Reddito o lavoro di cittadinanza?

Dino Angelini

18.12.13

A conclusione di un articolo – I Peter Pan della globalizzazione – apparso nel 2003 sulla Rivista del Manifesto,  mi schieravo contro il salario minimo garantito per i neoadulti precari, che da un punto di vista psicosociale mi appariva – così come mi appare tuttora – una compensazione assistenzialistica al loro stato di precarietà. Destinata ad inchiodarli in uno stato “filiale” di sudditanza e di perenne richiesta di tutela e di contenimento; a condannarli ad un rinvio sine die della introiezione di quelle istanze di autonomia e responsabilità che sono le fondamenta dell’età adulta; e ad una sostanziale rinuncia alla progettualità, che in prospettiva implica un vero e proprio killeraggio del loro futuro.

“Laddove invece il lavoro continuativo, attraverso la messa in sicurezza della dignità del giovane adulto, lo garantisce ex ante nella sua autonomia e nella sua capacità di mantenere una propria personale visione del mondo e di assumere su di sé in maniera critica l’etica del lavoro prevalente nella società in cui gli tocca di vivere”.

Ho mantenuto questa posizione in tutti questi anni, in contrasto anche con le posizioni prevalenti all’interno della sinistra radicale, che da ultimo si vanno attestando (peraltro non molto distanti da quelle del M5Stelle) non più sul salario minimo garantito, ma sul reddito di cittadinanza. Cioè non più su una normativa ancorata direttamente al mondo del lavoro, ma su una esigenza di tipo distributivo, solo indirettamente collegata al lavoro. Infatti a mio avviso da un punto di vista psicosociale questo spostamento di accento dal salario al reddito, soprattutto se diventa un paracadute sistematico al quale il giovane adulto sia costretto in ogni caso ad aggrapparsi, comporta gli stessi rischi che intravedevo dieci anni fa.

Rischi però che in un’epoca di crisi tendono ad accentuarsi ed a costringere in maniera più impietosa il neoadulto in uno stato di minorità e di dipendenza. Rischi che, in una Italia sempre più pervasivamente connotata dall’assistenzialismo e dal clientelismo, si trasformerebbero ben presto in un ennesima occasione per fornire risorse ai più deboli non per diritto, ma per favore.

Una recente lettura di un articolo di Laura Pennacchi – intitolato significativamente “Lavoro, e non reddito, di cittadinanza” – leggo fra l’altro, in negativo: “Le ipotesi di “reddito di cittadinanza” sono sostenute in prevalenza con il presupposto che esso assorba molte delle presta­zioni monetarie e dei servizi del welfare state … il quale, al contrario, in una fase in cui l’austerità autodistrut­tiva riporta in auge le privatizzazioni innanzitutto della spesa sociale, andrebbe rafforzato e riqualificato”.

Il che, anche per gli altissimi costi che sono impliciti nell’idea di reddito di cittadinanza, porterebbe ad una “cristallizzazione della precarizzazione e alla dualizzazione del mercato del mercato del lavoro”.

E più avanti, in positivo: “Oggi servono proprio politiche economiche governative orientate alla “piena e buona occupazione”, a partire “dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualifica­zione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio del welfare state. La creatività istituzionale del New Deal è un antecedente a cui ispirarsi, come lo sono il Piano del lavoro della Cgil del 1949 e l’antiveggente proposta di Ernesto Rossi di innestare la genera­lizzazione del servizio civile nella creazione di un grande Esercito del lavoro”.

Le ragioni economiche che sono alla base delle riflessioni di Laura Pennacchi mi spingono a ribadire con rinnovato vigore le mie posizioni, che nascono sul versante psicosociale. Dal punto di vista della psicologia critica l’acquisizione da parte del giovane di un profilo realmente e compiutamente adulto non può prescindere dal raggiungimento dell’autonomia, che a sua volta è fondamento della dignità della persona e premessa all’acquisizione di un personale punto di osservazione e di azione nel mondo. La Pennacchi ci permette di capire meglio quali siano i rischi impliciti nel passaggio al reddito di cittadinanza. Che sono rischi di una sua instaurazione sul cadavere di ciò che resta del welfare.

Le elezioni amministrative potrebbero essere una prima occasione di sperimentazione di politiche locali orientate alla “piena e buona occupazione”, a partire “dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualifica­zione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio del welfare state”.

Sinistra, se ci sei, batti un colpo!

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