Precari bloccati sulla linea d’ombra

Dino Angelini

19.5.12

 

Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme – le rose e le spine, come si dice – la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Sì. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.

Queste parole, tratte dall’incipit del celebre romanzo di Joseph Conrad “Linea d’ombra”, si riferiscono a un momento particolare della vita di noi tutti: quello del passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Si tratta – come lo stesso Conrad dirà più avanti – di un momento di rinuncia alla grandiosità degli ideali adolescenziali, e di passaggio dal sogno al progetto. O meglio: dalla pluralità e dalla grandiosità dei sogni adolescenziali alla singolarità e al disincanto del progetto adulto.

La grandiosità è una “difesa”, dicono gli psicologi: una messa in maschera che l’adolescente usa per celare a se stesso la propria ancora acerba e imperfetta maturità. Poi, una volta che la coorte degli adulti preposta ad attestare l’avvenuto passaggio all’età adulta avrà posto il proprio timbro, il giovane sarà accolto a pieno titolo nella comunità degli adulti; e da quel momento Clark Kent non avrà più bisogno di celare il suo reale volto dietro la maschera di Superman.

Come avrete notato, nel descrivere questo passaggio ho usato il tempo presente. Qualcosa però ci dice che oggi non è più così. Che quello che andava bene fino a ieri, oggi non è più valido: intanto quei sacerdoti del passaggio che a scuola o durante l’apprendistato presiedevano a questa vera e propria funzione sacerdotale spesso oggi sembrano più attenti alle competenze che alla maturità. Il processo poi si è dilatato nel tempo ed un giovane oggi per potere dire a se stesso di essere definitivamente entrato nell’età adulta deve avere quasi i capelli bianchi.

Inoltre salta più evidente agli occhi che oggi le cose nella nostra società sono messe in modo tale che il giovane non è mai sicuro abbastanza di averla superata ‘sta benedetta linea d’ombra!

Termini le superiori o l’università, ma prima di lavorare devi fare qualche mese, se non qualche anno di tirocinio; poi magari cominci un lavoro, ma l’azienda ha bisogno che tu possegga delle competenze che non hai e allora ecco che devi tornare a frequentare un master, un corsetto che ti riporta indietro, nell’area dell’adolescenza: il sociologo Stefano Laffi ha scritto pagine di fuoco in merito.

Ma è il precariato il vero problema! I dati sono chiarissimi, anche nella nostra provincia, dove già dieci anni fa l’ottanta per cento delle new entry nel mondo del lavoro era composto da precari, 80% che oggi diventano quasi il cento per cento, quando ancora venti anni fa il fenomeno era praticamente irrilevante.

Come fai a dire che sei arrivato all’età adulta quando nei fatti non hai ancora la possibilità di definire un progetto di vita? Quando le tue relazioni con il gruppo di lavoro di cui provvisoriamente fai parte possono interrompersi dall’oggi al domani? Quando non sai che fine fanno le tue idee, il frutto del tuo impegno e del tuo lavoro?

E, all’interno di questa generazione di devoti a San Precario, alcuni sottoinsiemi che la dicono lunga sulle differenze che pure esistono fra essi. E’ un sindacalista bolognese, Gianguido Naldi, che in un suo lavoro sulla precarietà ci mette in guardia: ai giovani autoctoni – dice Naldi – “capita sempre più spesso di vivere con un lavoro precario, ma protetto dalla garanzia data dalla rendita di qualche appartamento, oltre che dal reddito dei genitori occupati. Una condizione completamente diversa dall’immigrato del sud che, oltre alla condizione di precarietà, spende metà dello stipendio solo per l’affitto, e ancora più diversa dal giovane extracomunitario che se perde il lavoro addirittura si ritrova al Ctp”.

E, intorno a questa vera e propria emergenza sociale, un nuovo tipo di famiglia che va strutturandosi – la famiglia lunga, come dice Eugenia Scabini – con nuove dinamiche, incentrate sul rapporto fra due generazioni adulte una delle quali, però, non può mai dire a se stessa di essere veramente autonoma.

Ognuno di noi di una certa età sa quanto importante e delicato sia stato il momento in cui, smessi i panni di Superman o di Wonder Woman, abbiamo cominciato a mostrare il nostro vero volto; a fare i conti con i nostri limiti; con la nostra reale generatività nella professione nella vita. E’ un passaggio difficile. E’ una sfida con se stessi che implica l’assunzione di un atteggiamento auto-riparativo, cioè di accettazione di ciò che siamo, e di disposizione a far meglio. E’ il passaggio dalla palestra della vita alla vita stessa.

Ebbene dobbiamo osare dire che la realtà del precariato mina alla radice questo processo e rimanda sine die la messa alla prova della propria maturazione. Le reazioni dei giovani a questo attentato alla riproduzione delle condizioni di base che possono porre su solide fondamenta il funzionamento futuro della società sono varie: la più probabile è quella di diventare adulti non sotto il segno della riparazione, ma dello svilimento del Sé, di diventarlo “dopo”, e sempre più tardi.

E dobbiamo infine osare riconoscere che il veleno che ha provocato questo stato di paralisi siamo noi; o meglio questo tipo di società che – dalla legge Treu in poi – per santificare il capitale ha sacrificato i giovani.

Ora che con la crisi tutto diventa più precario poiché tutti siamo derubati del nostro futuro penso sia possibile sperare che, accomunati da una comune sventura, anche coloro che fino a ieri non vivevano sulla propria pelle la sensazione della paralisi possano comprendere le ragioni dei giovani precari.

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