Speranze inedite e remoti fantasmi di un’esperienza rapidamente conclusa

di Renato Curcio

da “Gennaio 1968, Supplemento al N. 22 del Manifesto”, Gennaio 1988, pp. 18 – 20

1.La storia scrive sempre il presente. Questa è la sua nascosta perfidia. Un gioco di parole: nient’altro che una stringa di scrittura. O meglio, tante e diverse scritture quanti sono gli scrittori in servizio. Scritture diverse nel presente. Diverse dal passato. Rispetto alle quali, in ogni caso, i corpi vivi di un tempo, oppongono un impenetrabile silenzio.

E vero anche questo, tuttavia: il presente si può interrogare. Può porre e porsi domande. E , forse, proprio nel clivaggio tra l’infinità della domanda e l’impossibilità della risposta, vivono in metamorfosi perenne le parole della storia.

D’altra parte c’è un pregiudizio diffuso. Sento e risento dire che già tutto si è detto. Dopo la pietà…anche curiosità l’è morta.

Ecco, proprio questa mi sembra la sfida. Ridare alla curiosità l’eros e la vita.

2.Interrogarci sul ’67 e dintorni richiede il rispetto di una condizione basilare: la rinuncia ai luoghi E i luoghi comuni entro cui sono stati imbozzolati quegli anni sono spesso detti e arcinoti: la rivolta fallita; il ·fraintendimento di una rivoluzione; l’uccisione simbolica dei padri.

Mi muoverò subito altrove. In un luogo più inquieto che si chiama ‘transe’. Perché proprio questo mi sembra sia stato quel frangimento sociale che ho vissuto allora . Niente di simile a un progetto, ma piuttosto un trauma ; un’esplosione del consueto e delle prospettive probabili che a partire da esso

ognuno di noi s’era immaginato. Stato di comunicazione esplosa: non una «rivoluzione politica» ma una metamorfosi radicale di ogni forma di relazione in atto.

L’ambiguità di quegli anni

A pezzi l’androcentrismo millenario. In briciole l’autorità dell’accademia. E basta col carcere-fa­ miglia. Per non parlare dell’arcaica morale sessuofobica . << Sesso è bello» e uffa-che-barba tutte le parole di chi s’ostina a negarlo.

Inedite speranze, dunque , dopo un tremendo ventennio postbellico che aveva inchiodato la società italiana a una ricostruzione impastata di bassi salari, valori desueti e senza fantasia . Ma anche fantasmi inveterati!

In un paese saturo d’ ideologia, com’era allora l’Italia, le suggestioni e i sensi di colpa per una «rivoluzione borghese» mai tentata e per una «rivoluzione proletaria» incompiuta, covati entrambi in decenni di nostalgie, ambizioni e delusioni post- fasciste , cercarono lo spazio per un ultimo sabba .

Fu un ballo in maschera . E un banchetto cannibalico.

L’atroce ambiguità di quei « magnifici anni» è tutta qui: nel ritorno mascherato di matrici e stratificazioni culturali del passato ; e nello sbranamento dei desideri liberati, delle speranze inedite, che le impreviste e secolari gole hanno perpetrato .

3.Come tanti altri ero andato a Trento a seguito d’una scelta coraggiosa operata dai promotori dell’università di Sociologia: l’apertura delle iscrizioni anche agli studenti che provenivano dagli istituti tecnici . Come tutti gli altri e per alcuni non immaginai neppure che questa scelta avesse per così dire scavato. sotto i pilastri gentiliani di  un’università ancora tutta elitaria, una voragine catastrofica.

Eccitato dai suoi successi, il neocapitalismo italiano degli anni ’60 si pavoneggiava in ambiziosi progetti. Assorbito dalla narcisistica esplorazione delle sue tendenze, esso non prestava attenzione ai primi e sinistri scricchiolii. Eppure, proprio nell’anno in cui s’inaugurava a Trento una facoltà del futuro, a Torino, in piazza Statuto, s’era presentata senza farsi annunciare una nuova ed enigmatica figura :. operaio massa.

4.Che a Trento, nella seconda metà degli anni ’60, ci si desse da fare per ottenere il riconosci­ mento della laurea in sociologia piuttosto che in Scienze politiche e sociali a indirizzo sociologico, era forse un po’ <<corporativo» ma non certo stravagante . C’erano da abbattere radicatissimi pregiudizi antisociologici diffusi nella cultura italiana dall’idealismo C’era soprattutto da valorizzare , contro il progetto Maranini Miglio di riforma della facoltà di Scienze politiche, la differenza qualitativa d’una nascente categoria professionale. Insomma, con tutto l’orgoglio pionieristico di chi s’avventura in una professione nuova, già nel gennaio-febbraio del ’66 s’incominciò a lottare.

5.Poiché, come ho detto, le storie  sono  tante quanti sono coloro che le scrivono , eviterò generalizzazioni. Dirò invece che, in seguito all’inevitabile coinvolgimento corporativo , mi toccò in sorte di venire eletto in quello che allora si chiamava Orut (Organismo rappresentativo universitario trentino).

Buffo destino!

Immagine riflessa dei partiti politici, questi micro-parlamentini studenteschi erano infatti giunti ai loro ultimi giorni. Mano a mano che cresceva la lotta, una fetta sempre più ampia di studenti mostrava  in tutti  i modi di  non gradire  affatto  la «delega » e il modello istituzionale al quale essa s’ispirava . E così, mentre lo slogan « rifiuto delle delega » occupava tutto lo spazio sonoro, a qualcuno balenò l’idea di «Occupare l’università».

Era il gennaio del 1966. Quando al tramonto del giorno fatidico mettemmo piede nell’atrio della facoltà e invitammo i bidelli a uscire, il loro sguardo attonito espresse nel migliore dei modi lo sbigottimento che nei giorni seguenti avremmo letto sui giornali.

Occupammo  l’università  per  diciotto  giorni  e si trattò , per i tempi , di un gesto sacrilego. Che quel luogo fosse, per consuetudine secolare , considerato un «tempio » fino ad allora era fuor di discussione. Anche la borghesia allevava i suoi chierici…

Ora mi sembra questo: in delega, alla sacralità dell’università, andò in frantumi anche un mito: quello del sociologo come ancella del potere.

Non che allora tutto ciò mi fosse chiaro. L’effetto «Stella nera » riuscì per un po’ di tempo ancora a mascherare le cose.

6.Nel giugno del ’66 ci fu il riconoscimento del titolo di laurea. Nella ripresa autunnale , tuttavia , la febbre dell’occupazione ricominciò a salire. Nell’ottobre-novembre “66  ci  riappropriammo dell’università per diciassette giorni e questa volta per elaborare un « nostro» piano di studi quei diciotto giorni dei primi mesi del ’66 insieme all’Orut.

Al riguardo ci sono molti documenti e non starò qui a spendere altre parole su un problema che peraltro segnò uno scontro con l’Accademia mai risolto. Voglio dire, però, che fu proprio in questo scontro che, insieme ad altri, anch’io cominciai a dubitare sull’efficacia del «dialogo». E in questa occasione iniziarono anche le prime discussioni che portarono molto presto al «Manifesto per una università negativa».

7.All’epoca di questi fatti in altre parti del mondo non mancavano certo le inquietudini. Nelle università americane, per esempio, gli studenti avevano incominciato a lottare contro la guerra in Vietnam.

«Stop the war in Vietnam », «Stop the war in Vietnam». Questo grido cominciò a percorrere i fili della comunicazione che unisce tutti i popoli del mondo. Che esso da Berkeley rimbalzasse nelle infuocate assemblee trentine era in un certo sen­ so obbligatorio. Bastava la sociologia per creare la parentela. Ma una parentela ambivalente. Legata ai modelli culturali degli indirizzi americani, per le autorità che in gran segreto avevano elaborato il piano di studio. Solidale con gli appelli del Free spech movement , per la massa degli studenti.

I  rivoli  di  mille  rabbie

Il ’67 fu l’anno in cui la solidarietà col popolo del Vietnam e con gli studenti americani che si batte­ vano contro gli arruolamenti sovradeterminò tutte le  preoccupazioni corporative . Quando poi giunsero le notizie sui quattro studenti uccisi dal­ la Guardia nazionale nel campus di Berkeley, la saldatura fra problemi locali e solidarietà internazionali raggiunse il colore rosso del sangue.

Di questo , mi sembra , ci si dimentica troppo spesso. Degli studenti picchiati e uccisi, voglio dire. Come se questo choc non avesse innescato una rete di connessioni folgoranti che in breve tempo incendiò le università tedesche , francesi , italiane e via elencando .

A Trento occupammo per l’ennesima volta l’università. Ma questa volta si trattò di un’occupazione tutta politica. E non a caso conoscemmo il bastone della polizia! Era la prima occupazione «per il Vietnam » che si registrava in questo paese.

Fu la prima occupazione universitaria sgombrata dalla polizia dopo molti secoli!

Nell’ottobre dello stesso anno, quando dalle montagne boliviane giunse inattesa la notizia della morte del Che, sembrò un po’ a tutti naturale rilanciare anche il suo grido nelle strade. A «Stop the war in Vietnam» si fece così seguire «primero la lucha , y la conscienza despues».

Alla fine del ’67 i rivoli di mille rabbie e insoddisfazioni trovarono il modo di confluire in un uni­ co grande fiume. Un fiume che ruppe gli argini di una società istituzionalmente rigida ed arcaica . E che, non trovando – almeno in questo paese – fasce sociali capaci di una qualsiasi mediazione , dilagò in ogni direzione.

8.Quando sui muri dell’università  apparve la scritta  « non vale la pena di trovare  un posto in questa società , ma di creare una società in cui valga la pena di trovare un posto», i fantasmi dell’ideologia s’erano già conquistati un grande spazio.

Può darsi che allora, delle scritture di cui questi fantasmi  ci  facevano  dono, noi avessimo  bisogno. Certo è che, di tutte  le cose “ sacre” del passato , furono proprio le loro scritture a “entrare in gioco” con le nostre domande. Nella danza  delle assemblee, finite  le lusinghe della seduzione neo·capitalistica, ci si cominciò a chiedere : perché studio? come mai io posso studiare e la maggior parte degli uomini no? a cosa mi serve questo tipo di studio? a chi serve?

L’università  cominciò  a essere  definita , a  buon diritto s’intende, (< autoritaria », «selettiva », “ manipolativa”.  Il disagio  reale d’una condizione studentesca  ormai sospesa tra due epoche si condensò nello slogan: «non vogliamo mangiare alla vostra tavola. Vogliamo rovesciarla» .

Rovesciare, creare: fra queste due polarità, anche la figura professionale del sociologo finì presto sotto i denti della critica. E si cominciò ad avanzare l’ipotesi dell’anti-professionista: l’anti-sociologo, l’antipsichiatra , …Una figura anomala , disposta a sottrarsi a quei ruoli di controllore sociale per essa previsti dai programmatori del neocapitalismo . Disposta ad affiancarsi – come si diceva allora – «non episodicamente alle forze antagonistiche della società ».

Immaginato come  «militante collettivo»  e come “intellettuale collettivo”, l’anti-sociologo avrebbe dovuto dimostrare la possibilità di fare «critica » senza separarsi dalla « pratica ».

8.Naturalmente le discussioni tese a stabilire se gli studenti fossero o meno una «classe rivoluzionaria» e se il periodo che si stava vivendo fosse o meno rivoluzionario, divisero e unirono la massa studentesca.

A Trento, comunque, l’influenza della cultura operaista, secondo cui gli studenti dovevano essere considerati figure sociali interne alla classe operaia, non fu mai dominante. L’idea che prevalse fu piuttosto quella di considerare gli studenti una «categoria sociale» trasversale alle classi. Non una classe. Di conseguenza, pur essendo apprezzata nella sua differenza specifica come «lotta sociale anticapitalistica», la rivolta

studentesca non venne mai candidata ad assumere un ruolo sostitutivo della lotta operaia. Né, del resto il fatto che tutto l’occidente capitalistico fosse investito da questa rivolta, ci portò mai ad affermare che la situazione fosse, per così dire, rivoluzionaria.

Forse anche per i buoni e frequenti rapporti con l’Sds di Rudy Dutchke, fu sempre una prospettiva di «lunga marcia attraverso e contro le istituzioni» ad avere la meglio su altre impostazioni. Una marcia, come si pensava allora, di disgregazione, distruzione, riqualificazione.

«Si tratta di conservare la struttura dell’istituzione rovesciandone la funzione. Non più fabbrica di

laureati pavloviani da inserire supini nel sistema, ma fabbrica di militanti, teoricamente armati, praticamente svversivi, in grado oggi d’iniziare la lunga marcia, domani di continuarla nell’istituzione specifica in cui verranno immessi».

Ecco qua: l’elaborazione iniziata tra il ’66 e il ’67 nell’università negativa, raggiunge, con l’ultimo

grande esperimento del laboratorio trentino — l’università critica , nell’autunno del ’68 – la sua “classicità”. E in questo compimento fiorisce l’utopia .

10.Extraparlamentare e post-partitico. Con queste parole si sono voluti connotare alcuni aspetti essenziali della lunga marcia immaginata .

Posta dalla rottura con l’organismo rappresentati­ vo unitario, la questione del “rifiuto della delega” si precisò con gli anni nel rifiuto d’ogni canalizzazione parlamentare e partitica delle lotte. Si rivendicava una partecipazione  diretta , militante, in prima persona. Una presenza senza mediatori nel processo decisionale : alla preparazione , all’esecuzione , al risultato di ciò che si andava facendo. Fu per questo che a Trento, nella seconda metà del ’68, ci ritrovammo tutti fuori dai gruppuscoli, sette, organizzazioni e partiti. Alla ricerca d’una nuova forma della comunicazione e dell’a­ gire politico: questo fu senz’altro un grande sogno! E tuttavia , le mille esperienze  assembleari – strutturate, organizzate , ecc. – non riuscirono a risolvere il problema . Anzi. Sul fatto che la struttura assembleare , comunque intesa, fosse in definitiva ((repressiva » e << fascistizzante », furono spesi milioni di parole.

Ma all’invenzione d’un nuovo modello di comunicazione tra ogni compagno e gli altri del suo gruppo di lavoro, tra ogni gruppo di lavoro e gli altri all’interno d’uno stesso settore, tra ogni settore e tutti gli altri settori, tra l’insieme determinato dei settori e l’assemblea generale ….non ci arrivammo  mai.

Uno scacco.  Indubbiamente . Una  sconfitta  che portò acqua al mulino dei fantasmi . I quali, con la pazienza  atemporale  che  gli deriva dall’essere scrittura , riproposero per i nuovi problemi le più antiche e consolidate soluzioni. Fu così che l’in­capacità di fare un passo avanti si trasformò in molti passi indietro.

11.A ben vedere però non mancarono scintillanti intuizioni. Fra tutte questa : la rivoluzione politica – almeno nell’occidente metropolitano – doveva essere ridimensionata a funzione d’una più complessa rivoluzione sociale e antropologica. Quale fosse la miseria economica , politica e sessuale di ciascuno studente lo sapevamo bene. Per esperienza diretta . E quanto questa «miseria corporale» incidesse nel funzionamento pratico delle strutture di movimento che via via si andavano progettando , lo si scopriva giorno dopo giorno. Per questo le riflessioni sulle incongruità , spesso clamorose , delle forme della coscienza studente­ sca e per estensione di quella proletaria, rispetto alla collocazione dei soggetti nei rapporti sociali oggettivi, accompagnarono l’intera esperienza.

L’attenzione ai processi d’incorporazione delle forme-pensiero , dei modelli di comportamento e di sensibilità dominanti fu molto accesa fin dai controcorsi del ’67 . Ma è nel ’68 che, in seguito ai seminari autogestiti – sui Manoscritti del 44 del giovane Marx, su Storia e coscienza di classe del giovane Lukacs, su Eros e civiltà del vecchio Marcuse, sulla Rivoluzione sessuale di Reich, e sulla

«rivoluzione culturale» delle Guardie rosse – precisammo l’idea secondo cui l’imborghesimento ideologico, il «menscevismo interiore», come pure !’”io- debole” e il «corpo miserabile», promanavano da precise istituzioni .

Naturalmente da ciò tirammo anche una precisa conclusione. Se per sciogliere le corazze della (<falsa coscienza » e del «falso corpo» occorreva incidere sull’apparato istituzionale preposto alla loro riproduzione – parlamento, partiti, chiesa , stampa , sindacati , esercito , scuola , famiglia –

…beh,” allora l’’«azione esemplare» era proprio la desublimazione ideale per un’effettiva «politica corporale » .

Non era questo che insegnavano il Che, Huey Newton e le stesse rivolte studentesche di Berkeley , Parigi e Berlino?

Ma sì: la (< propaganda armata » ! Non un pensiero che premesse contro la realtà, ma una realtà capace di premere contro il pensiero.

Fu questo che chiamammo: utopia operante. Fatti di realtà alternativi all’ordine esistente che, sviluppando una politica corporale, promuovessero una rivoluzione pienamente sociale. E portassero in essa la massima gaiezza.

12.L’università critica fu certamente, di tutto ciò che chiamiamo Utopia operante, una dimostrazione clamorosa. Una potenzialità di rapporti lievitanti, comunicazioni esplose, dispute ideologiche, eros e lotte che in qualche modo resiste al logorio e al disincanto degli anni.

E tuttavia con l’estate del ’69 la lunga «transe collettiva» del Movimento studentesco antiautoritario trentino s’esaurì. Ci fu un «risveglio». Una presa d’atto. Una diaspora. Come in ogni altra «transe» trionfò l’impermanenza. Una chiusura senza resti. Una discontinuità radicale. Un ridimensionamento dell’Utopia operante in fuoco di memoria. Non però una memoria reducistica o celebrativa. Nient’affatto. Che anzi, col passar degli anni, sono le domande inquietanti a trionfare. E proprio in questo «saper ancora suscitar domande», io credo, sta il senso più profondo di quell’esperienza irrimediabilmente conclusa.

Esperienza ancora tutta viva proprio perché definitivamente morta. Esperienza che resta operante come la sua Utopia, nei corpi di chi l’ha attraversata, tenendo vivo l’eros e il desiderio. «L’uomo nuovo, il rivoluzionario del XXI secolo sono frutti che devono ancora maturare sull’albero genealogico della sinistra rivoluzionaria europea». Ecco, queste parole che scrivevamo in piena «transe» forse sono ancora oggi da esplorare. Nel frattempo vent’anni di conflitto durissimo, anche armato, più che alle «speranze inedite» hanno dato corpo ai remoti fantasmi. E, a cose fatte, essi ci stanno alle spalle esauriti anch’essi e muti,come un gigantesco punto interrogativo.

Dov’è mai finita l’energia liberata dall’esplosione sociale del triennio ‘67-69?

Hanno vinto i fantasmi?

O, forse, giunti infine alla luce, sono proprio essi a essere stati sconfitti?

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