Le contraddizioni e il no alla crociata

Maria Nadotti, da Il Corriere della Sera del 07 febbraio 2011

Ricevo da più fonti, a sciame, attraverso gli effimeri e non sempre aggreganti canali di Internet un Invito alle donne italiane a partecipare ad una giornata nazionale di mobilitazione domenica 13 febbraio 2011. Si intitola «Se non ora, quando?» e porta firme eccellenti e curiosamente trasversali, da Rosellina Archinto a Giulia Bongiorno, da suor Eugenia Bonetti a Margherita Buy, da Livia Turco a Emma Fattorini, da Inge Feltrinelli a Natalia Aspesi, da Susanna Camusso a Claudia Mori, da Gae Aulenti a Valeria Parrella. Poiché ogni segno di vitalità civica merita attenzione, l’ho letto con cura e disponibilità a «mobilitarmi». E così, a modo mio, mi mobilito, chiosando e segnalando quel che di questo «appello all’indignazione attiva» mi sgomenta, mi disturba, mi offende. Rivolgo dunque alle firmatarie e alle donne che hanno sottoscritto il loro appello un paio di domande il cui fine non è sabotare la loro iniziativa, ma renderla più trasparente, meno ecumenica e universalistica, più situata.

Quando qualcuno ci chiede di riconoscerci in una proposta, in una parola d’ordine, in uno slogan, anche solo in una giornata di tardo inverno all’insegna dello sdegno, il minimo che possiamo fare è chiederci chi si indigna per cosa, contro chi, e perché proprio ora. E, soprattutto, se può parlare anche a nome nostro e transitoriamente rappresentarci, saturando lo spazio mediatico e l’arena politica.

Partiamo dunque dalle destinatarie dell’appello, genericamente identificate come «Italiane», vale a dire donne e nostrane. È a loro che si chiede di esprimere indignazione, dando per scontato che esse la provino – tutte e alla stessa maniera – e non vedano l’ora di avere un contenitore, un palinsesto, in cui riversarla e pubblicamente manifestarla. Subito dopo quest’apostrofe a tutto campo – da cui però sono esclusi gli Italiani, presumibilmente immuni da tanto fango e dal nobile sentimento della collera, nonché le «non-italiane» -, le autrici dell’appello tracciano brevemente il profilo (davvero specifico) della donna italiana cui si rivolgono. Questa donna è, a loro dire, «maggioranza»: «lavora fuori o dentro casa» (sì, avete letto bene, fuori o dentro, non fuori e dentro casa), «crea ricchezza, cerca un lavoro, (e una su due non ci riesce), studia, si sacrifica per affermarsi nella professione che si è scelta, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, occupandosi di figli, mariti, genitori anziani».

La donna invitata a indignarsi, contrapposta alla donna che tale indignazione con i suoi comportamenti dovrebbe suscitare, è dunque il vecchio angelo del focolare lievemente rammodernato. Acrobata del quotidiano e dei sentimenti, tutta lavoro, casa e cura, produzione e riproduzione, madre di famiglia/moglie/figlia di genitori da badare, è «sacrificalmente» presente sulla scena pubblica come tesserata di un qualsivoglia partito, sindacalista, imprenditrice, volontaria. Il tutto per rendere «più civile, più ricca e accogliente la società in cui vive». Società – forse alle firmatarie è sfuggito – già assai più ricca e variegata di quanto loro sembrino pensare, visto che la forma famiglia eterosessuale, nucleare e non patogena è in via di estinzione come il panda gigante e la foca monaca. E poi, via, dopo tanti decenni di riflessione politica femminista sulla funzione-cuscinetto del maternage femminile sulle crisi di sistema del capitalismo, come non ammettere che nel frattempo le donne possano avere sviluppato altre strategie, altri sogni, altre pratiche, semplicemente altri desideri e magari qualche astuzia in più? Le autrici dell’appello sostengono che le donne/vestali di cui sopra «hanno considerazione e rispetto di sé, della libertà e della dignità femminile ottenute con il contributo di tante generazioni di donne che – va ricordato nel 150esimo dell’Unità d’Italia – hanno costruito la nazione democratica». Oltre alla famiglia, entra pertanto surrettiziamente in campo la figura della nazione/patria: centocinquanta anni di edificazione storica sulle cui alterne e non sempre democratiche vicende le scriventi sorvolano, glissando così anche sul ruolo non sempre specchiato e talora schiettamente complice e servile delle stesse donne.

A questo punto l’appello ci riserva un colpo di scena retorico: «Questa ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale offerta da giornali, televisioni, pubblicità. E ciò non è più tollerabile». Ora, quando qualcuno dice che qualcosa non è più tollerabile, vien da pensare che quella stessa cosa finora lo fosse. Cos’è dunque che ha fatto traboccare il vaso? La politica estera del nostro Paese? Un’economia agonizzante? Lo sfascio della scuola e l’incipiente catastrofe di alcuni servizi di prima necessità? L’atteggiamento ostentatamente familistico, clientelare, omertoso con cui si è data posticcia soluzione a questioni d’interesse pubblico (grandi opere, smaltimento dei rifiuti, ricostruzione post-terremoto dell’Aquila, sultanato della Protezione civile)? Oppure il venire allo scoperto (mediatico) delle abitudini sessuali di alcuni ricchi e potenti di casa nostra? Se così fosse, le giovani donne (ma nel mucchio non ci mettiamo anche l’ineffabile Angelino Alfano?) che si fanno abbagliare da «mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici» sarebbero da rivalutare. Grazie alla loro scelta professionale, alla loro capacità di sfruttare le proprie non necessariamente effimere doti naturali, avrebbero permesso alle «Italiane» di vedere in che giungla siamo finiti. Invece no, le firmatarie affermano che «questa mentalità e i comportamenti che ne derivano stanno inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione».

Ah questa poi! Religiosa? In che senso? Che fede e che dio hanno in mente le autrici dell’invito allo sdegno e alla mobilitazione? «Senza quasi rendercene conto», incalzano con toni sempre più savonaroliani, «abbiamo superato la soglia della decenza». Già, perché il sottotesto del loro impaziente invito è che «il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni». Insomma, la lettura della palude nazionale propostaci da questo appello è, come capita spesso, deresponsabilizzante e rassicurante: se ci comportiamo male è perché chi dovrebbe farci da guida ci dà il cattivo esempio. Un po’ come quando gli analisti statunitensi attribuiscono la responsabilità delle stragi di adolescenti nelle scuole ai modelli di violenza forniti dal cinema hollywoodiano più che alla diffusione (della cultura) delle armi.

Per concludere, care firmatarie, voi invitate chi «vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose» a farlo «assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale». Io vi invito a cadere meno di naso nel goloso peep show politico allestito dal governo e a proporre agli uomini che conoscete e che frequentate non di «dimostrare amicizia verso le donne», ma un barlume di capacità di autoanalisi e di autocritica. Quel che mi intristisce, mi inquieta e mi spaventa è che dietro il vostro invito a «risvegliarci» si nasconda una velata, forse inconscia, forma di razzismo intrisa di sessismo e di classismo: donne sacrificali (quelle che vanno a letto presto e si alzano presto) verso ragazze a ore (quelle che vanno a letto col capo), moralità verso apatia dei sentimenti, anime verso corpi. Noi, donne e uomini, siamo fatti di tutto questo. La contraddizione – o la complessità – è dentro di noi. Guai a chi ci divide, mettendoci gli uni contro gli altri e invitandoci alle crociate. Per chi, come me e come tanti, ha sempre diffidato della cosiddetta normalità, includere l’altro da sé, il diverso, è non solo doveroso, ma prudente.


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