Viva la vita pagata a rate

Dino Angelini

17.12.11

In una vecchia canzone della metà degli anni 60 Ivan Della Mea cantava irridente:

Viva la vita pagata a rate
con la Seicento, la lavatrice!
Viva il sistema che rende uguale a fa felice,
chi ci ha il potere e chi invece non ce l’ha!

Era una canzone scritta negli anni successivi al boom. “La vita a rate” di cui parlava Ivan Della Mea era quella che in stato nascente aveva caratterizzato quel vero e proprio balzo in avanti di ampie zone soprattutto qui nel Nord del paese. Fra queste Reggio Emilia che proprio in quegli anni vede, come in una cinematografica dissolvenza incrociata, quasi all’improvviso cominciare a sfarfalleggiare, per poi scolorirsi fino a essere risucchiata nello sfondo, la propria vecchia immagine di borgo contadino e protoindustriale, e altrettanto velocemente emergere, da quello stesso sfondo, quella nuova società industriale, moderna che ben conosciamo, destinata nel ventennio successivo a essere ulteriormente strasfigurata dalla proliferazione del terziario avanzato e dal processo migratorio.

Insomma Reggio Emilia ha affrontato nell’arco di sole tre generazioni una rivoluzione che in Francia e in Inghilterra si è dipanata lungo l’arco sette, se non otto generazioni.

Per cui se oggi tornasse in vita uno dei nostri trisavoli che non ha fatto in tempo ad assistere agli effetti del boom sulla nostra città, probabilmente sarebbe in grado di comprendere la “lettera”, ma non il senso di ciò che diciamo e, soprattutto, di ciò che facciamo! di come consumiamo coattivamente i nostri soldi, ad esempio.

C’è stato cioè in questi anni il passaggio da un’etica reggiana del lavoro (che forse sarebbe più corretto definire “padana”, se nel frattempo questo termine non fosse stato piegato ad altri significati) a un’estetica consumista che ormai condividiamo con tutta la megalopoli occidentale. E all’interno di questo enorme e omologante processo acculturativo la generazione che è stata adolescente negli anni del boom – la generazione del ‘68, per intenderci – si è trovata in una posizione particolare: da una parte è l’unica oggi in grado di ricordare la frugalità e la miseria, ma anche i valori della Reggio di avantieri, dall’altra è stata la prima che, appena ieri, ha potuto fruire dei vantaggi di quella “vita pagata a rate” che c’introduceva spensieratamente nel regno della cuccagna.

Si tratta di quella generazione che durante l’infanzia ha giocato o reinventandosi come giocattoli oggetti originariamente destinati ad altro uso, oppure al massimo con radi “giocattoli artigianali” che arrivavano – se arrivavano! – solo per la Befana.

Si tratta però anche della prima generazione che, come manifestazione del riscatto dall’indigenza e per mille altri motivi – sempre legati, però, alle nuove più ampie possibilità di “avere” – ha riempito le stanze dei propri bambini di giocattoli industriali, sfavillanti quanto effimeri.

Nel frattempo la macchina infernale della pubblicità chiudeva il cerchio rivolgendosi non più solo ai padri e alle madri, ma direttamente ai bambini abituandoli, praticamente fin dalla culla, a diventare dei perfetti consumisti, cioè a fare sempre bulimicamente il pieno di ogni cosa.

Si tratta di una generazione incoerente, che a volte predica anche bene, ma che razzola sempre male. Malissimo in un’epoca in cui la crisi incombe su di noi proprio perché quella vita pagata a rate si è espansa tanto da creare i prestiti subprime.

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