Elogio della liminalità

Dino Angelini

29.10.13

La nascita del nuovo all’interno dei singoli e dei gruppi implica l’instaurarsi in loro di una situazione di “stato nascente”, in cui il tempo sembra fermarsi  per permettere la gestazione di un’idea, di un progetto, di un movimento al riparo dagli aspetti più prosastici della realtà quotidiana.

La liminalità del luogo fisico e mentale in cui nasce il nuovo costituisce la dimensione spaziale, il contenitore, il nido all’interno del quale individui e gruppi possono covare in santa pace il nuovo.

In un secondo tempo idee, progetti e movimenti, nati all’interno di questo contenitore protetto, prendono a camminare con le proprie gambe ed a sfidare “il vecchio”. Con vari esiti, checché ne dica Alberoni, che alla fine li vuole tutti istituzionalizzati, scarnificati di ogni istanza innovativa, e per\ciò morti.

Certo la istituzionalizzazione e la conseguente mummificazione del nuovo può essere, anzi spesso è il frutto della coniugazione fra il nuovo ed il mondo. Ma può avvenire anche che il nuovo abortisca. O che rimanga in vita tornando di tanto in tanto ad abbeverarsi alla fonte che gli ha dato la vita: cioè a quella situazione di stato nascente in cui il tempo e lo spazio della liminarità possano permettergli di mantenersi vivo (e vegeto).

Di fronte al tramonto dell’esperienza decennale di Delrio & C. in città si vanno aggrumando vari luoghi e vari soggetti collettivi che vivono in questi mesi in una situazione di “stato nascente”. E ciò sia al di fuori del PD, sia al suo interno, sia nei suoi pressi.

Sit tratta spesso di situazioni ancora embrionali, che possono facilmente abortire da un momento all’altro. Che possono regredire; possono essere invase, come il famoso nido del cuculo, da entità estranee e parassitarie. Che possono infine essere attraversate da linee di frattura che – come sta avvenendo fra i civatiani nostrani – producono, almeno nell’immediato, innaturali connubi destinati forse a mettere al mondo nuovi strani esseri viventi. O – più probabilmente, temo – vetuste figure del trasformismo italiota di sempre.

Alcune cose a me paiono certe. Innanzitutto mi pare mortifero attraversare questa fase, rinunciando a priori a disporsi in una posizione di liminalità e di “stato nascente” che permetta l’emergere del nuovo, e limitarsi – come mi pare stia facendo Sel – alla difesa delle sine cura ottenute “regis gratia”.  E per giunta per grazia di un “re” ormai partito alla conquista di ben altri regni.

Lo stesso dicasi di Rifondazione che rischia di diventare la caricatura di se stessa, soprattutto se rinuncia sia ad un’analisi concreta (spietata e conseguente) della situazione concreta, sia ad ogni contaminazione con “gli eretici” che si annidano nei vari movimenti di base (o – peggio – se cerca di ricondurli a sé in vario modo).

Il limite dei grillini mi pare una certa propensione al formalismo che – come sta avvenendo a livello nazionale – soffoca ogni contenuto da loro individuato ed ogni possibile alleanza appiccando gli uni e le altre all’albero delle corrette procedure.

E pure ai bordi dell’agorà cittadina e provinciale gruppi operosi di cittadinanza attiva vanno elaborando e sostenendo attraverso l’azione quotidiana idee e proposte. Lo stesso vanno facendo nel PD locale – e con buon successo, mi pare – i civatiani residui a partire dall’idea di una nuova a più pulita “militanza” e di contenuti autenticamente, e cioè non strumentalmente legati alla difesa dei beni comuni. Che sarebbe un peccato però abbandonare dopo il congresso per qualche “scrana” in più negli organismi dirigenti e nelle istituzioni.

Non c’è più tempo, temo, per cercare di mettere in piedi prima delle elezioni un luogo liminare capace di permettere una tranquilla coniugazione fra tutti questi soggetti e questi gruppi. L’unica cosa che mi pare possibile ed auspicabile per ora è fare in modo che la contesa, almeno qui a Reggio, si svolga in un clima di urbanità e di reciproco rispetto. In modo che poi ci sia il tempo e lo spazio interno a ciascun soggetto individuale e collettivo per comporre insieme un programma per la città ed il territorio all’interno di luoghi liminari capaci di coniugare fruttuosamente tutto ciò che di buono c’è nelle posizioni di ciascuno.

Non nel confusivo e inconcludente embrasson nous tipico delle larghe intese. Ma a partire da quella dialettica costruttiva maggioranza – opposizione che sindaci comunisti e consiglieri lungimiranti di ogni parte politica seppero mettere in piedi a Reggio Emilia ai tempi la prima repubblica.

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