A mezzo secolo dalla contestazione. Mauro Rostagno e gli altri.

di Vincenzo Calì

Della  stagione della contestazione globale, “ La qualità preziosa, non può essere raccontata dalle ultime file, non può essere raccontata dalle file di mezzo, non può essere raccontata nemmeno dalla prima fila: a quelli che l’hanno vissuta, gli manca la parola”. A cinquant’anni dal sessantotto valgono ancora queste parole, pronunciate da Mauro Rostagno a Trento in occasione del convegno “Bentornata utopia”[i] del 1988? Forse lo stesso Mauro, trapanese d’adozione, barbaramente ucciso in terra di mafia pochi mesi dopo la sua trasferta trentina, se fosse fra noi converrebbe sull’utilità di un esercizio di memoria. Il ’68 e il ‘69 furono davvero l’inizio di un cambiamento epocale, o il gattopardesco “tutto cambi perché nulla cambi” ha finito per prevalere? Interrogativo da maneggiare con cura, come fa Paolo Brogi[ii] (’68. ce n’est qu’un début) mettendo al centro una cronologia   dell’intero arco temporale (il sessantotto parte molto prima della data che gli si attribuisce) che aiuta il lettore ad orientarsi rispetto al quadro internazionale (solo da noi la contestazione studentesca e l’autunno caldo operaio portarono ad un “lungo sessantotto”, ad una crisi lunga un decennio e oltre). A favorire un bilancio critico su quella stagione, contribuisce un quadro editoriale che si arricchisce giorno dopo giorno di nuove testimonianze fra storia e memoria ( cito fra le tante quelle di Marco Boato, Guido Krainz, Enrico Deaglio, Mario Capanna, Paolo Pombeni) .

 La spinta ideale della generazione che si affacciò alla politica negli anni sessanta del secolo scorso la possiamo trovare  in questi versi di Pier Paolo Pasolini, tratti dal poemetto “Le ceneri di Gramsci”: “Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno…”. La contestazione fu   figlia di quella spinta e permise, ad una gioventù  desiderosa di esprimere solidarietà concreta a chiunque stesse subendo ingiustizie nel mondo, di agire per la modifica dello stato di cose esistente. Il tutto era partito, almeno qui da noi in Italia, sull’onda del “miracolo economico”: Guido Crainz ha ricordato su “Repubblica” come allora, in contrasto con la depressa situazione odierna che non promette sbocchi, “Chiusa la fase del “centrismo”, iniziò l’incubazione del primo centrosinistra e si avviò in quel quadro un dibattito culturale ricco e intenso che attraversò tutto lo schieramento politico”.  Quella coniata dai sociologi (Non vogliamo un posto in questa società, ma costruire una società in cui valga la pena di trovare un posto) divenne ben presto la parola d’ordine delle avanguardie studentesche e ciò, in un paese dalla fragile struttura istituzionale, creò presto il muro contro muro fra conservazione e cambiamento, con un crescendo di violenza che sfociò il 12 dicembre 1969 nell’attentato di piazza Fontana. Come ha ricordato Giovanni De Luna nell’introduzione al libro “Colpo alla nuca” di Sergio Lenci, l’architetto miracolosamente sopravvissuto ad un agguato mortale di “Prima Linea”, “Tutto era cominciato con una critica radicale che contestava una società in cui il ruolo dell’individuo e le sue esigenze andavano compiutamente ridefiniti…..il movimento era costituito in primo luogo da una presenza giovanile indistinta e magmatica, aperta sempre a nuovi ingressi, che si ritrovava nei corridoi e nelle aule degli atenei in agitazione, che si conosceva di faccia e spesso non di nome; solo con i gruppi extraparlamentari cominciarono ad esserci dei filtri, si richiesero tessere di iscrizione e adesioni statutarie…. alla magia dello “stato nascente” subentrò il plumbeo percorso “dalla spontaneità all’organizzazione”; era la fase calante del movimento… in mezzo c’erano state le stragi impunite, il terrorismo, uno Stato sempre più arcigno con i deboli e compiacente con i forti, una democrazia avvelenata dai miasmi del “segreto” e dell’intrigo, avviluppata dagli scandali”. Di fronte a questi fatti, Giorgio Postal [iii]avanza  la seguente risposta: “ Che lo Stato possa aver “sbagliato” nel caso Pinelli può anche essere vero, anche se non dimostrato. Ma nella ricostruzione storica non mettiamo lo Stato sullo stesso piano delle spinte rivoluzionarie o della lotta armata di quel tempo”. Si può provare a ragionare su quegli anni drammatici, incoraggiati dall’incontro, sollecitato a suo tempo dal presidente Napolitano, fra Licia Pinelli e Gemma Calabresi, anche se è passato troppo poco tempo dal tormentato periodo che inizia con la strage della banca dell’agricoltura, di cui Giuseppe Pinelli fu la 17 vittima, passa per l’ omicidio di Luigi Calabresi e raggiunge il suo apice con l’uccisione di Aldo Moro. In un contributo agli atti di un convegno tenutosi a Roma nel maggio del 2008 ( I linguaggi del sessantotto) dopo aver elencato la lunga serie di riforme e conquiste degli anni settanta ottenute sulla spinta della contestazione, Marco Boato così concludeva: “Più che di rievocazioni nostalgiche e autocelebrative di singoli protagonisti, ma anche più di demonizzazioni dissacranti che hanno il sapore di vendette ideologiche postume e francamente patetiche, ci sarebbe davvero bisogno di un paziente lavoro di documentazione, di ricostruzione storica e sociologica puntuale e di capacità analitica anche nella dimensione territoriale, assai diversificata nelle differenti università, città e regioni”.Parla a ragion veduta, Boato: pensiamo all’anomalia trentina, con l’esperimento dell’università critica,un progetto di cogestione, in controtendenza con lo scontro generalizzato fra potere accademico e studenti che fra Roma e Milano aveva avuto il suo culmine a Valle Giulia e a Largo Gemelli.  Toni analoghi troviamo nel commento di Renato Curcio, che così reagì alle forzature interpretative a cui il “Foglio di lavoro”, steso insieme a Rostagno a fine sessantotto,  era stato sottoposto da Aldo Ricci[iv]:  “già aveva scritto, il Ricci, alcune paginette piuttosto lividotte sulla “fine” che avevamo fatto Mauro, per un verso, e per un altro, io. L’occasione gli era stata fornita dalla riedizione di un lungo testo steso da Mauro e da me nel ’68 a Trento. L’editore, credo Arcana, ripubblicando quello scritto col titolo “Fuori dai denti”, aveva chiesto a Ricci una ‘postfazione’ – cosa che il nostro non si era  lasciata sfuggire per fare, come sempre, la sua bella figura!”

In attesa che si compia il tempo storico per una autonoma riflessione da parte della storiografia di casa nostra, possiamo partire  dal punto di vista espresso dallo storico anglosassone Christopher Duggan, che  nella sua opera sulla storia d’Italia (La forza del destino)  parla di azione eversiva di destra e reazione terroristica di sinistra. Con il modo diretto che è nello stile anglosassone, queste semplici verità che vanno oltre la famosa affermazione di Pierpaolo Pasolini “Io so, ma non ho le prove”, ci aiutano a meglio inquadrare e comprendere le ultime memorie uscite sulla “Notte della Repubblica”, quelle di Mario Calabresi, Adriano Sofri, Giampiero Mughini, Benedetta Tobagi. Le parole chiave le indica Giovanni De Luna nel suo “Le ragioni di un decennio”:militanza,violenza,sconfitta,memoria. Comprensibilmente Mario Calabresi, il figlio del commissario assassinato, nella sua storia struggente, non si cimenta nella difficile impresa di sciogliere il nodo di  Piazza Fontana, su cui si concentra invece Adriano Sofri nel suo “La notte che Pinelli”, arrivando in conclusione a sollevare Calabresi da responsabilità. Si è a volte abusato, in chiave storiografica, del concetto di “passato che non passa”. Ma cosa possiamo dire se a distanza di quarantotto anni nulla si sa ancora sui responsabili della strage di Piazza Fontana, come sulla serie di stragi che l’hanno seguita nel decennio successivo eper la morte “accidentale” dell’anarchico Pino Pinelli  è emersa solo la mezza verità del “malore attivo”?

La stagione dell’odio degli anni settanta e ottanta  è costata la vita (penso a Roberto Ruffilli, visiting professor a Trento)  agli uomini migliori dell’Italia repubblicana e democratica; un elenco lunghissimo, di cui ci parla “sedie vuote” il libro testimonianza edito dalla casa editrice “Il Margine”; quella stagione per mano dello stragismo ha cancellato le vite di centinaia di onesti cittadini, si è anche nutrita di  altre vittime, i militanti di sinistra  caduti, con il loro “alzare il livello dello scontro”, nella  trappola della strategia della tensione. Piero Agostini era ricorso, nel 1980. chiudendo il suo lavoro dedicato alla trentina Margherita Cagol, caduta in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine il 5 giugno 1975, alle seguenti significative parole: “In fondo alla strada di Margherita Cagol c’è anche, sia pure secondaria, la contraddizione di morire in una mattina di sole e d’estate in un prato delle Langhe durante un sequestro di persona, dopo aver lungamente e intensamente condiviso le teorizzazioni di Curcio e dei suoi compagni secondo i quali lo scontro frontale col sistema andava combattuto nell’area metropolitana, nel cuore della giungla di cemento e all’ombra delle grandi fabbriche”. Quando Piero Agostini diede alle stampe il libro,  il decennio appena concluso aveva già trovato la  storica definizione di “anni di piombo” tradotto da  Margareth von Trotta  in linguaggio cinematografico. E’ a distanza di  quasi mezzo secolo dal sanguinoso scontro a fuoco  della cascina Spiotta di Arzello, il poco che  possediamo, insieme all’opera di una delle migliori firme del giornalismo italiano, è il dvd  con l’interpretazione di  Andrea Castelli e Angela Demattè per il lavoro teatrale “Aveva un bel pallone rosso” (che ha ottenuto un grande successo di critica e di pubblico  in Trentino e non solo)  e l’intervista di Lillo Gullo a Rostagno sui rapporti di amicizia che questi ebbe da studente  con Renato Curcio e Margherita Cagol. Sono trascorsi più di quarant’anni dalla morte di quella che fu una figura di primo piano  delle Brigate Rosse, e molti  interrogativi sono ancora aperti sull’intera storia del periodo a cavallo fra gli anni sessanta e settanta entro il quale va collocata la sua vicenda umana e politica. Gli anni della formazione di Margherita, così ben descritti di Piero Agostini, furono tutto sommato sereni, ricchi e pieni di lusinghieri risultati per la futura militante delle Brigate Rosse: una laurea in sociologia sul pensiero politico dai contributi originali, una strada aperta di musicista con diploma in chitarra classica. Ma Trento, in anticipo rispetto al più generale fenomeno della contestazione studentesca divenne già dalla metà degli anni sessanta crocevia di forti tensioni, a partire dalla “guerra dei tralicci”innescata dalla irrisolta questione sudtirolese, tensioni che concorsero  anch’esse all’acutizzarsi del processo di radicalizzazione in atto fra gli studenti per il mancato riconoscimento della laurea in Sociologia ( fra gli irrisolti misteri  d’Italia va annoverato l’attentato terroristico che portò alla morte nel 1967,  alla stazione di Trento, degli agenti della polizia ferroviaria Foti e Martini). Il libro di Agostini documenta passo passo l’escalation di conflittualità sociale entro la quale Margherita si trovò  sempre più  coinvolta, fino alla decisione, maturata insieme al compagno di studi Renato Curcio, divenuto nel frattempo suo marito, di lasciare nell’estate 1969 Trento per Milano, la capitale della contestazione operaia. Il seguito è largamente noto alle cronache nazionali: il passaggio di Renato e Margherita, dopo l’autunno caldo  e il collettivo politico metropolitano, alla clandestinità con la formazione del primo nucleo delle Brigate Rosse, la messa a punto del progetto di attacco al “cuore dello Stato” nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova,dalle azioni esemplari verso i dirigenti (colpirne uno per educarne cento) fino al rapimento e liberazione del giudice Mario Sossi e all’azione del commando  che liberò Curcio dal carcere dopo il primo arresto. Tutte azioni queste che videro Margherita Cagol, la “compagna Mara”, protagonista di primo piano. In anni in cui la strategia della tensione si era basata  sull’infiltrazione di esponenti dei servizi segreti nelle maglie dei movimenti antisistema (con le morti di Giangiacomo Feltrinelli e Luigi Calabresi altri nodi irrisolti si aggiunsero) l’azione e il pensiero di Margherita contribuirono non poco a creare intorno alle BR una vasta area di simpatizzanti. La tragica conclusione, raccontata da Agostini con il taglio esperto del cronista,della fallita operazione di sequestro e richiesta di riscatto per la liberazione di Vallarino Gancia, con lo scontro a fuoco in cui Margherita Cagol perse la vita, segna con i suoi risvolti non del tutto chiariti, la fine di una fase ,quella delle prime Brigate Rosse, come tali furono  giustamente definite dal terzo protagonista di quell’avventura, Alberto  Franceschini. Il dopo , con l’uscita di scena di Renato Curcio nuovamente arrestato,culminato con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, è tutta un’altra storia, che attende ancora di essere compiutamente scritta. Spetterebbe al Centro di documentazione sui movimenti politici e sociali di Trento, intestato a Mauro Rostagno, compagno di studi di Margherita Cagol,   riproporre la stampa del lavoro di Piero Agostini nella ferma convinzione che   è con la ricostruzione dei fatti con spirito di verità che si pongono le premesse per fare dell’Italia un paese normale.  Fanno pensare alcune delle parole usate da Renato Curcio per tracciare il profilo di Margherita Cagol : “ Quel che mi è rimasto più caro nella memoria è la sua normalità. L’hanno trasformata in un’immaginetta, e invece era una donna vera, con tutti i problemi delle donne della sua e mia generazione”.

A quanti non persero la vita imboccando la strada  della violenza rivoluzionaria si aprì, al crollo di quell’infatuazione, la via di fuga nella droga, la piaga contro la quale Rostagno condusse e perse una delle sue tante battaglie, quella milanese del locale il “Macondo”. Marta Losito nel decennale dell’esecuzione in contrada Lenzi aveva scritto: “E’ morto quando ha ripreso la sua propria genialità rabbiosa per denunciare una forma di potere arcaica e forte che lega insieme  mafia, logge massoniche e politica”. E  in uno dei frammenti di memoria frutto di un lavoro collettivo, ma compilato da Mauro Rostagno, che il nostro centro di documentazione trentino conserva[v], il leader trentino chiamava anche Aldo Moro a soccorso della giusta causa delle lotte studentesche, riprendendo  le seguenti parole, pronunciate dallo statista nel marzo ’68: ” Accanto all’inquietudine c’è una ricerca di un approdo innovatore, costruttivo, e capace di far avanzare la nostra società… Tutto un fermento di idee e di esperienze, sconcertante qualche volta, non privo di rischi, ma con i segni di una straordinaria e accettabile validità… Ogni posizione distruttiva e potenzialmente violenta, destinata a sfociare prima o poi  dal terreno della Scuola a quello dello Stato, non può non essere severamente condannata… [C’è però un ampio spazio di dialogo serio, commenta Rostagno] lasciando il più possibile alle stesse forze della vita universitaria di pervenirvi attraverso una difficile opera di interna chiarificazione”. Già questo solo intreccio fra il pensiero di Moro e quello di Rostagno indica un futuro programma di ricerca. Ora,guardando la città, che anch’io ho conosciuto nel sessantotto, non mi sembra più quella descritta da Mauro: è piena di vita , con tanti giovani nelle vie e piazze, specie nei giorni del festival dell’economia; ma mi chiedo, non potrebbe essere che a dar vita alla città abbiamo contribuito anche noi studenti giunti qui dai quattro punti cardinali, dal Sud più di tutti? Il Sud, ecco, il salto vero nella vita di Mauro,salto che avviene dopo aver tratto  nel 1979 in “Crak, si è rotto qualcosa” un bilancio severo su se stesso, dalla travagliata esperienza milanese (dopo Marx,aprile) in “Lotta continua”, all’esperimento alternativo di “Macondo”.
Dopo l’intermezzo palermitano e la scelta arancione Rostagno ancor più si convince che la rivoluzione in Italia si fa al Sud. E’ “la scuola del Sud”, quella che conta, ed è da lì, come ci ha insegnato Danilo Dolci, che deve partire il riscatto d’Italia. Mi sovviene quanto lui aveva scritto, in una delle tante missive di quel tempo: “La vera rivoluzione è qui a Trapani. Le tensioni che mi sentivo dentro nel Sessantotto culturalmente possedevano già un vestito, la rivoluzione. E avevamo pure una biancheria intima, l’ideologia marxista. Tutto il movimento di quegli anni è stato una grande emersione del nuovo che si vestiva di vecchio. Non siamo neppure riusciti a inventarci un linguaggio:usavamo parole antiche, terrificanti, inutili. Adesso questa cosa non la chiamo più rivoluzione, non ci vedo più alcun rapporto col marxismo. Però la vivo come una sfida molto più impegnativa: è la vita, il diritto di vivere. E la lotta alla mafia esprime la stessa identica esigenza di un tempo: la gioia di vivere”.  Queste parole indirizzate a Renato Curcio mantengono la loro attualità, a fronte del dilagare del malaffare. Noto che a Trento, città del Nord che ha ospitato tanta gioventù del Sud, girando per vie e piazze, manca un segno che ricordi Mauro, che dell’impegno nel Sud fece una  ragione di vita;   Cancellare la storia, che è fatta di differenti ed anche opposte interpretazioni, non porta bene alla  città di Trento.    Là dove ora pulsa il cuore della scienza, ai cancelli della fabbrica che vide insieme studenti ed operai, andrebbe posta una stele con un epigrafe che ricordi assieme  il sociologo di Trento  e il sindacalista Giuseppe Mattei, in modo da rammentare a noi stessi, che viviamo questo malinconico presente, e a chi verrà dopo di noi, da dove veniamo. Il nome di Rostagno, per quello che ha rappresentato nella storia d’Italia e non solo, merita   attenzione   da parte dei  sociologi,se non altro per allontanare da loro stessi il giudizio di Rostagno: “I sociologi sono davvero bravi..Non ne sbagliano mai una perché non ne azzardano mai mezza….Hanno raggiunto il più alto livello di perfezione teorica e sociale: sono trasparenti.

Potete guardare la realtà attraverso di loro e la vedete esattamente come se non ci fossero” [vi]    .
I sociologi sarebbe bene che registrassero anche il fatto che il giorno dei funerali di Rostagno vi furono schiere di donne trapanesi, sinceramente addolorate, che al cospetto dei famigliari dell’ucciso, si qualificarono così: “condoglianze, spettatrice televisiva”. “All’assemblea generale” conclusiva dell’incontro trentino per i vent’anni del Sessantotto, quasi fosse il bilancio della sua, di vita, l’ex-leader studentesco aveva ripetuto, più volte: “per fortuna, noi del sessantotto, abbiamo perso”. Era tornato con slancio, dopo la rimpatriata trentina (Trento nel frattempo, per lui, era divenuta, nella nostalgia del ricordo, “amore mio”) alla sua battaglia contro la mafia. Nell’intervista, che giustamente la figlia Maddalena ci ricorda[vii], rilasciata a Claudio Fava poco prima di venire ucciso, sta il suo testamento politico. In conclusione, in questa vicenda si intrecciano diversi livelli che vanno tenuti possibilmente presenti tutti assieme. Partiamo da quello dell’intestazione dell’aula; la vicenda è nota,e se ne è già accennato, ma per un utile esercizio di memoria la richiamo. Il tutto partì dagli studenti delle nuove generazioni, che idealmente intestarono a Rostagno l’aula che era stata la sede del movimento studentesco trentino negli anni della contestazione. La risposta dell’Istituzione universitaria fu quella di interrompere una tradizione che andava consolidandosi intestando quell’aula al fondatore dell’Università Bruno Kessler, con un doppio effetto negativo: sminuire il ruolo del fondatore, a cui semmai andava intestata l’Università intera come avvenuto in casi analoghi, e creare un doppione con la successiva intestazione della Fondazione di ricerca, sminuendo anche quella che era stata una felice intuizione del leader trentino, dare vita nel 1962 ad un IstitutoTrentino di Cultura. Ora la richiesta di intestare un aula dell’ex Facoltà di Sociologia a Rostagno è stata parzialmente accolta, e possiamo considerare questo fatto un primo timido segnale in controtendenza rispetto al declino del progetto universitario trentino: emblematica al riguardo la rinuncia alla grande biblioteca centro della cultura trentina, “cattedrale laica” come l’aveva pensata il progettista, l’architetto Mario Botta; una perdita di status per la  città di Trento, avviata,come “nave sanza nocchiere in gran tempesta” verso un sempre più marcato futuro da “terra di provincia”.

Fonti per un storia del movimento studentesco in Trentino e oltre.

 Rappresentano una fonte preziosa del CDR i quaderni di appunti dei seminari tenuti dagli studenti durante l’esperimento dell’Università critica, tentativo di sperimentazione didattica cogestita da studenti e docenti nella breve stagione alberoniana del ’68-‘70,. Sottolineo in particolare l’importanza degli appunti di Gianni Palma, per la parte relativa al gruppo di lavoro della primavera del ’69 che operò nella fase in cui il movimento studentesco era attraversato da un’aspra dialettica interna  (del gruppo fecero parte fra gli altri Peter Schneider e il compianto Alberto Bonfietti, scomparso con la strage di Ustica). Pure preziose risultano le testimonianze raccolte sul movimento femminista, che vide le studentesse trentine protagoniste di primo piano; le carte Moscati-Moavero, Ferri, Losito, sono già state consultate da studiosi, soprattutto stranieri, interessati all’evoluzione del femminismo in Italia. Cruciale anche in questo caso, nell’intreccio fra storia e memoria, la selezione operata dai singoli produttori di documenti nella conservazione delle carte. Sull’onda della contestazione ciò che viene conservato sottolinea il protagonismo studentesco, a discapito della documentazione più neutra di cui per altro poca traccia è rimasta fra le carte ufficiali dell’Università relative al turbolento periodo della contestazione: ma qui sarà interessante proseguire nello scavo, a partire dagli esiti  di quello iniziato dal gruppo di lavoro coordinato da Andrea Giorgi. Un secondo importante nucleo documentario è rappresentato dal consistente fondo depositato dal gruppo roveretano-trentino della “Nuova sinistra”, fondo che ruota intorno al forte intreccio fra mondo operaio e studentesco che trovò il suo culmine nell’autunno caldo del ’69: il riversarsi degli studenti sulle due città e sul territorio delle valli, sull’onda della parola d’ordine “operai,studenti, uniti nella lotta!”e dell’inedita sperimentazione trentina, anticipatrice dei processi nazionali, dell’unità sindacale (FLM) . Questa parte di documentazione, che testimonia dell’impegno del movimento studentesco universitario davanti alle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole superiori, fuori quindi dall’istituzione universitaria e dal solo orizzonte delle battaglie per la sua riforma, permette di leggere chiaramente  le ragioni che portarono all’interruzione del progetto alberoniano di “Università critica”: il forte impatto che sulla comunità trentina ebbe il riversarsi degli studenti in tutti gli ambiti territoriali portò i responsabili politici e il Presidente dell’Università a dichiarare conclusa la prima fase sperimentale con il blocco delle immatricolazioni a Sociologia e con la successiva apertura di nuove facoltà e l’avvio della Libera Università. Particolarmente importante, fra i lasciti degli studenti di prima generazione, quello di Marco Boato, protagonista di primo piano del cattolicesimo conciliare, movimento che nel caso trentino e in tutta l’esperienza di “Lotta continua” rimase organico alla contestazione studentesca. Le carte di Boato si distinguono per lo scrupolo con cui lo studente trentino, il primo chiamato a svolgere un compito di rappresentanza studentesca negli organi di gestione dell’Ateneo, aveva raccolto documenti su tutto ciò che si muoveva nell’ universo contestativo nazionale e internazionale. Va sottolineato lo stretto rapporto che intercorre fra le carte Boato e quanto è conservato nella Fondazione Alexander Langer di Bolzano al fine della ricostruzione degli itinerari contestativi della generazione studentesca sessantottina (anche di Langer, che conseguì una seconda laurea a Trento e fu accolto nelle strutture di ricerca della nostra università nel periodo in cui subì l’ostracismo bolzanino, conserviamo nel CDR frammenti di memoria). Sul  filone cattolico che va dalla scuola di don Milani ai “Cristiani per il socialismo” , passando per le esperienze dei “Preti operai” vanno segnalati i documenti versati da Sandro Boato e da Carla Goio Franceschini,  mentre sulla partecipazione alla contestazione dei seminaristi-studenti  presso la facoltà di  Sociologia un tassello importante è rappresentato dalla documentazione in possesso del compianto Piergiorgio Rauzi che sarebbe auspicabile si aggiungesse a quanto conservato nel CDR. Una serie importante dei versamenti  riguarda ciò che documenta, partendo dalla critica sociologica sempre presente nella contestazione studentesca trentina, la vita nelle istituzioni totali: dall’archivio nazionale della LOC, la Lega obbiettori di coscenza, alle carte del movimento dei “Proletari in divisa”, fino alla documentazione su carceri  e manicomi raccolta dagli studenti del tempo e proseguita per il costante interessamento del direttore della biblioteca del Museo storico Rodolfo Taiani. L’interesse per le scritture “irritate” manicomiali ha così intersecato un altro importante settore archivistico del Museo Storico, quello della  scrittura popolare guidato da Quinto Antonelli, favorendo il deposito presso il centro anche di quegli studi della cooperativa “Sensibili alle foglie” diretta e sostenuta da Renato Curcio tornato, questultimo, al filone d’interessi legato alla sua formazione sociologica sessantottina. Da sottolineare anche l’importanza dell’archivio fotografico: la documentazione per immagini, si distingue, rispetto al pur importante archivio Salomon, conservato nel rettorato di Trento, che documenta le manifestazioni pubbliche, per il fatto che privilegia le istantanee di  vita studentesca per così dire d’interni,  raccolta, come nel caso del fondo del fotografo autodidatta Paolo Padova, dagli studenti stessi. Alla prima  fase che a cavallo fra gli anni ottanta e novanta fu caratterizzata dai lasciti di studenti che vissero la breve stagione della contestazione a Trento o scelsero il CDR come luogo più appropriato per depositare memorie su esperienze di altre sedi universitarie.  Anche la destinazione al Museo dell’importante fondo Beppino Disertori ( composto da un consistente archivio cartaceo, da una ricca biblioteca e da numerose tesi di laurea), uno dei docenti della fase pionieristica dell’Ateneo trentino, rientra in senso lato in questa categoria. Di altri docenti dell’Ateneo si conservano tesi di laurea  (particolarmente significativo il fondo tesi di Gianfranco Albertelli, che fu nel periodo di tumultuosa democratizzazione dell’università maestro ineguagliabile di didattica universitaria). Della imponente documentazione di quella azione collettiva che fu la contestazione, delle migliaia di memorie e diari  a tutt’oggi relegate nella sfera personale dei protagonisti, è bene riprendere con nuovo slancio la raccolta, in omaggio a  Mauro Rostagno, eroe civile del nostro tempo. E  intanto che la giustizia proseguendo nel suo corso, sta provvedendo  a togliere le ultime ombre sull’omicidio Rostagno, è bene ritornare sulle tappe della vita del sociologo di Trento per mantener vivo l’impegno preso di dedicargli, su spazio pubblico, l’opera pensata dall’artista Jannis Kounellis, recentemente scomparso. Possiamo dire che l’auspicio di dedicare un luogo di Trento, città del sessantotto,al ricordo di quella stagione, lanciato anni addietro, quando tutto congiurava per la rimozione della memoria, si deve concretizzare unendo nel ricordo il sociologo e l’artista scomparso. Si diceva allora che solo il lavoro politico-culturale avrebbe fatto giustizia delle resistenze al pieno riconoscimento del ruolo del sociologo di Trento (“Rai storia” ha dedicato a Mauro Rostagno una significativa puntata, con il commento di Giovanni De Luna). Partiamo dal luogo che più ha segnato Mauro, la Trento che aveva descritta su Macondo, fresco ancora dell’esperienza trentina: “Decido di andare a vivere a Trento , in questa città pazzesca, stagnante…città in mezzo alle valli, chiusa, montanara, la città del concilio, del principe vescovo, degli alpini. La facoltà di sociologia è un delirio: Attira col suo fascino tutto il mondo scapestrato d’Italia.” Pur considerando superata, con l’affissione della targa a lui intestata,la diatriba sullo spessore del contributo di Rostagno alla disciplina sociologica, va sottolineato il punto di vista di Marco Boato, che degli anni trentini di Mauro richiama, e ancor più richiamerà nel suo lavoro in preparazione, il fattivo impegno a far sì che il titolo di studio della laurea in Sociologia venisse riconosciuto, forse guidato in ciò dalla giusta lettura complessiva della vita di un uomo da lui stesso definito “eroe civile”.[viii] Contestatori erano in molti allora, certamente, ma con occhio critico anche verso sè stessi, attenti a non prendersi troppo sul serio e pronti a confronti interni anche molto  duri specie quando il carisma del leader   rischiava di pesare su studenti ancora poco attrezzati all’uso degli strumenti della critica. Ripasso a memoria le lettere di allora e ne ricordo una, scritta nel 1967 a Vittorio de Tassis, in cui Mauro affermava che, per via dei tanti bicerotti bevuti per simpatizzare con gli operai, la rivoluzione nasceva anche grazie al vino, ma a notte fonda, “moriva col caffè”[ix].

 

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[i] Convegno alla Facoltà di Sociologia in occasione del ventennale del sessantotto. Atti in CDR,Carte V.Calì.

[ii]  Paolo Brogi,’68, Imprimatur, 2017.

[iii] Giorgio Postal, esponente di primo piano, seg. Prov. della DC trentina a cavallo fra gli anni sessanta e settanta.

[iv] L’autore di “I giovani non sono piante”, testo che ha  grandemente contribuito a costruire “L’immaginario collettivo” del sessantotto trentino.

[v]  Dattiloscritto conservato in CDR, integralmente pubblicato  nel capitolo “TRENTO” del volume collettaneo “Università: l’ipotesi rivoluzionaria”, edito da Marsilio nell’aprile 1968, col titolo “Note sulle lotte studentesche”, pp. 7-25. Lo stesso identico documento di Mauro Rostagno è stato anche pubblicato, questa volta col titolo “Anatomia della rivolta”, nel numero monografico della rivista  (diretta da Lelio Basso, vicedirettore Antonio Lettieri, curatore del fascicolo) “Problemi del Socialismo”, anno X, n. 28-29,  marzo-aprile 1968, pp. 279-289. (subito seguito dal capitolo curato da Marco Boato, “La lotta a Trento”, pp. 26-81).

[vi]Tratto da Macondo, ripreso da Raul Mordenti, frammenti di un discorso politico, p.XIII.

[vii]  Maddalena Rostagno –Andrea Gentile, Il suono di una sola mano: storia di mio padre Mauro Rostagno, Milano, Il saggiatore, 2011.

[viii] Non così Renzo Gubert, anche lui testimone di quella lontana avventura, che così si espresse tempo addietro: “Non mi pare, poi, che il rapporto di Rostagno con Trento-comunità sia stato positivo, e non solo per i conflitti legati a episodi della contestazione, ma anche perché giudicava Trento una poco significativa “città periferica di provincia”, tant’è vero che per fare la rivoluzione si trasferì a Milano senza neppure prima laurearsi.” Sì, è vero, ci era tornato tempo dopo, a Trento, solo per laurearsi,per far contenta l’anziana madre: Contestò, ma dalla commissione, presente Norberto Bobbio, ebbe la lode.

[ix] Lettera pubblicata (con un errore di datazione : ’67 e non ‘68) da Concetto Vecchio,  Vietato Obbedire,

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