Subire il decentramento

Dino Angelini

29.9.12

Ho posto la mia firma per il “Progetto Emilia”, perché mi pare che, di fronte ad un’urgenza non più rimandabile, e di fronte al rischio di tornare al granducato di Modena, l’opzione “Modena – Reggio – Parma – Piacenza” offra maggiori garanzie sul piano della programmazione economica a tutto il territorio emiliano. Senza rischi di particolarismo, e soprattutto senza rischi di costruzione di piccole patrie che magari stanno in piedi solo per turare la falla sanitaria modenese, o per altre simili emergenze.

Tuttavia, se si ritenesse di risolvere il problema del decentramento solo accorpando le province, a mio avviso non ci sarebbe Grande Emilia che potrebbe tenere di fronte ad un insieme intricatissimo di questioni che invece richiedono da una parte una visione complessiva del problema e dall’altra, di conseguenza, un uso delle risorse al contempo virtuoso e lungimirante.

In un’intervista che Renzo Bonazzi mi ha concesso poco prima della sua scomparsa, di fronte alle mie domande sulle origini del modello emiliano di welfare, egli non smise di sottolineare due punti.

Da una parte la consuetudine – che nel suo ricordo risaliva a decisioni prese di fronte alle urgenze della ricostruzione – dei sindaci emiliano-romagnoli di praticare scelte di spesa che sforavano rispetto ai vincoli di bilancio imposti dal governo centrale, spingendo i prefetti a sottoscrivere ob torto collo queste scelte.

Dall’altra – e, direi con maggiore insistenza da parte sua – il fatto che “tutt’oggi (cioè 5 o 6 anni fa) in Italia non esiste una vera finanza locale”, intesa come un corpus di leggi capace di inquadrare il decentramento all’interno di un sistema sicuro, prevedibile di finanziamenti del welfare, e non solo.

Il primo elemento, cioè questo giustificatissimo non detto (pare inventato da Dozza) per cui si sforava, ma non si discuteva né tanto meno si teorizzava su questo annuale sforamento, trova una delle sue ragioni nel fatto che, come ha sottolineato Crainz, queste lande di comunisti “senzadio” fino alla nascita del centrosinistra dallo stato centrale erano viste come nemiche.

La situazione cambia però dopo la nascita delle Regioni e dopo l’innesco di quel processo di decentramento all’italiana che adesso sta andando in frantumi. A partire da quel momento la sinistra, invece di esigere la nascita di un’autonoma finanza locale sulla quale potere poggiare i propri progetti di riforma, preferì rivendicare risorse finanziarie da un centro sempre più condizionato da politiche anticongiunturali. E nel vuoto cadde il monito di chi, come Barbera, si ostinava a ripetere che “non si sono mai conosciute in Occidente forme di democrazia locale che non fossero legate al prelievo di risorse tributarie”.

Alla base di questa rinuncia a mio avviso c’era la preoccupazione di non inimicarsi i nuovi strati sociali (il popolo dei BOT e dell’evasione) attraverso l’esazione diretta delle tasse. Fatto sta che è da lì che nasce il separatismo della Lega, ma anche la crisi che porterà alla seconda repubblica.

Ciò che seguì fu, proprio agli esordi di questo nuovo corso, un programma che ebbe fra i suoi punti cardine due o tre elementi direttamente riconducibili al problema del decentramento. Sto parlando dei processi di aziendalizzazione con relativi carrozzoni clientelari al seguito; di quelle leggi che, nel momento in cui davano poteri insindacabili ai sindaci e ai presidenti, spazzavano via sia gli organismi di partecipazione che quelli di controllo; e soprattutto dei programmi neoliberisti, che qui in Italia hanno avuto il loro campione in Tremonti, e che erano volti a sbaraccare il welfare chiudendo sempre più i rubinetti centrali e scaricando il peso dei tagli proprio su gli enti locali.

Con il governo dei tecnici ora siamo al punto che a questi interventi per interposta persona, si affiancano – grazie all’assenza di un’opposizione seria – interventi diretti e devastanti da parte dello stato. Interventi che per far cassa, oltre che sulle spalle dei cittadini, tendono, a volte in maniera sostanzialmente propagandistica, a prendere di qua e di là in una sorta di “facìte ammuìna” volta a buttare fumo negli occhi: è il caso della riforma delle province, che nel frattempo, come tutti gli altri organi del decentramento stanno andando in cancrena.

Di fronte a questo sfascio a poco vale cercare soluzioni “così”, a spizzichi e bocconi.

Propongo un esempio per farmi capire: in questi giorni, di fronte ai più recenti scandali, molti (compreso Vespa!) cominciano a dire che sul piano del decentramento sembrerebbe più utile partire dalle Regioni. Istituzioni ormai mastodontiche – si dice – che hanno una spesa sanitaria micidiale, intorno alla quale ormai si sono nidificate clientele e burocrazie che appesantiscono alla grande le uscite; e, ciò che è più grave – si aggiunge – che scartano, scapicollano sempre alla grande dalle ragioni di tipo perequativo in base alle quali è nata la sanità pubblica (così come il “sociale”, etc.).

Ma se poi dalla parte destruens volessimo passare a quella construens a che cosa ci appelliamo?

Cosa facciamo se non c’è una visione complessiva del problema?

Facciamo come in Germania? Dove i Lander svolgono solo funzioni di controllo sulla sanità pubblica e privata, che rimane legata alle casse mutue che ogni categoria di lavoratori gestisce da lungo tempo insieme ai rappresentanti dei propri datori di lavoro?

Bene! Ma ve la immaginate una cosa simile da noi? Dovremmo chiudere l’Inps; ridurre dell’80% le regioni, e mandare a casa o riciclare migliaia d’impiegati, a partire da Mastrapasqua e da Formigoni; convincere sindacati, organizzazioni dei datori di lavoro a passare dalla guerra guerreggiata alla cogestione degli accantonamenti per la sanità e al negoziato con gli ospedali e le Asl che tornerebbero ad essere guidate da personale sanitario, etc.

Ora moltiplicate questo singolo (anche se importante) problema per tutti gli altri problemi sul tappeto del decentramento – dal sociale alla tutela del territorio, dai legami fra le varie istanze locali a quelli che esse devono avere con lo stato centrale – e vedrete che se non c’è una visione complessiva non c’è riforma, ma solo spazio per mettere una pezza di qui, un’altra di là (come sta avvenendo ora con il pur lodevole Progetto Emilia), spesso sotto l’assillo delle esigenze attuali di bilancio, e non in base ad una progettualità generale e riflessiva, capace di andare al di là dal proprio naso o del proprio attuale interesse di bottega.

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