Reggio: la doppia municipalità

Dino Angelini

[questo post è apparso il 27.6.19 sulla Gazzetta di Reggio a pagina 36, col titolo “A Reggio impossibile sperare in una controcultura“]

 

È noto che a Reggio Emilia, come nel resto d’Italia e soprattutto nelle regioni rosse, nel 1947 dopo la rottura fra democristiani e comunisti cominciò a manifestarsi quel fenomeno che Guido Crainz poi denominerà come ‘doppio stato’, che consisteva nel “determinarsi all’interno della vita quotidiana dello stato di un duplice e intrecciato ordine di comportamenti: l’uno caratterizzato dalla normalità, dal diritto; l’altro, invece, dalla potenziale e sotterranea esclusione di un’ampia fascia di cittadini dalla pienezza di quel diritto”. Era la conseguenza più visibile e odiosa della guerra fredda, che toccava soprattutto i comunisti, ma anche tutti coloro che non si adeguavano al nuovo ordine vigente.

Di fronte a questo insopportabile ostracismo a Reggio, così come in tutte le zone rosse, i comunisti reagirono facendo nascere una controsocietà e una controcultura che rappresentarono un importante strumento difensivo che dava senso, colore e vita a tutti gli esclusi. Per cui, nonostante le innumerevoli vessazioni, in pochissimo tempo quel ‘secondo stato’ di esclusi dalla vita sociale fu in grado di lasciare il proprio segno specifico su ogni trasformazione della città. E cioè su industrializzazione, urbanizzazione, passaggio alla famiglia nucleare, innesco di un mobilità verticale che spinse i giovani a guardare con fiducia al futuro. E di farlo da sé! quasi in barba agli ostracismi subiti.

Il ruolo del comune in questo periodo è stato di aiuto alla ricostruzione e di sostegno ai più deboli, eludendo i vincoli di bilancio imposti dalla Roma democristiana e centrista attraverso una implicita politica di sussidi che sforava quei vincoli ogni anno, ma lo faceva appoggiandosi ai forti movimenti di base, che sui temi della ricostruzione e delle tutele vedeva impegnate soprattutto le donne. È possibile trovare memoria di queste operazioni di (cripto)deficit spending sia a Bologna negli scritti di Dozza, sia a Reggio nelle parole di Renzo Bonazzi e delle sue collaboratrici.

L’avvento del centrosinistra e la politica delle riforme che ne seguì molto velocemente segnarono il passaggio dall’impegno in quel luogo separato e difensivo che era la controsocietà comunista (senza però rinunciare ai suoi miti ed ai suoi riti più autentici: vedi le Feste dell’Unità) a quello in quei luoghi aperti di sperimentazione che furono le scuole materne e i nidi comunali, la scuola a tempo pieno, il Centro di Igiene Mentale di Jervis, la Medicina del lavoro, e tutto un pullulare di esperienze culturali e politiche di prim’ordine che sconvolsero ulteriormente la città, avviando fra l’altro il suo ulteriore passaggio verso la terziarizzazione.

I protagonisti e – è il caso di dirlo – ‘le protagoniste’ di questa seconda trasformazione furono i figli e le figlie della generazione che aveva fatto la resistenza ed era stata in trincea nella controsocietà nel ventennio precedente. Fu questo uno degli aspetti specifici del ’68 reggiano che vide un’intera generazione di giovani lottare ed operare nei servizi del neonato welfare sostanzialmente mirando a trasformare il sogno in progetto, mai rinunciando ai principi che erano al fondo di quel sogno.

Non si riflette mai abbastanza sulla longevità a Reggio di questa fase, che va ben al di là degli anni in cui rimasero in piedi i movimenti di massa innescati dal ’68, ed arriva fino alla fine degli anni ’80. Il perché di questa longevità a mio avviso è nel fatto che nel tempo a Reggio si era creata un’alleanza fra operatori che – per dirla con Adorno –  non cessarono mai di chiedersi ‘la ragione della cosa’, e amministratori e amministratrici accorte provenienti dalla Resistenza e dalle lotte, che seppero sempre mantenere un rapporto dialettico con i loro operatori.

Nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica tutto cambia ulteriormente. La città esplode quasi in un ulteriore cambiamento che la porta velocissimamente a diventare una società multietnica. L’economia locale comincia a mostrare una propensione alla finanziarizzazione, con tutte le storture e i rischi che ciò comporta (vedi la crisi della Bipop-Carire). Il decentramento produttivo, che aveva già minato la struttura della classe operaia, isolando i lavoratori a domicilio nelle loro case va in crisi e deve essere direzionato là dove il lavoro è meno caro. Nei servizi la generazione degli ‘amministratori accorti’ vien sostituita da una nuova coorte di amministratori, frutto di una selezione nel partito che premia quasi sempre coloro che mostrano più acquiescenza nei confronti dell’aziendalizzazione prima, e delle privatizzazioni poi. Cioè nei confronti del nuovo modo di concepire i servizi che viene dai primi governi della seconda repubblica: sia dal centrosinistra prodiano che dal centro destra berlusconiano, con tutti i corollari che mirano a svalutare il lavoro, a creare precariato, a far nascere il privato no profit e profit.

È su queste basi e su questi temi che avviene l’incontro a Reggio fra ex-Pci ed ex-democristiani che si cementerà poi nel progetto del PD. Non è il caso che i primi embrasson nous avvengano: – sotto il segno dell’Intesa con le materne private; – con la nascita del welfare mix locale che vede coinvolti sia il comune che l’Ausl (non c’è struttura del sociale e della sanità convenzionata che non sia legata ad ai vari carrozzoni locali che fanno capo all’uno o all’altro versante dell’alleanza, vedi per ultimo le ASP); – con una propensione a trasformare tutte le opportunità per la città in affari dai contorni poco chiari (vedi Park Vittoria); – con l’assalto ai beni comuni (Iren!!), che diventano succulenti terreni in cui comincia a pascolare la finanza amica; etc.-

Penso che le ultime elezioni, proprio per il massivo e capillare coinvolgimento da parte del PD di ogni risorsa residua, mostri esaurientemente la ormai pervasiva capacità di penetrazione che i maggiorenti di questo blocco hanno di attivare tutti i clientes, tutti i vari nodi che riconducono ai mille e mille beneficiati.

C’è una cosa però che, almeno per chi come me ha vissuto qui altre e più degne stagioni, appare come evidente: non c’è vita sociale possibile al di fuori di questo asfissiante, amplissimo e pervasivo recinto! Non c’è alcuna possibilità di autorealizzazione autonoma, cioè non subordinata alle varie camarille del potere locale, soprattutto per i giovani reggiani d’oggi. Poiché essi, come tutti noi, o fanno parte di questo nuovo primo ‘stato’, o si ritrovano ai margini. E purtroppo non c’è neanche una qualche entità collettiva che sia capace, come avantieri,  di mettere in piedi una odierna controsocietà e una controcultura in grado di proteggere, e di dare senso, colore e vita all’insieme di coloro che non si piegano. Eppure penso che questa a Reggio sia oggi la vera urgenza.

(24.6.19)

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