Reggio ombelico del mondo

di Dino Angelini

Sono pugliese d’origine. Vivo e lavoro a Reggio Emilia ormai da 40 anni esatti: da quando cominciai a lavorare all’interno del Centro d’Igiene Mentale reggiano, il Cim allora diretto da Giovanni Jervis.

All’inizio, come tutti i migranti, ero molto ambivalente nei confronti della città e del territorio. Lo sono stato sempre meno mano a mano che il tempo passava e che la più recente cittadinanza prendeva a coniugarsi dentro di me con la mia storia precedente. Imparai subito una cosa però appena arrivato a Reggio: nell’arco di pochissimi anni la città era diventata “un cantiere a cielo aperto”, forse “il” cantiere del welfare emiliano”.

In ambito sociosanitario, oltre al Cim che cominciava a ridefinire le fondamenta dell’assistenza psichiatrica, la medicina del lavoro e, più avanti, i consultori; in campo educativo le importanti esperienze del tempo pieno e, soprattutto, quelle che poi diventeranno le scuole per l’infanzia più belle del mondo.
Per un lungo periodo di tempo all’interno del Cim arrivarono carovane di operatori provenienti da tutto il mondo, così come poi avvenne per le scuole malaguzziane.

Eravamo – e la cosa ci faceva molto piacere – l’ombelico del mondo sanitario – assistenziale.

Ma era fatale che questa immagine ombelicale di sé lasciasse molti strascichi. Uno di questi era l’assunzione di un atteggiamento ansioso nei confronti delle proprie prestazioni, che dovevano essere “super” per diventare degne di nota. Qualcosa che, probabilmente in base alla mia non perfetta appartenenza, mi faceva un po’ sorridere.

Oggi la situazione è profondamente mutata. La palestra del welfare locale ormai è vuota: i vecchi operatori sono andati in pensione e la loro esperienza, che pure aveva sedimentato dei saperi e delle pratiche di cui la città era orgogliosa, si va evaporando. Mentre nascono nuove palestre, nuovi cantieri in cui nuovi soggetti si danno da fare in tutti i modi per consentire alla città di raggiungere nuovi traguardi.

La svolta, mi pare, è stata a cavallo della fine delle prima repubblica e la nascita della seconda. Prediamo la trasformazione di Agac dapprima in Enia a da ultimo in Iren. E poi consideriamo le liaisons dangereuses con Brescia da parte dell’ex Cassa di Risparmio e di Bipop-Carire nata da questa unione con Unicredit: l’ansia per la grandeur che comincia a spostarsi dai servizi alla finanza.

Poi arriva la Tav e Reggio non può fare a meno di diventare l’ombelico del mondo anche lì: Calatrava e, intorno a Calatrava, l’Area Nord: una nuova città che si svilupperà più grande e più bella che prima. E infine l’Università che dapprima viene ricercata in un’alleanza con l’ateneo bolognese, poi con Parma e infine, dopo averci rimesso fior di quattrini, con Modena.

È evidente che c’è più di un elemento di discontinuità, sia a livello delle priorità che dei contenuti, fra questa Reggio e quella che incontrai quarant’anni fa al mio arrivo in città, e sicuramente c’è un grumo d’interessi nuovi sui quali si concentra, in tutti i sensi, l’attenzione dei reggiani. Ma c’è anche un grande elemento di continuità fra ieri e oggi: Reggio in un modo o nell’altro vuol rimanere sempre l’ombelico del mondo.

Parafrasando l’epigrafe che c’è in piazza Prampolini, sull’ingresso del Broletto: Stat regiensium ambitio nullo sub aevo imperitura.

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