofrenici, bambini down, bambini psicotici, ecc. — provenienti da tutta l’Italia. All’inizio degli anni Settanta erano circa trecento bambini di età compresa tra i quattro e i sedici anni.

L’Istituto era considerato all’avanguardia per la preparazione del personale e per gli sforzi che si facevano per migliorare le condizioni di vita dei degenti, ma era comunque un reparto psichiatrico con le porte chiuse a chiave, con l’uso dei neurolettici, con stanze che assomigliavano molto alle celle di isolamento, con una promiscuità evidente fra “gravi “e “lievi”. Il rumore delle chiavi ti accompagnava dappertutto: per passare da un posto all’altro c’era sempre qualcuno che chiudeva e apriva catenacci.

Il De Sanctis o il Marro — altro padiglione del San Lazzaro per minori con gravi patologie psichiche e considerati non idonei alla scuola facevano parte di quella che veniva chiamata dagli innovatori la catena dell’esclusione, cioè del sistema di separazione dei diversi organizzato con le classi differenziali, le classi speciali, i reparti psichiatrici.

Noi, al contrario, dicevamo che al De Sanctis c’erano bambini e ragazzi scolarizzabili. Ricordo che venne per una serata importante anche il professor Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile, a sostenere, lui che aveva “inventato” le classi differenziali, la validità dell’integrazione e a dire che era positivo per i ragazzi con disabilità condividere con i coetanei normodotati le esperienze scolastiche e di vita. Fu una serata al teatro Municipale, nella Sala degli specchi, molto affollata: ricordo la commozione provata nel sentir dire con parole dotte e sagge quello che anch’io avevo in mente, anche se non in modo così chiaro e teoricamente supportato.

 

– Deliana ha individuato a questo punto della sua vita con chiarezza quale sarebbe stata la sua strada, e dopo la laurea in Pedagogia segue un corso di due anni all’Università di Torino in Scienze dell’Educazione, poi due anni propedeutici alla Scuola di Psicoterapia a Milano, quindi la Scuola quadriennale di Psicoterapia infantile. Ma dal dicembre 1970 lavora anche, finalmente assunta dopo tanto volontariato, al Centro di Igiene Mentale. Uno dei primi impegni, insieme al dottor Adelmo Sichel, è quello di cominciare a chiudere le classi speciali. Bisognava chiudere anche quelle giudicate fino a quel momento all’avanguardia, nate negli anni precedenti in alternativa al manicomio, come la scuola per caratteropatici di Villa Gaida, gestita dalla Provincia.

– Quando ci mettevo piede provavo sempre una grossa emozione, un misto di timore e senso di impotenza. C’erano dieci bambini diagnosticati come caratteropatici che urlavano e si eccitavano a vicenda: una confusione e un rumore fortissimo. Mi chiedo ancora come facessero le insegnanti a gestire quel caos. Per la chiusura della scuola sono state molto importanti l’autorevolezza di Sichel e la collaborazione del direttore didattico Rocchi, una persona di grande sensibilità e un ottimo professionista: con la sua collaborazione abbiamo cominciato a collocare in classi normali questi ragazzini definiti caratteriali.

 

Chiudere i manicomi è roba da matti

– Se chiudere gli Istituti non era facile, il problema davvero enorme era trovare le sistemazioni alternative e l’équipe creata dalla Provincia di Reggio — all’inizio composta solo dal neuropsichiatra Calella, dalla pedagogista Confetti, e da Deliana Bertani, psicologa — comincia a inserire, caso per caso, i bambini nelle classi normali. Quando vengono assunti una decina di operatori riqualificati provenienti dalle vecchie scuole si mettono in piedi due strutture per i bambini più gravi, quasi dei centri d’appoggio: uno a Reggio e uno a Correggio, poi dei poliambulatori riabilitativi in vari punti della provincia. Ma era poco più di una goccia nel mare e le famiglie non sempre erano soddisfatte.

– Il rapporto con le famiglie è stato difficile, e non sempre ha funzionato, perché all’inizio abbiamo gestito le cose in modo troppo ideologico: si era ‘pro’ o contro la chiusura delle istituzioni totali, manicomi e istituti, pro o contro l’antipsichiatria. Poi abbiamo capito che le rivendicazioni delle famiglie erano legittime e che dovevamo ascoltare tutti i problemi, anche i più piccoli e cercare di affrontarli con loro.

Uno degli episodi che ci banno messo più in crisi è stato un incontro nel Municipio di Scandiano con i genitori che ci posero in modo molto civile ma pressante le domande: «Dove staranno i nostri bambini?, cosa faranno?, con chi saranno, quando noi lavoriamo e facciamo i turni anche di notte?»

Questo ci fece capire che non bastava dire: «Chiudiamo le scuole speciali, perché la socializzazione migliora la vita dei bambini!», ma bisognava sperimentare soluzioni alternative che in alcuni casi dovevano coprire tutto l’arco della giornata. Naturalmente le difficoltà più grosse le abbiamo avute con i genitori dei ragazzi più grandi, ai quali anni di ricovero avevano aggiunto o aggravato problemi psichiatrici e che erano difficilmente gestibili in famiglia. Sono serviti ben cinque anni, fino al dicembre 1975, per raggiungere l’obiettivo della chiusura del De Sanctis trovando per tutti i ricoverati una soluzione adeguata.

Quando finalmente la legge 104, legge dello Stato, previde l’inserimento dei disabili nella scuola pubblica con l’ausilio dei docenti di sostegno, a Reggio Emilia la normativa fu subito applicata con convinzione.

Quando le strutture alternative sono diventate una realtà concreta le contestazioni sono diminuite. Le prime verifiche fatte nelle famiglie e nelle scuole sono state positive, il livello di accettazione dei ragazzi inseriti era buono.

Adesso che posso fare dei bilanci, posso dire di essere stata molto fortunata nel mio lavoro, nel senso che ho fatto quello che desideravo fare e soprattutto ho fatto cose che mi hanno dato molta soddisfazione e mi hanno fatto crescere come donna e come professionista.

Con molti colleghi di quegli anni ho ancora rapporti, mentre bo perso di vista gli ex bambini, perché crescendo hanno preso le strade più disparate. Di qualcuno so che è finito male, ma molti altri, la maggioranza, ha una vita pressoché normale, grazie all’accompagnamento in inserimenti protetti, da quelli scolastici a quelli lavorativi.

Questo è un pensiero molto consolante, specialmente quando mi ritorna in mente cosa erano il vecchio Istituto psichiatrico e certi padiglioni come il Morel, il famoso Morel agitate: un reparto femminile dove ho visto le donne legate al letto con le camicie di forza che venivano lavate con la pompa dell’acqua. Lì perdevi la dimensione dell’umano, e il mio sentimento dominante era solo la voglia di fuggire.

 

– Alla fine del 1972 l’équipe di psicologi presso il Centro di Igiene Mentale era completa, con l’arrivo di Carla Tromellini, poi di Jorgo Misto, Dino Angelini e Giuliana Moruzzi, che si aggiunsero a Deliana Bertani e a Valeria Confetti. Nello stesso tempo c’erano neolaureati che venivano per il tirocinio e per fare un’esperienza di cui si parlava nelle università. Alcuni venivano addirittura con borse di studio, tanto era il credito scientifico che l’esperienza reggiana si era conquistata.

  

Aprire la scuola ai ragazzi con handicap

– I primi inserimenti di ragazzi difficili sono stati nella scuola elementare, dove, si può dire, siamo entrati in punta di piedi, chiedendo permesso: ci rivolgevamo a insegnanti già sensibili al problema dell’integrazione e affiancavamo loro degli insegnanti d’appoggio, cioè gli stessi educatori che via via uscivano dal De Sanctis e dagli altri istituti, dopo una formazione che era soprattutto supervisione sul campo. In più cominciavano ad arrivare nuovi educatori assunti dalla Provincia.

Abbiamo scelto, dove possibile, le scuole a tempo pieno che garantivano anche una continuità assistenziale. Allora le scuole a tempo pieno erano numerose nella nostra provincia, perché c’era stato un forte movimento di base di genitori e di cittadini che si era battuto per averle. Eravamo nell’onda lunga del ’68 e su questi temi ci si batteva con entusiasmo. Certo, genitori e insegnanti non mancavano di mettere sul tavolo le difficoltà che si presentavano e le richieste di strumenti e di aiuti ritenuti necessari, quali le competenze riabilitative, didattiche e psicologiche. Chiaramente rispondere a tutto questo non era facile, però c’era la voglia di vincere la sfida.

Non è un caso che tuttora a Reggio, nelle classi, ci sia il più alto numero di ore di insegnamento di sostegno e la scuola sia tra le più aperte ai problemi dell’integrazione degli alunni, come si dice adesso, ‘diversamente abili’. Già da quegli anni l’ispettore didattico Sergio Masini ha avuto un ruolo decisivo nel promuovere e sostenere con noi l’inserimento dei bambini disabili nella scuola elementare. Con lui, nell’85, a Reggio abbiamo fatto i primi “Accordi di programma” fra Scuola, AUSL, Comune e Provincia, in cui venivano definiti i compiti di ciascun ente, le forze da mettere in campo, le modalità di richiesta e i criteri per assegnare le ore di sostegno, ma anche i criteri di verifica dei progetti di inserimento dei bambini e ragazzini disabili.

Per ragazzi che avevano superato l’età dell’obbligo e non potevano più essere inseriti nella scuola, in città abbiamo messo in piedi centri di avviamento professionale in collaborazione con l’Istituto Artigianelli, che gestiva un centro di formazione professionale: l’ENAIP.

Naturalmente non abbiamo avuto solo successi. In montagna, dove abbiamo lavorato a lungo sia io che Dino, la situazione era molto più difficile, non avevamo strutture alternative da offrire, per cui siamo andati molto più a rilento con i reinserimenti.

I ragazzini che vivevano più isolati erano i più esposti al disagio e ai fenomeni di emarginazione, Nella nostra montagna, allora, c’erano situazioni di estrema povertà; ricordo che in molte case che visitavamo trovavamo i pavimenti di terra battuta e le stufette di ghisa al centro della stanza. In interi paesi c’erano solo le persone anziane e le donne, che spesso non ce la facevano da sole a reggere il peso della famiglia, mentre gli uomini erano emigrati a lavorare a Milano, a Genova o addirittura in Francia. Quando andavamo a fare le visite domiciliari incontravamo gente che viveva del sussidio della Provincia e mangiava quasi solo castagne.

Allora si doveva svolgere un lavoro veramente sul territorio, nel senso che andavamo al mattino a casa a prendere i ragazzini che avevamo inserito nelle attività ambulatoriali e di sostegno e li riaccompagnavamo alla sera. Le famiglie erano contente di ricevere un sollievo, un aiuto concreto, perché, oltre alla miseria e al disagio dell’isolamento, spesso dovevano fare i conti con altri familiari con problemi psichiatrici, oppure erano nuclei composti da un solo genitore. Insomma: sempre situazioni pesanti.

Negli anni, anche in montagna, le condizioni generali sono migliorate. Gli enti locali hanno prestato sempre maggior attenzione al disagio psichico della popolazione e sono state create sul territorio opportunità di inserimento anche lavorativo dei ragazzi disabili.

 

Dall’Igiene Mentale al Servizio di psicologia clinica

– Dopo gli esordi eroici del Centro di Igiene Mentale, tutto il discorso della psichiatria reggiana passa dalla Provincia alla USL e nasce il Servizio materno infantile, all’interno del quale c’è tutto: la Medicina scolastica, il Consultorio, la Neuropsichiatria infantile.

Con i medici scolastici Deliana Bertani e tutta l’équipe di psicologi lavorano molto per la scuola, mettendo in piedi le prime équipe pluri-professionali e territoriali, nel senso che sono composte da medici, psicologi, educatori, assistenti sociali, assistenti sanitarie e ostetriche, e comprendono i bisogni di tutte le fasce d’età del territorio dove operano.

Nascono realizzazioni importanti che danno concretezza al sistema di welfare emiliano, anche nei riguardi dei disabili e dei loro diritti. Nascono il cosiddetto “Progetto Dieci”, una struttura diurna educativo-riabilitativa per ragazzi con handicap medio-gravi, e i Centri-appoggio per ragazzi diagnosticati come gravissimi. Nascono gli Atelier, funzionanti sia al mattino che al pomeriggio, per ragazzi che presentano diverse tipologie di difficoltà di apprendimento e di socializzazione.

Questo periodo ricco di realizzazioni va dall’86 fino al 90, quando viene nominato responsabile del Servizio un nuovo neuropsichiatra, cattedratico dell’Università di Bologna e tutto si inceppa, forse perché viene allo scoperto quella contrapposizione che era sempre stata latente tra psicologi e neuropsichiatri nell’intendere la politica per la salute mentale: una visione più sociologica contro una prevalentemente medico-patologica. Le parole di Deliana sono esplicite e testimoniano di scontri e sconfitte subite.

– Quel primario ha accentrato tutto. Il suo interesse era esclusivamente rivolto all’ospedale, anche perché lui si intendeva solo di epilessia e le nostre attività non lo interessavano. Non è stato un passaggio indolore: al contrario è stato molto pesante e ci ha fatto perdere per la strada una serie di alleanze e di collaborazioni sul territorio. Il primario, poi, è riuscito a entrare in ospedale e ad avere un suo repartino di Neuropsichiatria infantile, che prima non esisteva; poi è riuscito a tornare a Bologna, sempre all’ospedale, dove continua a svolgere ottimamente il suo lavoro di epilettologo.

– Nel 1994 si ha una schiarita quando le USL diventano Aziende e a Reggio viene operata l’attuale divisione fra il Servizio di neuropsichiatria infantile e il Servizio di psicologia clinica e si riconosce l’uguale importanza dei due settori. La Psicologia clinica fa parte del Dipartimento di Salute mentale ed è composta di soli psicologi. Risolto questo, altri problemi si presentano a chi come Deliana opera nella Sanità pubblica, quale quello delle risorse economiche e dei bilanci che anche nella nostra regione sono una voragine senza fondo.

– Da quando sono state create le Aziende sanitarie, il criterio dominante è divenuto quello economico. Sono applicati criteri di privatizzazione ad aziende che non sono di produzione: noi non produciamo ricchezza, al massimo cerchiamo di conservarla, aiutando le persone a stare meglio. Anche se non nego che un criterio di razionalizzazione, e conseguentemente di risparmio, era giusto applicarlo.

Come Servizio di psicologia clinica svolgiamo un’attività di cura — diagnosi, presa in carico e terapia — ma anche di prevenzione e di formazione. I pazienti vengono da noi passando dal CUP, su richiesta del medico di base o del pediatra, oppure sono mandati dai Servizi sociali; nel primo caso funzioniamo come servizio specialistico, nel secondo come servizio di base, soprattutto rivolto alla scuola. Abbiamo ora in carico circa 1700 pazienti all’anno: per meno della metà sono adulti, per il resto sono bambini. Io sono diventata responsabile di questo servizio nel 2001.

– Sono molti i progetti sociosanitari innovativi nati sul territorio: attività di sostegno ai reparti oncologici dell’ospedale, attività di promozione alla salute rivolte agli adolescenti e ai giovani; attività con le scuole; attività di consultorio per gli immigrati, attività di integrazione sociosanitaria delle famiglie multiproblematiche, progetti di sostegno alle genitorialità a rischio.

 

Gancio originale

– Dei tantissimi progetti messi in piedi nell’ambito della psicologia clinica, quelli riguardanti la scuola rimangono i più conosciuti, anche per la partecipazione che hanno destato tra i giovani, primo fra tutti lo sportello-consultorio di educazione alla corretta sessualità per gli adolescenti, denominato Open G, a cui hanno fatto ricorso centinaia di studenti reggiani.

Ma il progetto che ha avuto più successo è forse Gancio originale, partito nel 1991 con pochissime pretese ed esploso poi in altre originalissime iniziative di solidarietà tra coetanei.

– All’inizio l’idea di Dino Angelini e di Mariella Cantini, un’educatrice professionale della USL, era quella di creare delle opportunità nel tempo extra-scolastico per adolescenti disabili, per incentivarne la socializzazione. Sono partiti con cinque o sei scout, amici delle figlie della Cantini, che hanno accettato di accompagnare dei ragazzini disabili e di farli partecipare alle loro attività del tempo libero, come fare una passeggiata o andare a mangiare una pizza. La cosa ancora non aveva nome e lo hanno chiamato “Gancio”, perché era una parola che allora andava molto fra i giovani, e “Originale” perché era qualcosa fuori dell’ordinario.

Abbiamo poi avuto studenti universitari obiettori di coscienza e abbiamo visto che con loro molte attività pomeridiane extrascolastiche erano facili, naturali: ci è venuto in mente che qualche pomeriggio, in coppia o in gruppo, potessero andare nei Centri-appoggio dove c’erano dei ragazzi più grandi con disabilità gravi.

– Per ampliare la platea dei potenziali volontari, Angelini, Bertani e Cantini vanno a spiegare il progetto nelle scuole superiori, cominciando con il BUS, dove era preside il professor Carlo Bortolani, che credeva molto in questo tipo di volontariato. La proposta era semplice: una richiesta di collaborazione precisa, definita nel tempo – «Abbiamo bisogno di voi per due o tre ore alla settimana, per fare alcune cose» — e un ventaglio di attività. Poi, dopo una settimana, le adesioni, in modo che le risposte fossero meditate.

– Noi andiamo nelle scuole come servizio pubblico, come USL, e diciamo ai ragazzi: «abbiamo bisogno di voi», ma senza nessuna ideologia alle spalle, nessuna proposta di bandiera da fare propria. Inoltre, la nostra non è mai stata una proposta di vita, qualcosa da compiere perché si aderisce a una ideologia, ma semplicemente qualcosa da fare, perché in un certo periodo hai due ore di tempo disponibili e hai voglia di sperimentarti, di assumere una piccola responsabilità.

Gancio Originale è partito come attività di sostegno ai ragazzini disabili, soprattutto adolescenti in carico ai Servizi; poi si è allargata anche ad attività di aiuto per chi aveva problemi a scuola, alle elementari e alle medie.

 

– Di fronte alla realtà di tanti ragazzi con problemi sia di apprendimento che di comportamento e di relazione, spesso a rischio di devianza, che gli psicologi incontravano quotidianamente nelle scuole, il progetto si è ampliato ai bambini con disagi vari, e il discorso del seguirli nel fare i compiti – prima un filone limitato – è diventato il filone principale. Un po’ in tutte le scuole cittadine esistono ora i cosiddetti workshop, o officine dell’apprendimento, che utilizzano lo stesso spirito delle botteghe artigiane, dove chi è più esperto insegna ai giovani.

L’iniziativa di volontariato prende piede, aderiscono alunni di tutte le scuole superiori e il progetto non sfugge all’attenzione della dottoressa Manoukian Olivetti dello studio APS di Milano, che in quegli anni conduce un’indagine per la Provincia. Nel seminario di restituzione dell’indagine, la Manoukian esprime apprezzamento per Gancio originale, definendolo un’impresa sociale. Da quel momento gli amministratori della USL cominciano a sostenerla e le scuole, dal 1995, iniziano a inserire stabilmente questa attività nell’ambito della loro programmazione educativa.

 

ll volontariato dei giovani

– In quegli anni abbiamo capito che questa iniziativa era un po’ un Giano bifronte, nel senso che aiutava i bambini disabili e i ragazzini a rischio, ma nello stesso tempo stava diventando un’attività molto importante anche per i giovani volontari. Una vera e propria attività formativa e di prevenzione del disagio giovanile, secondo i nostri criteri di operatori sociosanitari. Ce lo confermavano gli insegnanti, ma anche i genitori. Alcuni di loro ci telefonavano stupiti e quasi preoccupati: «Nostro figlio è cambiato. Adesso sta bene.»

Avevamo un gruppo di ragazzi dell’Istituto Zanelli numericamente importante, con i quali avevamo fatto un workshop per gli alunni della scuola media Dalla Chiesa. I ragazzi dello Zanelli non erano fra i più bravi a scuola, tanto che il preside, quando venne a una riunione conclusiva con gli studenti, trasecolò: «Tu fai volontariato? Tu, tu e tu? Siete bravi, ma perché non studiate anche?»

Molti ragazzi fanno volontariato senza che i genitori neanche lo sappiano, ormai abbiamo stabilmente 420-430 volontari all’anno.

All’inizio è una scelta che i ragazzi fanno senza forse avere piena consapevolezza di che cosa comporti, poi, via via che le attività vanno avanti e si presentano le difficoltà (poiché lavorare con dei ragazzini con problemi non è semplice), ci fermiamo per affrontare insieme il problema.

Per esempio, tutti gli anni si presenta il problema dell’autoritarismo e dell’autorità, quando sgridarli e quando dire no. I volontari sono studenti che si trovano momentaneamente dall’altra parte della cattedra e sono spiazzati: «Non mi ascolta, non mi ubbidisce. Come faccio?» Le risposte non sono preconfezionate e vanno trovate caso per caso.

Anche per questo i workshop hanno bisogno della presenza costante di un coordinatore, un tutor che guidi i volontari nella programmazione e nella gestione del gruppo è dei singoli, Così abbiamo cominciato da qualche anno a utilizzare gli psicologi tirocinanti che post lauream debbono far pratica per un anno e i neolaureati di Scienze della formazione che vogliono fare tirocinio.

In generale abbiamo accertato — questo ce lo dicono anche gli insegnanti che con i volontari i ragazzini difficili accettano di più di fare i compiti, perché la maggiore vicinanza generazionale non li fa recepire loro come adulti e quindi affievolisce anche la voglia di trasgredire. Il bambino quasi si rispecchia nel volontario, perché rappresenta quello che lui diverrà fra qualche anno. Per il volontario, d’altra parte, è un’esperienza che porta a una maggiore maturità perché, trovandosi dall’altra parte della barricata, capisce l’importanza delle regole.

 

– Gancio originale comprende ormai anche un’importante azione di formazione per i volontari e dal ’97 sono partiti i seminari residenziali a Marola, per tutti gli studenti volontari, all’inizio dell’anno scolastico: con un gioco di parole il “Seminario al Seminario”.

– Il seminario lo organizziamo nella struttura che appartiene alla Diocesi reggiana. Si svolge per un giorno e mezzo nella prima settimana di settembre, compresa quindi anche la notte. È una specie di gita scolastica, durante la quale però lavoriamo, anzi lavorano come dei matti. Mentre i ragazzi fanno dei laboratori in cui imparano delle tecniche (teatro, attività di gruppo, giochi, ecc.) che poi dovranno essere utilizzate nei workshop, riflettono e discutono sul lavoro fatto e da farsi, anche noi adulti facciamo lavoro di gruppo: riflettiamo, programmiamo, modifichiamo insieme con gli insegnanti, i presidi e tutti i nostri collaboratori. Abbiamo messo in piedi quella che definiamo “la cassetta degli attrezzi”, un libro che raccoglie le varie attività che si possono fare nei laboratori con i bambini. Ad esempio, la professoressa De Pietri del liceo Moro ha preparato un corso per insegnare la matematica giocando.

– Tutto il progetto, sia l’attività di sostegno che il coordinamento e la formazione dei volontari, è fatto in assoluta economia, facendo lavorare tante persone, senza quasi spendere un euro. C’è stato un primo finanziamento regionale, per un anno, poi è stato chiesto un finanziamento triennale alla Coop Nordest, perché i finanziamenti della Regione erano finiti. La Provincia dà un po’ di soldi, inoltre permette di stampare il materiale per la formazione e di organizzare convegni. Ora, da alcuni anni, c’è di nuovo un piccolo finanziamento della Regione e Deliana Bertani sa di dover fare molta attenzione ai costi.

– Mi preme sottolineare che sono pochi i soldi che spendiamo annualmente, anche ora che abbiamo più di 400 volontari con i quali seguiamo più di 350 ragazzini in difficoltà. I soldi servono per retribuire con somme molto modeste il coordinamento dei workshop, cioè i tutor, per rendere solida, affidabile e produttiva la catena del tutoring che si è creata. I giovani volontari seguono i bambini e i ragazzini; a loro volta, sono supportati dai tutor, dai giovani psicologi, e dagli insegnanti referenti della scuola, che a loro volta possono contare su noi operatori.

Nell’ultimo anno scolastico abbiamo realizzato venticinque workshop, con trentasette pomeriggi di attività di gruppo. Quindi sono trentasette gruppi di bambini, quasi tutti impegnati per due pomeriggi settimanali, per tutto l’anno scolastico, da novembre alla fine di maggio.

– La caratteristica di questi progetti sembra essere la capacità di generare altre nuove iniziative di sostegno e di volontariato. Così dal 2004 è nato il Free Student Box, uno sportello di consulenza psicologica per gli studenti delle scuole superiori. I consulenti sono psicologi della rete dei servizi della USL, a cui sono indirizzati i casi più complessi. Ma intorno allo sportello c’è un gruppo di dieci-quindici ragazzi, chiamati peer (pari), molti provenienti dall’esperienza di Gancio, che vengono ingaggiati a propagandare nelle varie classi la presenza di questo consultorio. Funzionano come avamposti di ascolto nelle classi, accompagnano allo sportello amici in difficoltà, segnalano tematiche di disagio giovanile che diversamente gli adulti tarderebbero a individuare.

 

I ragazzi extracomunitari entrano nella Stanza di Dante

L’ultimo nato nella fucina dei progetti realizzati da Deliana Bertani, da Dino Angelini e da Mariella Cantini con i volontari delle scuole superiori è La stanza di Dante, un workshop di accoglienza per ragazzi immigrati appena arrivati nella nostra città, che non sanno ancora l’italiano.

– Nel 2001 la preside dello Scaruffi mi chiese di aiutarla, perché aveva otto studenti cinesi che non capivano una parola d’italiano e non sapeva come fare. Abbiamo messo in piedi un laboratorio pomeridiano con dei volontari che accoglievano questi ragazzi con un po’ di inglese e utilizzando delle immagini riuscivano a comunicare. Quegli otto ragazzi cinesi hanno continuato a frequentare il laboratorio e questo significa che qualcosa hanno imparato, perché è difficile tenere legati i cinesi a qualcosa che loro non considerino importante e fruttuoso.

Quello stesso anno a Marola, ripensando l’esperienza, la professoressa De Pietri propose di utilizzare dei volontari delle diverse nazionalità che erano immigrati da un tempo più lungo e avevano già attraversato la fase dell’ambientamento. Lei stessa aveva in classe un allievo cinese bravissimo, con queste caratteristiche. L’anno successivo abbiamo cominciato a utilizzare studenti immigrati delle tante nazionalità che arrivano a Reggio: è il meccanismo del Gancio originale, ma spostato sul versante dell’accoglienza.

Se l’esperienza di Gancio originale è molto formativa per i volontari, l’esperienza della Stanza di Dante è entusiasmante, la prova della loro reale integrazione. L’anno scorso siamo stati intervistati da Telereggio con alcuni di loro, fra i quali un ragazzino vietnamita che frequenta l’IPSIA e che sa benissimo l’italiano, perché è arrivato in Italia molto piccolo. Mentre lo stavo riportando a casa in macchina ha detto orgoglioso; «Dottoressa, stiamo diventando famosi.» Quasi quasi è vero.

Nel 2003 Raitre ha scelto l’esperienza della Stanza di Dante all’Istituto Scaruffi di Reggio Emilia come uno dei tre esempi a livello nazionale di attività tese all’integrazione dentro le scuole. Il servizio girato all’inizio dell’anno scolastico è stato trasmesso da Rai Educational. Due ragazze magrebine con accento reggiano hanno illustrato la loro esperienza e una ragazza cinese ha reso molto bene l’idea del dare e del ricevere grazie all’iniziativa, perché ha detto di aver insegnato ai suoi connazionali l’italiano mentre lei ha riacquistato l’uso della lingua cinese scritta, che aveva abbandonato già da anni.

Queste esperienze hanno tutte avuto successo, grazie alla creatività sviluppata in un circolo virtuoso da adulti e ragazzi, nel caso della Stanza da ragazzi immigrati che in questo caso si sono sentiti protagonisti e hanno vissuto un momento di vera integrazione interculturale. Successi come questi sono ancora piuttosto rari nell’esperienza quotidiana dei ragazzi figli di immigrati, che al contrario vivono anche a Reggio il disagio della dicotomia fra due culture diverse: le ragazze, divise fra costumi e precetti morali diversi, ma anche i maschi, combattuti tra vecchi e nuovi modelli di comportamento. Spesso smettono di andare a scuola e allora la devianza, come manifestazione di un grosso disagio, diventa un rischio reale.

La fatica di vivere l’adolescenza

– Grazie alla sua lunga esperienza, dalle battaglie per la chiusura dei reparti infantili nei manicomi all’organizzazione del volontariato nella scuola, Deliana Bertani è un’osservatrice privilegiata del mondo giovanile e si arrabbia molto quando sente esprimere giudizi critici o condanne generalizzate riguardo agli adolescenti di oggi.

– I giovani reggiani hanno le caratteristiche comuni agli adolescenti del mondo occidentale odierno, ma anche agli adolescenti delle generazioni precedenti: tra tutte, la fatica di crescere, fatica che abbiamo fatto anche not alla loro età.

Su questo punto la differenza più sostanziale riguarda gli adulti: sono loro a essere cambiati in un mondo sempre più complesso, problematico e povero di certezze, e questo si riflette sugli adolescenti.

Un tempo c’erano delle regole e delle tappe stabilite dal mondo degli adulti, c’era una ritualità che accompagnava nella crescita. C’erano segnali esteriori condivisi anche nell’abbigliamento: ad esempio, fino alla terza media le ragazze portavano le calze corte, per tutta la scuola dell’obbligo portavano il grembiule. Queste regole anche banali davano più sicurezza, sia all’adulto che all’adolescente.

Adesso questo passaggio è scandito in modo più individuale; l’unica scansione socialmente condivisa è quella del passaggio da un ordine di scuola a quello superiore. Il problema, però, è che la scuola è poco consapevole, o ignora completamente di essere rimasta l’unico sacerdote di questo passaggio; quando lo sa ha anche paura, perché non ha gli strumenti adeguati per regolare questi riti di passaggio. Inoltre, sempre più spesso i giovani mettono in discussione l’autorevolezza di una scuola che sentono troppo lontana dai loro problemi, e quindi del tutto incapace di valutare la loro crescita.

Così oggi i riti sono diventati individuali, del tutto nuovi e anche un po’ inquietanti. Ad esempio, anche a Reggio ci sono alcune delle più grandi scuole di tatuaggio, perché i tatuaggi servono ai giovani a sancire un evento importante.

Chi si fa un tatuaggio lo fa per scandire un passaggio da una situazione a un’altra: è appunto un rito individuale, molto diffuso e trasversale, utilizzato non volo dai giovani problematici, ma dai giovani in generale.

Quando si va oltre il disagio fisiologico, quello legato alla crescita, nasce un allarme sociale, perché vediamo molti comportamenti a rischio anche nei ragazzi più normali. Questi comportamenti sono essenzialmente delle sfide: l’andare forte in macchina, usare il cellulare in classe, bere fino a stordirsi. È chiaro che questo è possibile perché a Reggio ci sono tante macchine, tanti cellulari e tanti soldi; però sono fenomeni ormai diffusi ovunque e fanno riferimento agli aspetti deteriori di un certo mondo degli adulti, che è il modello negativo che si impone anche attraverso i mass media e che la scuola e la famiglia faticano a contrastare.

Occorre poi distinguere fra un’adolescenza reggiana autoctona e una immigrata. C’è una grossa differenza e nella seconda c’è una sofferenza più profonda, derivata dalla tensione non risolta fra l’essere figli ‘di’ e il voler appartenere ‘a’, cioè tra il bisogno naturale di rimanere ancorati ai valori della famiglia di origine e il desiderio di integrarsi in quelli nuovi e spesso contrastanti della nuova realtà in cui sono venuti a vivere.

Avendo questi rapporti stretti con il mondo giovanile, mi arrabbio molto quando i giornali ne parlano come se i giovani fossero solo degli irresponsabili: non sono solo così e, anche quando lo sono, non è colpa loro. Credo di poterlo affermare con cognizione di causa, se considero tutte le iniziative di solidarietà realizzate in questi anni coi ragazzi che riguardano la loro parte adulta e positiva, che noi aiutiamo a far emergere.

 

—-

 

Potrebbero interessarti anche...