La meglio gioventù

Dino Angelini

13.2.12

Ho rivisto ieri sera “La meglio gioventù”, il film di Marco Tullio Giordana, e ho notato una cosa che nella prima lettura del film mi era sfuggita: a parte l’accenno iniziale all’occupazione di Palazzo Campana, tutti i protagonisti del film sono rappresentati nella loro veste privata e nei momenti di studio e di lavoro.

Nessun accenno alla natura della loro collocazione politica. Perfino la mamma brigatista – a parte qualche spiraglio che allude ai suoi propositi eversivi – viene vista più come madre che come brigatista.

Perché – mi sono chiesto – questo taglio apparentemente intimista, che in effetti risulta così efficace nella narrazione di quel “lì e allora” come luogo pubblico, e non solo privato? E perché da quel luogo pubblico sono spariti partitini, gruppuscoli e altri feticci del post-sessantotto?

A mio avviso perché Giordana e i suoi sceneggiatori Rulli e Petraglia (quelli della Piovra!) hanno compreso che – a fianco ai feticci che resero quella stagione ipercinetica e infeconda a livello ideologico – nacquero anche, spesso all’inizio confusi e aggrovigliati ai primi, dei luoghi di creazione e di sperimentazione pratica, che quasi mai scaddero nel praticismo acefalo.

Erano i luoghi della sanità, della psichiatria, della formazione di ogni ordine grado a partire dagli asili nido, della comunicazione, dell’assistenza, dell’ecologia, etc., spesso scollegati fra loro, ma presenti in ogni dove, come una gramigna benefica.

Insomma, senza rendersene conto quella generazione praticò ciò che auspicava Rudi Dutschke a un certo punto della sua riflessione sul ‘68: la lunga marcia attraverso le istituzioni. Per trasformarle, per ridefinirle, per “praticare l’obiettivo”, come allora icasticamente dicevamo.

Dove “praticare l’obiettivo” all’inizio significava tentare d’incarnarlo a partire dai sacri testi, dai feticci e dalle giaculatorie teoreticiste; ma dove fin da subito si vide che per praticarlo realmente altre erano le strade da seguire sia nel pubblico, e cioè nello studio e nel lavoro; sia – come ci suggerivano le prime femministe – in quel privato che lì e allora cominciò a colorarsi dei vividi colori della politica di genere.

Poi a poco a poco i feticci dei primi anni ’70 cominciarono ad apparire per quello che erano: degli stracci frusti e vetusti che agitavamo per coprire i nostri limiti. E prima o poi li abbandonammo, relegandoli negli scantinati delle nostre coscienze. A volte buttando via l’acqua sporca con il bambino dentro; a volte, invece, con maggiore accortezza.

Nel mentre, però, la lunga marcia attraverso le istituzioni continuava indefessa e, anzi – una volta che si fu liberata dai lacci e laccioli teoreticisti – riusciva a raggiungere nuovi e più ampi traguardi, a volte procedendo disordinatamente e a piccoli passi, a volte esplodendo in grandiosi movimenti di massa.

Tutte le istituzioni alla fine sono state attraversate dal vento del cambiamento, e la propensione a mettersi in marcia si è diffusa in termini virali dalla vecchia generazione a quelle successive. Lo stropiccio di quei passi è giunto ormai in ogni più angusto angolo della società. Ma anche dentro ognuno di noi.

Insomma, la lunga marcia del ’68 non è ancora finita. Secondo me non finirà mai.

È questo che temono i reazionari e i burosauri di ogni colore, che la evocano come si evocano i fantasmi più mostruosi e la temono come la peste: hanno intuito che è in quella peste – e non nel marxismo-leninismo – che potrebbe incubarsi l’inizio della loro fine.

Potrebbero interessarti anche...