Liliana Corradini (Mara), partigiana combattente

CORRADINI LILIANA di Giuseppe

Nata il 12-8-1926 a S. Maurizio (R.E.) – Residente: via Vittorangeli, 16 –

Reggio Emilia

Nome di battaglia: Mara

Periodo di riconoscimento: dal 10-8-1944 al 25-4-1945

Qualifica: Partigiano C.

Appartenenza: 37′ Brigata G.A.P. (Vittorio SaItini)

Mezzadri

“Sono di famiglia contadina e antifascista. Subito dopo l’8 settembre 1943 la mia famiglia incomincia, spontaneamente, a dare assistenza ai soldati in fuga. La mia casa era molto vicina alla via Emilia e alla ferrovia Bologna-Milano, a 3 Km. dalla stazione centrale, perciò parecchie decine di soldati attraversavano la nostra campagna e naturalmente bisognava procurare loro vestiti e vitto perché potessero raggiungere le loro case. Intanto il C.L.N. si preparava a dirigere la guerra di liberazione e, pertanto, organizzava le squadre di azione partigiana e i G.A.P.

La mia casa fu una delle prime ad essere chiamata a collaborare,tant’è che un giorno venne il compagno Emidio Franchi (vecchio antifascista, perseguitato politico, militante del P.C.I. da vecchia data) che dopo aver parlato con lo zio Luigi (Gigione), mi chiamò in cantina e mi chiese se accettavo di smistare la stampa clandestina nella zona che comprendeva: S. Maurizio, Ospizio, Masone, Gavasseto, Sabbione, Fellegara, Marmirolo, Castellazzo, Gavassa e Canali; naturalmente da collocare presso famiglie di vecchi antifascisti che in seguito alla formazione delle S.A.P. e G.A.P. assumeranno le caratteristiche di case di latitanza, case che ospiteranno i partigiani e che metteranno a disposizione staffette e partigiani che faranno parte di dette formazioni.

La stampa veniva prodotta in una stalla della bassa reggiana e mi veniva recapitata dalla staffetta ”Libera” (che a liberazione avvenuta seppi era la Bedogni di Gavassa). Fu così che incominciarono abbastanza frequenti (2 o 3 volte la settimana) in tutta la zona suddetta.

Naturalmente, allora, l’unico mezzo di trasporto era la bicicletta e la vastità della zona era tale per cui non riuscivo mai a rientrare a casa prima del coprifuoco, che incominciava alle 18 circa, perché era regolato con il tramonto del sole, cioè si poteva circolare solo con la luce del giorno.

Questo fu solo l’inizio, cioè la preparazione alla vera lotta armata.Quando le formazioni S.A.P. e G.A.P. cominciarono le azioni vere e proprie, allora il materiale che si doveva smistare non era solo la stampa, ma anche armi.

Il 1° gennaio 1945 due gappisti (Otello Montanari e Giglio Mazzi) di S. Maurizio ,ebbero uno scontro sulla via Emilia con due fascisti. l due gappisti rimasero feriti alle gambe e subito dopo mi recai a Castellazzo da Braglia perché venissero a prendere Montanari e portarlo lontano dal luogo dello scontro e da casa sua, anche perché era ferito più gravemente di Mazzi; quest’ultimo venne portato provvisoriamente dalla famiglia Chierici (miei zii) e li rimase tutta la notte.

Il giorno seguente andai a ritirare il mitra perché per un po‘ di tempo a loro non sarebbe servito e, al ritorno, mi accorsi che era già incominciata l’ora del coprifuoco. Per andare a casa mia avrei dovuto passare dalla via Emilia. Tutto ciò era rischioso e pensai di fermarmi sulla ferrovia, dove sapevo di trovare il mio fidanzato che era guardiafili e quindi aveva il permesso di circolare anche dopo il coprifuoco; cosi fu e gli chiesi se mi accompagnava a casa, senza informarlo del contenuto della borsa. Ci avviammo e, arrivati sul ponte del Rodano, vedemmo Colli, appartenente alle brigate nere e seviziatore alla villa Cucchi, che ci intimò l’alt. Ci fermò e ci chiese dov’eravamo diretti e perché eravamo ancora in giro a quell’ora. Io, che dovevo essere sempre pronta ad incontri del genere, con un sorriso un po’ forzato dissi: ”Deve scusarmi, ma siamo stati in campagna e abbiamo fatto tardi”. Al che lui replicò: ”Fate presto, toglietevi dalla via Emilia, andate immediatamente a casa”. Non ci facemmo pregare e, attraverso una stradina nascosta, arrivammo a casa. Giunti a casa. dissi al mio accompagnatore: ”Guarda che cosa c’è nella borsa”. La sorpresa lo fece impallidire, anche se sapeva benissimo che i miei viaggetti in bicicletta non erano mai fatti a vuoto.

Un altro di questi viaggi in bicicletta rimane nella mia mente, anche perché ha un po’ del  tragicomico. Il giorno non lo ricordo, ma è successo nel lungo inverno ’44-’45. La notte precedente a questo episodio ci fu una grande battaglia fra gappisti, S.A.P. e tedeschi e fascisti della zona di Correggio e il bottino fu portato dai gappisti di S. Maurizio e  altri di Castellazzo, in casa Braglia e poi smistato in diverse direzioni. Una ‘mitragliatrice pesante era destinata a un distaccamento della montagna , però la prima tappa doveva essere a Villa Canali, in casa del compagno Arnaldo Costi, (casa di smistamento di armi e partigiani). Tre gappisti, Prandi, Bonacini e Ferretti, misero la mitragliatrice smontata su un calesse e la coprirono con della paglia, attaccarono a questo un cavallo e io e Prandi facevamo la strada in bicicletta. Giunti all’incrocio di Marmirolo – Canali, trovammo una colonna di tedeschi che per lasciare spazio a noi si misero ai lati della strada. Percorremmo 2 o 3 Km. in quelle condizioni e intanto il gappista Bonacini diceva a Ferretti: “Guarda che bel bottino! Dai, che spariamo!”. Al che il Ferretti rispondeva: “Taci  che ti venisse un accidente, disgraziato, vuoi che ci ammazzino tutti!”. lo e Prandi ascoltavamo questo colloquio un po’ allibiti, ma nello stesso tempo l’idea del Bonacini era talmente assurda che ci divertiva. Arrivati finalmente a Canali, in casa Costi, ci accorgemmo che la base della mitraglia faceva bella mostra di sè, fuori dalla paglia. Quello che abbiamo provato in quel momento a quella scoperta non si può descrivere, di paura al pensiero del pericolo e di gioia per esserne usciti.

A proposito del compagno Costi, ricordo un altro episodio, anche per mettere in evidenza la serietà dell’organizzazione clandestina. Ci fu un periodo, nella primavera del ’45, in cui i fascisti riuscirono ad arrestare alcuni compagni (2 di questi erano Gorini e Catellani Aronte. Gorini gappista e Catellani del gruppo politico, antifascista, perseguitato, aveva subito anni di confino, ed io avevo rapporti con lui di lavoro nell’organizzazione). La mattina dell’arresto dei due in casa Gorini, io mi ero recata da loro per portare ordini e, appena uscita, entrarono le brigate nere e arrestarono i due compagni. ll compagno Catellani morì in carcere in seguito alle torture, perché fisicamente risentiva dei disagi del confino, mentre Gorini, più giovane, si salvò. In quel momento fu deciso che non si doveva più portare la stampa con i soliti mezzi, cioè in bicicletta, con la borsetta di corda e tramite le staffette. L’ordine era di avvertire oralmente che la stampa si trovava nel tal posto e che si doveva prelevare di notte, tramite le S.A.P.

Nonostante questa disposizione, una mattina mi recavo in città e, appena giunta sulla via Emilia, ho visto un pacco di stampa in una casa disabitata (perché bombardata) e senza porte, per cui si vedeva benissimo il materiale, anche passando sulla strada. Inoltre, in quella stanza aperta, c’erano vestiti e diversi arnesi degli operai della TODT (civili che lavoravano per i tedeschi, ma in maggior parte simpatizzanti e collaboratori dell’organizzazione clandestina) che stavano lavorando nei pressi. Il mio impulso fu quello di entrare, prendere la stampa e portarla al sicuro. Infatti così feci. Arrivata a Canali, il Costi mi vide, mi venne incontro con una grossa rivoltella a tamburo e mi ricevette con queste parole: ”Se ti azzardi ancora a portarmi qualsiasi cosa in questo modo, ti ammazzo”. Ero allora molto giovane, ma in quel momento mi resi conto che, per il bene della organizzazione, ogni rotellina dell’ingranaggio doveva funzionare alla perfezione, altrimenti si metteva a repentaglio la vita stessa dei compagni, dei partigiani e del movimento stesso.

In quel periodo anche mia cugina Verner, che era la staffetta dei G.A.P. e che era sospettata dell’attività che svolgeva da un elemento della brigata nera, che ci conosceva molto bene, dovette rimanere nascosta un certo periodo di tempo. lo al contrario, rimasi in circolazione anche perché ero allora di poche parole, mi si definiva timida e nessuno di mia conoscenza dubitava e pensava che avessi il coraggio di fare certe cose. Fu infatti una grossa sorpresa quando, alla fine, si seppe della mia attività.

Sempre nell’inverno “44-‘45 un giorno, come tanti, erano ospiti in casa nostra i G.A.P., nascosti in una stanza al 1° piano, erano circa 8, con parecchie armi. Nel pomeriggio, due elementi della brigata nera con alcuni ufficiali tedeschi si fermarono, entrarono e chiamarono mio padre e lo zio per informarli che un distaccamento dell’esercito tedesco si sarebbe accampato in casa nostra e nel cortile; essi erano forse attirati dal fatto che la casa era molto grande, essendo una casa colonica, e intorno c’era lo spazio a sufficienza. Intanto mio padre e lo zio offrirono loro da bere e cercarono in tutti i modi di spiegare che era impossibile ospitarli, perché la casa era pericolante, rovinata dai bombardamenti aerei, tant’è vero che noi eravamo sfollati, andavamo a dormire in casa Menozzi e Codeluppi a circa 1 Km. da casa nostra. Si tornava a casa il mattino per accudire ai lavori dei campi. La discussione però si protraeva e intanto io pensavo ai ragazzi che erano al piano di sopra e precisamente sopra la sala dove avveniva questo colloquio. Andai allora da loro e dissi: “Venite con me, perché di sotto sta succedendo qualche cosa”. Li condussi in solaio, li nascosi in un nascondiglio segreto; poi tornai giù per esaminare la situazione.

l tedeschi, non convinti, vollero visitare la casa, si portarono al primo piano e cosi videro che effettivamente mancavano pareti e pavimenti. Infine se ne andarono. Allora comunicai il cessato pericolo ai gappisti che, con grande sollievo, tornarono nella stanza giù occupata, visitata dai tedeschi poco prima. Una mattina, però, tentando dall’abitazione provvisoria, trovammo i tedeschi in casa, qualcuno disteso sul grande tavolo in sala, alcuni in terra, altri nella stalla. Rimasero in casa nostra per alcuni mesi, mentre continuava l’attività clandestina: i partigiani venivano ancora a dormire, entrando dal lato opposto; si continuava a smerciare materiale, vestiario, viveri, stampa, ecc.

Ormai non ci si poteva ritirare, anzi, le operazioni aumentavano in tutta la zona e si doveva operare in queste condizioni, sotto l’occhio del nemico. Infatti i soldati tedeschi dicevano, storpiando le parole: ”Voi di giorno lavorare, di notte tutti partigiani”. Si rendevano perfettamente conto della situazione, anche perché tutte le notti succedevano fatti che confermavano questi loro dubbi. Quindi la reazione era veramente rabbiosa, forse ancora di più da parte dei repubblichini che con i tedeschi facevano i rastrellamenti di civili, bruciavano case, ammazzavano uomini, donne, bambini.

Nella primavera del ’45 troviamo già costituiti i Gruppi di Difesa della Donna, che avevano il compito di aiutare i partigiani con ogni mezzo possibile: confezione di indumenti (soprattutto di lana), perché l’inverno passato dalle nostre formazioni garibaldine in montagna era stato lunghissimo ed essi avevano sofferto fame e freddo, raccolta di viveri, sigarette, medicinali, ecc. Fu un grande successo per la grossa mobilitazione delle donne e per il quantitativo di generi raccolti. L’8 marzo 1945 (giornata internazionale della donna), fu organizzato dai G.D.D. uno sciopero contro la fame e le repressioni politiche. La prima tappa fu la prefettura, per chiedere gli alimenti; quando eravamo in gran parte nel cortile della stessa Prefettura, venne giù dallo scalone un fanatico repubblichino che incomincio a sparare, senza colpirci (probabilmente lo fece per intimorirci).

Dalla Prefettura ci recammo davanti alle carceri dove c’erano prigionieri politici; si gridava a gran voce: ”Libertà ai detenuti politici”. Dalla finestra spuntarono alcune canne di fucile che cominciarono a sparare sulle donne. Alcune rimasero anche ferite, dopo di che tornammo ognuna alle nostre case.

Alla fine del febbraio ’45 mi arrivò un grosso pacco di manifesti (il primo manifesto di grandi dimensioni), dedicati all’insurrezione che si prevedeva imminente. Intanto avevo portato questo grosso pacco nella casa dove eravamo ospiti, e precisamente nella stanza adibita, per l’occasione, a cucina, che aveva all’interno un pozzo. Tutto ad un tratto vedo mio zio Gigione che entra in casa con gli occhi sbarrati dalla paura, prende il sacco con la stampa e lo butta nel pozzo, poi esce; allora io lo seguo per vedere la causa di quel gesto. Il cortile era pieno di tedeschi, ma, con nostra grande sorpresa e soddisfazione, sentimmo che erano stati attratti dalle grosse oche che erano in cortile. Quindi, avute le oche, se ne andarono. Dopo lo spavento venne il momento di pensare alla stampa che si stava bagnando nel pozzo; la recuperammo e la seppellimmo nel giardino di casa nostra, anche perché era materiale prezioso e non volevamo correre il rischio. La riesumammo verso la fine di marzo e quindi fu distribuita e affissa nelle varie località già citate.

La famiglia che ci ospitava non sapeva della nostra attività quindi, col traffico di materiale, ecc., facemmo diventare partigiani nostri parenti, un sacco di bombe a mano diventò per l’occasione un ”sacco di tazze d’alluminio”; insomma si doveva lavorare di fantasia continuamente per nascondere la verità.

Finalmente venne il giorno tanto atteso; nel pomeriggio del 24 aprile l’esercito americano arrivò a 3 Km. da Reggio Emilia e i tedeschi in fuga fecero saltare il ponte del Rodano sulla via Emilia a 1 Km. circa dal posto occupato dall’esercito anglo-americano, e dall’altra parte del torrente opposero una debole resistenza; intanto il grosso dell’esercito tedesco era in ritirata attraverso la campagna.

Il Comando anglo-americano si mise in contatto con il C.L.N. di Reggio Emilia quindi, presso la Cantina

Avanguardie partigiane avanzano da Via Emilia Santo Stefano al centro di Reggio (pomeriggio del 24 aprile 1945).

Sociale di S. Maurizio, si incontrò con l’avv. Pellizzi (primo prefetto della  liberazione), i gappisti, i S.A.P., e i vari Comandi delle formazioni partigiane. Da lì ricevetti l’ordine di portare la notizia oltre il Rodano, precisamente a Due Maestà, ancora occupata dai tedeschi. Presi per l’ultima volta la mia bicicletta e, attraverso viottoli di campagna, mi incamminai per l’ultima missione. Feci tutto il percorso fra le truppe tedesche in ritirata e in mezzo al fuoco dell’artiglieria. A metà strada uscì un tedesco dalla colonna, mi prese il manubrio della bicicletta e incominciò a tirare dicendo: “Questa bicicletta mia!”. Io risposti: “No, e mia!”. Dopo un po’ uscì un comandante tedesco. che intimò al subalterno di lasciarmi in pace. Infatti potei continuare il percorso e compiere la mia ultima missione ».

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