Lettera a una professoressa. Ma a rispondere sono gli studenti

Filippo Gentiloni

 Da “Gennaio 1968, Supplemento al N. 22 del Manifesto”, Gennaio 1988

“Caro Giorgio, stiamo correggendo ora le bozze della Lettera a una professoressa. L’autore è «Scuola di Barbiana». L’editore Libreria Editrice Fiorentina. il prezzo circa 500 lire. La destinataria è all’apparenza una professoressa, ma il libro è inteso per i genitori dei ragazzi bocciati e vuol essere un invito a organizzarsi” Così scriveva don Lorenzo Milani,  già gravemente ammalato, all’amico Giorgio Pecorini, il 7 Aprile del 1967. ll libro uscì, infatti, mese prima della morte di don Milani (26 Giugno). Il ’68 che del libro sarebbe stato l’amplificatore, era alle porte.

Quale è stato il vero rapporto fra la scuola di Barbiana e il ‘68? Oggi, a distanza di venti anni, la nostra vista rischia di risultare annebbiata: gli elementi del panorama si sovrappongono, cause ed effetti s’intrecciano, la cronologia sfugge.

Non c’è dubbio, comunque, che del nostro ’68 don Milani fu uno dei profeti. a un livello elevatissimo, in compagnia di pochi altri: Marcuse, forse, probabilmente anche Basaglia. Precisando, però, almeno due elementi di un panorama ormai lontano: che, prima di tutto, il ’68 nostrano era figlio d‘una  situazione internazionale nella quale s’inseriva con un volto specifico; e, in secondo luogo, che il ’68 non è tanto un arco di 365 giorni quanto una storia che precede quel 1 gennaio e segue quel 31 dicembre.

Lettere a una professoressa dunque, con le sue novità e ricchezze ma anche le sue ambiguità, divenne uno dei testi sacri di un movimento che aveva fatto proprio della scuola (partendo dall’università ma toccandola ben presto tutta) uno dei suoi nodi centrali. La scuola di Barbiana rimase, dopo la morte di don Milani, una specie di santuario ideale per il pellegrinaggio verso l’utopia.

A due livelli, se cosi si può dire, semplificando. Come modello da imitare, prima di tutto. Che nascessero, dovunque, dieci, cento, mille Barbiane, cosi come si auspicavano dieci, cento, mille Vietnam. Si pensi a tutta la lotta politica, più che pedagogica, per la scuola a tempo pieno e il doposcuola; si pensi a imitazioni illustri, come la scuola 725 guidata da don Roberto Sardelli alla periferia di Roma.

Barbiana faceva veramente scuola. Ma la faceva anche a un livello più profondo, tipicamente sessantottesco. Aveva fatto capire il nesso fra la scuola e il classismo: lo aveva non soltanto illustrato, ma sbattuto in faccia a tutti.

La scuola non era né indifferente, né neutrale (non lo era neppure la scienza): la scuola era di classe e costituiva lo strumento principe del potere, più e meglio dei soldi e delle polizie, con cui era, comunque, strettamente collegata. Una lezione essenziale che il ’68 raccolse (non soltanto, s’intende, da Barbiana) e fece propria, e cercò di trasmettere e di applicare. Con enormi difficoltà, qualche vittoria e molte sconfitte. ll potere, infatti, era anche disposto — forzatamente —a concedere assemblee, controcorsi, doposcuola, ecc. come la miniriforma Gui stava a dimostrare: ma si chiudeva a riccio su una scuola che avrebbe  dovuto continuare a selezionare figli di ricchi e di potenti, mentre poteva anche prolungare il parcheggio per gli altri. Don Milani aveva messo il dito sulla piaga e i suoi figli, un po’ legittimi, un po’ naturali, del ‘68 avevano capito.

Ma, che fare? Lettera a una professoressa sottolinea che il problema è politico, molto più che pedagogico: si ferma, però, al di fuori di quelle stanze del politico che don Milani considerava impraticabili, inevitabilmente e irrimediabilmente corrotte. Una mentalità un po’ clericale e molto cattolica lo portava a risolvere i problemi al livello che gli era più congeniale e praticabile, il sociale. Per il politico, diffidenza: anche se nella stanza dei bottoni arrivassero altri; i rossi (ricordate la celebre lettera a Pipetta) non sarebbero stati migliori dei bianchi per i quali don Milani continuava a votare, senza convinzione.

Se la malattia lo avesse risparmiato, don Milani probabilmente non avrebbe amato il ’68. Gli sarebbe apparso troppo legato a una categoria — non «classe» — anch’essa privilegiata, quella degli studenti. Studenti di città. Una lotta non tanto di poveri, quanto di corporazioni di privilegiati le une contro le altre. Perfino agli operai di Prato e Calenzano preferiva i contadini della montagna di Barbiana. Probabilmente avrebbe assunto posizioni simili a quelle che prese Pasolini, nostalgico, come lui, di un mondo arcaico e puro, senza ricchi, né stanze del potere.

Del ’68, probabilmente don Milani avrebbe temuto quei Pierini, anche nascosti fra le pieghe della rivoluzione, che «chiedono una fetta più grande di potere, come han fatto finora». Eppure il ’68, con gli anni che lo seguirono, accettò con slancio alcune delle lezioni della scuola di Barbiana e le diffuse: che la cultura non è neutrale, che la discriminazione di classe passa per la scuola, che chi parla meglio possiede più potere, che chi insegna rischia facilmente di trovarsi dalla parte dei padroni, anche se ha uno stipendio da fame.

Le lotte degli anni ’70 portarono la scuola in primo piano, e la scuola per cui si lottava non era lontana dalla montagna di Barbiana.

Poi, negli anni ’80, don Milani si è allontanato. Ma è proprio vero che nella scuola dell’obbligo non si

deve bocciare? ln una scuola sbracata, l’unica soluzione è la selezione. Così’ nella scuola dei nostri anni torna a dominare non l’utopia di un’eguaglianza giacobina, impossibile e datata, ma la realtà di un’efficienza pianificata e idealizzata, stile Confindustria. Non don Milani, ma Agnelli; Sylicon Valley più che Barbiana. Che i migliori siano riconosciuti come tali; che i ruoli corrispondano ai meriti; che gli insegnanti siano pagati meglio perché devono formare i manager di domani.

La specializzazione ha le sue esigenze. Numero chiuso. Don Milani scende sempre più nella tomba, in quel minuscolo fazzoletto del camposanto di Barbiana; per ora non s’intravede nessuno — né riformisti né rivoluzionari, né cobas né confederali — che abbia voglia di andare a tirarla fuori.

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Una risposta

  1. 22 Gennaio 2018

    […] della morte di Michele Gesualdi (qui ci limitiamo a ricordarlo come uno dei ragazzi di Barbiana) e quelle note di Filippo Gentiloni, che mi hai inviato su “Lettera a una professoressa”, con le considerazioni sul rapporto tra la Scuola di Barbiana ed il movimento studentesco del ’68 […]