L’uscita postuma e solitaria di Civati

Dino Angelini

9.5.15

L’uscita di Civati dal PD pone in evidenza due elementi ugualmente rilevanti, soprattutto per noi emiliano – romagnoli. Si tratta di una uscita postuma, cioè preceduta da legioni di iscritti e di elettori che hanno mostrato, specialmente in occasione delle scorse regionali, un disamore crescente nei confronti del nuovo PD renziano.

Ma anche di una uscita solitaria, se si fa caso al fatto che – a parte la Schlein – nessuno fra i dirigenti civatiani – nessunissimo fra quelli reggiani – lo ha seguito in questa sua scelta, che pure faceva seguito ad un rullare di tamburi che durava da oltre un anno.

Da una parte cioè abbiamo a livello di base un’enorme smottamento, una silenziosa diaspora, e -a suo modo- una eloquente migrazione di massa, che ha preceduto l’evento riversandosi nell’astensione.

Dall’altra – anche in sede locale – un movimento opposto di vertice: un scivolamento dei dirigenti verso lidi più sicuri, che a volte poggia su mille contorsioni giustificative, a volte –m’immagino- sul silenzio più imbarazzato.

Un’uscita postuma e solitaria, quindi. Ma, mentre sui social si sprecano le valutazioni e le battute sul primo di questi aspetti, sulla traumatica separazione dei dirigenti civatiani da Civati solo pochi commenti.

E invece è proprio su questo secondo aspetto del problema che vorrei soffermarmi con questa nota, poiché a mio avviso, partendo dalla questione apparentemente secondaria di quest’ultimo slittamento dei civatiani, è possibile inquadrare più vividamente il fenomeno del renzismo.

È noto, o almeno dovrebbe essere noto a coloro che provengono dal ceppo social – comunista, che Gramsci usò il termine di ‘rivoluzione passiva’ per indicare il fascismo, e prima ancora i governi risorgimentali, da lui intesi come movimenti non diretti dalle masse popolari bensì dalle classi dirigenti, e caratterizzati “da un andamento conservatore-riformistico, che non intacca quello che Gramsci considera e definisce «l’essenziale», e cioè – nella nostra società – il funzionamento del modo di produzione capitalistico” (Burgio).

Laddove il mix fra conservazione e riforme dipende dal tipo di re\azione di cui le classi dirigenti hanno bisogno per avere mano libera: nel caso del fascismo una reazione più violenta di quella che usarono i  governi risorgimentali. Che però come il fascismo -e prima del fascismo- per cementificare il proprio potere usarono anche quella sistematica opera di  corruzione dei parlamentari e dei dirigenti radicali  che produsse il fenomeno del trasformismo.

La stessa cosa, secondo Burgio, sta avvenendo sotto i nostri occhi per lo meno a partire dalla fine del trentennio repubblicano (1945-75) che aveva visto una grande fioritura democratica nel segno della partecipazione di massa e di importanti conquiste del lavoro.

Con una accelerazione finale che, grazie al combinato disposto delle pulsioni antidemocratiche di Napolitano e della sua corte con la sempre più evidente allergia del finanz-capitalismo europeo e mondiale nei confronti di ogni forma di controllo democratico dei processi economici e politici, nell’arco di pochi anni ci ha condotto alla democratura renziana.

È per questo che il renzismo da una parte va visto come un epifenomeno di un processo molto più vasto, dall’altra come il coronamento di una nuova rivoluzione passiva, tipicamente italiana, che comincia col craxismo, prosegue col berlusconismo, e – non senza contraddizioni – approda ora al nascente Partito della Nazione.

In questo senso il nuovo trasformismo renziano è l’altra faccia della rottamazione. Quella vera. Quella che si basa sul precetto: o stai con me, portandoti dietro la parte più clientelare del tuo bacino di consenso, e allora -puoi essere anche Gomorra!- io ti prendo, ed anzi ti assumo. Oppure resisti, non ti lasci irreggimentare! e allora io ti asfalto!

E non m’importa nulla del vecchio bacino di consenso, men che meno di quello che votava PD in base ad una vecchia spinta ideale, perché, non essendoci alternative, questi elettori pensano di farmi un dispetto non andando più a votare, e invece mi fanno un baffo! (Renzi, a proposito delle regionali emiliane: “La non grande affluenza è un elemento che deve preoccupare ma che è secondario”) –

E allora – venendo a noi – se anche i bersaniani locali – Maino Marchi in testa – si sono acconciati a questo andazzo perché non dovrebbero farlo i civatiani Tutino, Gandolfi, De Lucia, Ibatici, etc.? Perché non dovrebbero slittare anche loro verso lidi più sicuri, visto che in fondo il decisionismo renziano qualcosa smuove? Che anche il renzismo – come ogni altra rivoluzione passiva – non è pura conservazione dell’esistente, ma un mix fra conservazione (del potere nelle solite mani), e innovazione (per conto delle classi dirigenti sulle spalle delle solite classi subalterne: vedi Job Act).

Classi subalterne vecchie e nuove oberate dalla crisi e sempre più allo sbando perché, deprivate di coloro che si pensava le rappresentassero, non sanno più come mettere in parola la propria sofferenza, e come trasformare le proprie istanze in azione. E per ora si astengono in massa.

Ma siccome quello stato di sofferenza permane, nonostante tutti tentativi di anastesia mediatica, così come permangono i vari movimenti  radicali di base, anche il renzismo è destinato – spero presto – a cedere il passo ad un “poi” che ora noi possiamo solo dialetticamente immaginare.

Con un vaticinio che non teme smentite: di quel processo non faranno parte i neotrasformisti di oggi.

Que se vayan todos!

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