La persecuzione dei Sinti e dei Rom in Emilia Romagna durante il fascismo

di Paola Trevisan

1.Perché la persecuzione dei Sinti e dei Rom in Italia non viene ricordata né studiata?

Sinti e Rom sono stati mandati al confino nel centro e sud Italia, internati in località scelte dai prefetti in ogni provincia del Regno e rinchiusi nei campi di concentramento fascisti. Il Ministero degli Interni aveva previsto per loro spese di cibo e alloggio più basse di quelle, già scarse, date alle altre categorie di internati (ebrei, sudditi di stati nemici, oppositori politici, etc.). Gli uomini, inoltre, venivano chiamati sotto le armi proprio mentre le loro famiglie erano internate. Perché, quindi, la loro persecuzione durante il fascismo non è stata finora adeguatamente documentata e non ha richiamato l’attenzione degli storici e di quant’altri lavorano affinché le memorie di quel periodo storico non si perdano nell’indifferenza? Possiamo dire che, nel dopoguerra, coloro che erano stati perseguitati sono tornati ad essere solo degli “zingari”, le cui sofferenze non richiedevano né testimonianze, né documentazione, né trasformazione in memoria storica condivisa. La costruzione di una memoria storica condivisa, che non escluda chi – nel dopoguerra – non ha avuto accesso ai mezzi di informazione, al dibattito politico e neppure ad un livello di scolarizzazione che permettesse di uscire dall’analfabetismo, in Italia non ha avuto luogo. I Rom e i Sinti sono rimasti cittadini di serie B, di cui era meglio non occuparsi e da cui prendere le distanze.  La mancata elaborazione del profondo antiziganismo che ha permeato tutta la storia d’Italia – non solo il ventennio – fa si che essi non siano tutt’oggi percepiti come vittime del fascismo.

  1. Le testimonianze dei Sinti di Reggio Emilia

Il disinteresse dimostrato dalla società e dall’accademia italiane sul trattamento che il fascismo riservò ai Sinti e ai Rom ha fatto sì che i ricordi delle persecuzioni subite rimanessero una questione privata. La pubblicazione della biografia del Rom Giuseppe Levacovich (1975) non cambiò sostanzialmente le cose, tanto che nessuno studioso cercò riscontri documentali al racconto di uno “zingaro” che testimoniò sia del confino di polizia a cui furono sottoposti Rom della Venezia Giulia, sia dell’internamento a Tossicia (TE) di una settantina di rom della provincia di Lubiana. Stessa sorte tocco alla biografia di Gnugo de Bar (1998) che, per primo, raccontò dell’internamento dei Sinti  emiliani a Prignano sulla Secchia (MO).

Quando, nel 2001, ho iniziato una ricerca etnografica fra i Sinti di Reggio Emilia alcuni di loro aveva fondato l’associazione Them Romanò, per chiedere accesso ai diritti di cittadinanza. Fra le varie iniziative portate avanti dal presidente Vladimiro Torre e dagli altri membri dell’associazione, vi fu la richiesta di un corso per l’alfabetizzazione per adulti Sinti. Tenuto conto del difficile rapporto fra Sinti e scuola (Reggio fu l’ultima città in Italia in cui vennero chiuse, agli inizi degli anni ’80, le scuole speciali per bambini “nomadi”) questo fu un momento di forte impegno e sperimentazione nella comunità dei Sinti reggiani. Fra i partecipanti al corso nacque l’idea di preparare un libro che raccogliesse le loro storie di vita e chiesero a me di scriverlo, sulla base di quello che loro raccontavano (Torre, Relandi et alii, 2005, Storie e vite di Sinti dell’Emilia). I più anziani ricordavano l’internamento a Prignano sulla Secchia di genitori o fratelli e sorelle maggiori e qualcuno aveva passato lì i primi anni della sua infanzia. Cominciai a cercare dei riscontri in letteratura sull’esistenza di un campo di internamento per “zingari” nel modenese, senza trovare nulla. Questo incredibile vuoto storiografico fu il nostro punto di partenza. Chiedemmo l’autorizzazione per accedere ai documenti d’archivio del Comune di Prignano sulla Secchia, riuscendo a trovare una lista di 79 persone, tutti Sinti italiani. La lista – pur confermando appieno quello che i Sinti reggiani ricordavano – non era sufficiente per comprendere le politiche anti-zingare del regime fascista nella loro totalità. Iniziò così un lungo lavoro d’archivio i cui risultati  presenterò in breve qui di seguito.

3.Un breve excursus nella politica anti-zingari del regime fascista

La politica anti-zingari del regime fascista fu rivolta, in un primo momento, verso gli  “zingari” stranieri, i quali dovevano essere respinti alla frontiera anche se muniti di regolari documenti. Le espulsioni che seguirono l’arresto nel territorio del Regno di “zingari stranieri” consistevano nell’accompagnamento forzato oltre frontiera, all’insaputa degli stati confinanti. Questa fase si protrasse per tutti gli anni ‘20 e ‘30, diventando, però, sempre più difficile da praticare per le tensioni dovute al nuovo scenario internazionale che si andava profilano con l’ascesa della Germania nazista. In particolare, fra il 1937 e il 1938 i Sinti e i Rom che vivevano nelle cosiddette nuove provincie di confine (Venezia Giulia e Venezia Tridentina) furono sottoposti a speciali misure di sorveglianza e mandati al confino di polizia nel centro e nel sud Italia. Infine, con la circolare n.634621.10 dell’11 settembre 1940, venne predisposto l’internamento di tutti gli “zingari” presenti nel territorio nazionale. L’internamento degli “zingari” rientrò nell’organizzazione generale dell’internamento dei civili sotto il regime fascista, applicato a tutti coloro che fossero ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato, indipendentemente dalla loro nazionalità. Esso prevedeva due tipi di procedure: l’internamento in “campi di concentramento” (specialmente nel centro e nel sud Italia) e l’internamento in “località” (molto simile al confino di polizia) in zone lontane dalle frontiere e dalle opere militari. Per entrambe le procedure di internamento vennero scelte località isolate e piccoli paesi, il che rendeva le condizioni di vita ancora più dure. I Rom e i Sinti furono sottoposti ad entrambe. Essi vennero inviati nei campi allestiti nel centro sud della penisola: ad Agnone e Boiano in Molise e a Tossicia, in Abruzzo. Le località per l’internamento degli “zingari”, invece, furono attivate soprattutto nel centro nord.

La maggior parte dei campi e delle colonie di confino si trovavano nelle regioni meridionali che, man mano, passarono sotto il controllo alleato dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia nell’estate del 1943. Per quanto riguarda i Rom presenti nei campi di internamento di Tossicia e di Angone, abbiamo i racconti della loro fuga e del loro pericoloso viaggio di ritorno verso nord, alla ricerca dei propri parenti. Nelle regioni settentrionali i Sinti e i Rom interanti in paesi e località isolate si diedero alla fuga o furono lasciati andare.  Nonostante questo ci furono Rom e Sinti che dall’Italia finirono nei lager tedeschi, come dimostra la documentazione raccolta presso l’Holocaust Memorial Museum di Washington D.C. e la stessa autobiografia di Giuseppe Levakovich. Altri ancora furono catturati come soldati dell’esercito italiano dopo la firma dell’armistizio con gli alleati.

  1. Gli internati Sinti e Rom in Emilia Romagna: i numeri

 L’Emilia Romagna ebbe il più alto numero di Sinti e Rom sottoposti all’internamento in località, come mostrano i dati raccolti dal Ministero degli Interni nel gennaio 1941[1]. La loro presenza nelle singole provincie della regione può essere così riassunta:  i 48 “zingari” rastrellati in provincia di Bologna vennero concentrati a Savigno; in quella di Ferrara 41 “zingari” furono concentrati a Berra di Ferrara; in provincia di Forlì ne vennero fermati 36, di cui 28 vennero trasferiti in altre località e 8 furono internati a Rimini; in provincia di Modena 67[2] vennero internati a Prignano sulla Secchia; a Parma i 21 “zingari” fermati vennero concentrati a Sorbolo; in provincia di Ravenna 5 “zingari” vennero internati a Castel Bolognese e 6 a Conselice.

  1. Gli internati Sinti e Rom in Emilia Romagna: le storie

Ma cosa voleva dire vivere per 2 o 3 anni in una località d’internamento nell’Appennino Emiliano? Grazie ai ricordi dei Sinti di Reggio Emilia, alla documentazione d’archivio e alla testimonianza della Signora Gemma Ternelli Macchioni è stato possibile dare un nome agli internati e raccontare alcuni momenti di quella drammatica esperienza.

In un primo momento essi vissero nelle proprie carovane di legno nel campo sportivo del paese (dove oggi sorge il Municipio). Ben presto queste si rivelarono inadeguate, visti i rigori dell’inverno, tanto che Giulia Marciano –  per tenere al caldo il proprio bambino di pochi mesi – si appropriò dei pali di recinzione del campo sportivo dove erano costretti a vivere, è riscaldò la sua carovana venendo per questo denunciata all’autorità giudiziaria.  Alcune famiglie furono alloggiate a Ca’ Iantella dove c’era una stalla e alcune stanze, che però non erano sufficienti per tutti gli interanti. Non vi erano né fogne né lavatoi per gli internati, le cui condizioni igieniche erano, di conseguenza, molto precarie. I minori – che rappresentavano oltre il 60 % degli internati –  furono quelli che risentirono maggiormente delle dure condizioni di vita, tanto che il Podestà scrisse al Prefetto di Modena dicendo che neoanti e bambini non avevano vestiti per affrontare l’inverno. I bambini Sinti sono rimasti nella memoria di alcuni prignanesi. In particolare la Signora Gemma e suo marito Dante, davano loro qualche fetta di pane e gli permettevano di venire a scaldarsi nella fucina (lui faceva il fabbro), per ricompensarli uno dei ragazzi sinti regalò loro i piatti con cui suonava negli spettacoli di piazza.  La Signora Gemma si ricorda in particolare di un bimbo di 7-8 anni che era soprannominato Mato: faceva ridere tutti con le smorfie più incredibili, chiedendo in cambio qualche soldo o del cibo. Mato – i cui  discendenti vivono nel campo nomadi di Roncocesi, a Reggio Emilia –  ritornò da lei negli anni ’50 per ringraziarla di quanto aveva fatto.

  1. Dall’internamento a Prignano sulla Secchia alla lotta partigiana: la storia di Fioravante Lucchesi.

[inserire documento d’archivio?]

Nel campo dei giostrai di Reggo Emilia, in località Masone, vive Massimo Lucchesi figlio di Fioravante Lucchesi, che scelse di unirsi ai partigiani della formazione Corsini di Modena nella primavera del 1944. Fioravante (o Fiorenzo) era figlio di Rizieri e di Torri Esterina, entrambi Sinti. Nacque a Bastia Umbra (PG) – probabilmente nel 1924 – durante uno dei tanti spostamenti della famiglia che lavorava con gli spettacoli di piazza. Venne internato con i nonni a Prignano sulla Secchia nell’autunno del 1940 da dove, nel 1942, tenta con loro la fuga.  Nell’estate del 1943, insieme a tutti gli altri Sinti, si allontana da Prignano e cerca di nascondersi dai nazifascisti, maturando la decisione di unirsi ai partigiani. Ai figli e ai nipoti ha raccontato sia la durezza dell’internamento, sia la lotta partigiana. Proprio loro mostrano orgogliosi i documenti che attestano la sua scelta e vorrebbero che la città di Reggio Emilia e l’Italia tutta ricordasse che anche i Sinti hanno dato il loro contributo alla lotta partigiana.

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–> Vedi anche: https://unibz.academia.edu/PaolaTrevisan

[1] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Dir. Gen. P.S. Divisione Polizia Amministrativa e Sociale (1940-1975), busta 221.

[2] Il dato diverge da quello emerso dalla lista presente nell’archivio storico del comune di Prignano sulla Secchia perché quest’ultima fu compilato nei mesi successivi.

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