Un ‘memento’ sui servizi per disabili in età evolutiva a Reggio Emilia

Dino Angelini

 

Quello che segue è un post di una quindicina di anni fa, rivolto ai giovani colleghi che non potevano avere memoria del welfare che fu, e che a Reggio Emilia fra l’altro portò fuori dal manicomio ‘i matti’ e i disabili per inserirli e riabilitarli nel territorio. L’ho ripreso perchè pare che il PD ora si proponga di volere eliminare le barriere fisiche e culturali in cui si trovano oggi i disabili. Dimenticando che quel modello di welfare di cui la città andò fiera è stato privatizzato (a favore degli amici degli amici), esternalizzato, e ovviamente deterritorializzato proprio  dal blocco sociale che da 25 anni governa Reggio, cioè da loro. (14.5.2019, D.A.)

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Quando sono arrivato a Reggio Emilia, nel settembre del 1971,  il lavoro di deistituzionalizzazione  del De Sanctis (cioè del reparto infantile del manicomio di Reggio) condotto dal Settore Infanzia del CIM, in cui mi ritrovai a lavorare come psicologo, era già cominciato. Riportavamo a casa ed inserivamo in scuola i 167 bambini e ragazzi che erano lì rinchiusi, di cui 77 della provincia di Reggio Emilia, 57 provenienti dal resto della regione, e 33 dal resto d’Italia. Si trattava per lo più di casi psichiatrici gravi, ma anche di bambini e ragazzi disabili che, fino a sei anni rimanevano a casa, ma che poi venivano inseriti (reclusi!) in manicomio, o in qualche altro istituto in giro per la regione.

Si era creato in questo modo, come in tante altre realtà, un insieme di “gironi dell’esclusione”, composto da istituzioni totali o addirittura da istituzioni promiscue, che a Reggio partivano dalle ‘classi speciali in plesso scolastico normale’, per giungere alle Case di Carità (istituzioni promiscue, fra l’altro ancor’oggi esistenti), passando per le scuole speciali, gli istituti per ciechi, sordi e sordastri, e per il De Sanctis, che aveva al proprio interno delle classi speciali guidate da docenti statali, e perciò doppiamente legato al ‘pubblico’: cioè sia per la componente sanitaria che scolastica.

I Caronte che inviavano ai vari gironi dell’esclusione erano i medici, gli psichiatri e, per i soggetti in età evolutiva i CMPP (Centri Medici Psicopedagogici), l’Ente Morale del Fanciullo, l’ONMI, etc. – Per cui l’opera iniziale di deistituzionalizzazione e di ‘inserimento’ apparve subito come una bestemmia sia per gli operatori che tradizionalmente s’interessavano ai disabili, sia alle famiglie, sia alla scuola. È di quegli anni una durissima lettera di 509 docenti delle scuole reggiane (gli stessi che qualche tempo dopo chiederanno il nostro aiuto e la nostra supervisione sui casi loro affidati in base alle nuove norme sugli inserimenti a scuola) contro l’inserimento degli handicappati (allora si chimavano così) a scuola, e cioè contro di noi del Centro di Igiene Mentale (CIM).

Ciò che ci permise di procedere fu innanzitutto il sostegno che ricevemmo dall’amministrazione provinciale, e segnatamente dall’assessore alla Sanità Velia Vallini, che aveva voluto il CIM ed aveva chiamato Giovanni Jervis a dirigerlo; in secondo luogo dai vertici del Provveditorato, e soprattutto dell’Ispettore all’handicap Sergio Masini; ed infine il sostegno delle famiglie che avevano fatto la scelta dell’istituzionalizzazione solo in base all’aura di cui erano ammantati i vari Caronte che, in base ai giri delle propria coda, avevano fino ad allora inviato in questo o quel girone dell’esclusione.

Tecnicamente la nostra posizione iniziale era molto debole, anche se va detto che, almeno qui a Reggio, non abbiamo mai confuso l’inserimento con la riabilitazione. Non li abbiamo confusi, ma solo in un secondo tempo, ed in base all’esperienza derivante dalla messa a punto di precorsi riabilitativi con questi primi casi, abbiamo messo a punto un vero e proprio sistema di cura alternativo alla segregazione.

Cosicché – quando poi, grazie alla diagnosi neurologica precoce e soprattutto dopo l’arrivo della nuova generazione di pediatri, ci sono stati inviati in età precocissima i primi soggetti disabili che non erano mai stati nelle istituzioni segreganti – è stato facile per noi definire dei percorsi riabilitativi composti da una teoria di setting mobili, che vanno cioè ridefiniti mano a mano che il disabile cresce, e tarati individualmente, e non esclusivamente in base al quadro nosografico.

E ciò sia perché avevamo imparato a seguire disabili sui quali la permanenza negli istituti aveva finito con l’incrostare una serie di problemi psicologici spesso non piccoli; sia perché l’anticipo della riabilitazione ai primi mesi di vita ci permetteva di trovarci di fronte a casi che – nonostante l’inguaribilità –  presentavano prospettive di progresso inimmaginabili con i vecchi casi. Era come correre con le scarpette sul tartan dopo aver corso con gli scarponi sulla sabbia.

È di questo periodo anche l’inizio del counselling con i genitori dei disabili, che presto impariamo a iterare alla vigilia di ogni sostanziale cambiamento, e cioè; subito dopo la diagnosi; prima dell’inizio e prima della fine dell’obbligo; al momento del passaggio agli “adulti”.

Questo processo è parallelo a quello fatto sugli psicotici, ed è immediatamente precedente all’ingresso della maggior parte di noi psicologi nelle scuole – allora artigianali – di psicoterapia, che fu accelerato sia dall’andata via di Jervis da Reggio, sia dal fatto che l’apertura di un flusso di segnalazioni di ‘casi non organici’ da parte della scuola (che nel frattempo era diventata nostra alleata) imponeva la messa a punto di un discorso nuovo, e altrettanto dinamico,  sulla psicoterapia infantile nel pubblico).

Come è facile intuire sia le nuove professioni, come quella dello psicologo, sia le vecchie – come quella dello psichiatra – risultano profondamente segnate da questo nuovo ‘discorso’ sulla disabilità: si chiudono quasi tutte le vecchie istituzioni, compresi il De Sanctis, il CMPP, le classi e le scuole speciali, e le varie istituzioni per ciechi, sordi, etc. – E tutto il personale in esse operante è assunto all’interno delle equipe territoriali, con conseguentii esigenze di tipo formativo, che alla fine risultano ampiamente sulle spalle degli allora giovani psicologi e dei nuovi NPI, usciti dalla scuola di Bollea.

La stessa cosa accadde sul versante scuola: dopo che fu riconosciuto agli psicologi ed ai NPI del ‘pubblico’ la facoltà di certificare l’handicap, di richiedere il sostegno e di svolgere un’attività di consulenza e di supervisione alla scuola; dopo l’affidamento dei disabili agl’insegnanti ultimi in graduatoria, che richiedevano un impegno massimo da parte nostra; dopo le leggi istitutive del sostegno scolastico, tutta la partita su affrontata dall’ispettore Masini con l’istituzione di un percorso triennale per la formazione dei primi docenti di sostegno ‘patentati’ che vide impegnati massimamente noi psicologi e NPI dell’ormai ex-CIM. Un’intera generazione di docenti di sostegno qui a Reggio si è formata con noi.

Il passo successivo è quello della istituzione di strutture intermedie per il post-obbligo molto simili a quelle che andavano nascendo per rispondere ai bisogni di cura dei casi psichiatrici; ma nel nostro caso caratterizzate più che dalla diagnosi, da un discorso previsionale circa le possibilità di inserimento più o meno protetto del disabile nel lavoro, o in strutture di protette di lavoro e di vita, o infine, per i più gravi, in strutture di tipo assistenziale.

Su tutto questo lavoro di cura, e impattando in maniera deflagrante sulle riflessioni che erano alla base della cura, si abbattono da una parte la crisi del welfare susseguente alle controriforme della seconda reepubblica, dall’altra – in Emilia e romagna – la chiusura delle ‘grandi canne d’organo‘, cioè dei grandi servizi poli-professionali – come ebbe a dire uno dei primi Direttori Generali della neonata Azienda Sanitaria.  A partire da questi due eventi tutto cambia, a volte lentamente, a volte in base ad improvvise accelerazioni.

Si parte subito con una rottura e la scomposizione dell’equipe che fino ad allora aveva compreso psicologi e NPI. Agli psicologi rimane una equipe monoprofessionale che non ha più voce in capitolo sulla definizione dei setting dei singoli disabili, così come su ogni altro caso che richieda una presa in carico poliprofessionale. Ciò significa che tutto il lavoro di consulenza e di supervisione è destinato ad esaurirsi mano a mano che gli ultimi adolescenti disabili passano agli ‘adulti’.

Si prosegue da una parte con l’affidamento di porzioni crescenti della cura ai privati no profit e profit, con il risultato di ingessare i setting e di subordinarli alle esigenze di bilancio (per non dir altro!) dei nuovi carrozzoni bianchi e ‘rosa pallido’ che nascono in provincia. Dall’altra con lo sforzo decrescente e sempre più asfittico sul sostegno scolastico e con l’assurda scomposizione dei profili del sostegno scolastico.

Si finisce con l’espunzione degli psicologi dall’attività di certificazione (con tutto ciò che ne consegue sul piano riabilitativo), che viene affidata dalla Regione ai medici legali, senza che l’Ordine emiliano – romagnolo batta ciglio, nonostante le ripetute richieste d’intervento da parte degli psicologi operanti nei territori, fra i quali il sottoscritto: ci si dirà che la rinuncia è stata dettata da motivi di opportunità ‘politica’, lasciando presagire la presenza di un baratto che avrebbe apportato chissà quali vantaggi (!?) .

Che dire? So bene che molti colleghi ora lavorano – come precari, e spesso sottopagati e sotto-inquadrati – in quei carrozzoni nati all’inizio della seconda repubblica. So anche però, per averlo appreso insieme ad una generazione di tecnici, che è andato a ramengo un modello di cura che ci era invidiato nel mondo e che non costava troppo. Tutto apparentemente per risparmiare. In effetti per privatizzare il welfare. Per darlo in appalto. Per favorire gli amici degli amici. E con un ordine professionale che pilatescamente se n’è lavato le mani.

Ritengo invece che la ripresa di un ‘discorso’ professionale e ovviamente aggiornato sulla disabilità, che veda i nuovi psicologi come protagonisti, sia non solo possibile, ma anche auspicabile sia per la salute mentale dei disabili, sia per l’apertura di credito che può innescare nel rapporto degli psicologi con la scuola e il territorio. (2004)

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