La scuola si biforca

Renzi-la-buona-scuola-630x630Dino Angelini

(23.6.15)

“Il giovane Holden” è il libro più letto al mondo insieme alla Bibbia. Nonostante questo enorme successo però il suo autore, Jerome Salinger, non riuscì mai a smettere di vergognarsi per non aver potuto frequentare le prestigiose università private americane e di essersi laureato in quelle pubbliche.

In Italia questa presunta onta, dalla riforma Zanardelli in poi, non ha mai potuto abbattersi su nessuno. Con ciò non si vuole certo dire che da noi non ci sia mai stata una selezione di censo: solo che questa selezione fino all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso avveniva all’interno della scuola pubblica attraverso l’istituzione di barriere che disincentivavano l’accesso prima ai licei e poi all’università ai ceti meno abbienti. Era una selezione di censo funzionale ad una società ingessata, vecchia e volutamente priva di ascensori sociali che favorissero la mobilità verticale.

A partire dal boom economico dei primi anni ’60 però questo modello piramidale della società va in crisi perché le esigenze del nuovo mercato del lavoro impongono una formazione più qualificata, e cioè una nuova scuola che consenta poi al lavoratore che si è formato in essa d’impadronirsi delle nuove competenze che lo sviluppo tecnologico impone.

Non dimentichiamo che fra i vettori del ’68 e del post-sessantotto italiano ci furono la nascita dell’università di massa, la scuola media unica, la nascita delle istituzioni prescolari con fini non più assistenziali, ma educativi.

Ne derivò una forte spinta verso la mobilità verticale: una sete di futuro e di cambiamento che fecero da lievito alle riforme. Compresa quella della scuola stessa, che per adempiere a questi nuovi compiti deve abbandonare velocemente quel moloch della vecchia scuola che lo psicoanalista tedesco Fürstenau chiamava col nome di “rituale pedagogico”, per divenire un luogo molto più orizzontale in cui la funzione docente non era più quella di assecondare la selezione di censo, ma -ufficialmente- quella di promuovere una selezione di merito; ufficiosamente, e grazie alla creatività ed alla dedizione di una generazione di docenti, quella di definire una nuova alleanza fra docente e discente incentrata sulla sperimentazione e la riflessione critica.

In questo modo anche la scuola italiana – come la prescuola, la sanità, la psichiatria, etc. – partecipa alla nascita tardiva del welfare nostrano, sulle cui basi poggiava allora sia il benessere del presente, sia la speranza nel futuro. Una società però che proprio in quegli anni vede nascere nel proprio seno due tendenze disgregatrici che lì per lì si tende a sottovalutare.

In primo luogo il consumismo che droga il presente con una overdose di oggetti superflui e di bisogni non necessari ed indotti. In secondo luogo l’ideologia neoliberista che diventa via via predominante negli stati, e che porta alla crisi economica ed al nascere di una nuova, drammatica forbice sociale in cui pochi ricchi erodono sempre più risorse alla miriade dei vecchi e dei nuovi poveri.

In una situazione simile, e finché non ci sarà una forza che li blocchi e li sconfigga, nuovi centri di potere, sempre più sottratti alla logica democratica, impongono ai paesi periferici come l’Italia processi di deindustrializzazione, di liquidazione e privatizzazione del welfare, che in questo modo diventa sempre più un affare per lorsignori.

E in questo quadro la scuola, e soprattutto la nuova scuola critica diventa doppiamente disfunzionale a questo disegno predatorio. In primo luogo perché l’unico ascensore sociale che rimane è quello in discesa che porta settori sempre più ampi della popolazione verso l’abisso.

In secondo luogo perché questa assenza di futuro che la finanza internazionale va predisponendo non può, anzi non deve neanche essere pensata, pena la possibilità di una rivolta. Ed allora l’unica cosa è uccidere tutti i luoghi in cui si può ancora pensare, e accompagnare i soggetti in età evolutiva verso l’acquisizione di un pensiero critico: in primo luogo la scuola, anzi la nuova scuola: quella in cui ancora, nonostante la continua erosione di risorse, si insiste testardamente a non sottomettersi al giogo dell’Invalsi, e di tutti i tentativi di condurre i soggetti a manodopera fungibile.

Il progetto è semplice, e si chiama “Buona scuola”: e cioè una scuola pubblica in cui si attenta alla libertà d’insegnamento attraverso la sostanziale precarizzazione del lavoro dei docenti, che li lega e li subordina alle prescrizioni ed ai ricatti di dirigenti, a loro volta sempre più deprivati delle funzioni di guida pedagogica, e sempre più manager operanti in base alle logiche “Invalsi”, funzionali all’irreggimentazione di tutto il  sistema. Ed una scuola privata per ricchi, foraggiata dallo stato al fine di costruire una nuova piramide sociale, adatta alle esigenze odierne di dominio.

Nota finale: da un punto di vista giuridico l’escamotage che premette il finanziamento alle private è semplicemente quello di definirle “pubbliche” e basta!, approfittando di un parlamento prono. Si tratta di una operazione spudorata che ha un precedente nelle Intese firmate all’inizio degli anni ’90 con le materne private dai Comuni di Reggio Emilia e Bologna, poi estese dappertutto, che suggellarono il patto che ancor oggi lega gli ex-Pci e gli ex-Dc nel governo degli enti locali della regione.

Spero che tutto cada, e che domani non nasca un Salinger italiano che si vergogni di aver frequentato la scuola pubblica.

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