Quelli della notte (a Reggio)

Dino Angelini

17.9.14

Il recente episodio del concerto ai Chiostri di San Pietro, in pieno centro cittadino, andato avanti fino alle due di notte con relativa denuncia del vicinato per disturbo della quiete pubblica, è solo l’ultimo di una serie di eventi pubblici o privati, spontanei o programmati, che punteggiano da lungo tempo le estati reggiane.

Come tutte le esibizioni, anche questi eventi tendono a “mettere fuori” qualcosa che, prima di essere esibito, era “dentro” l’animo sia degli organizzatori sia dei fruitori, soprattutto se i primi sono stati in grado di leggere gusti e desideri dei secondi che, per gli uni e per gli altri, sono stati forgiati all’interno di tradizioni culturali che – per dirla con Dorfles – oscillano in base a tutta una serie di caratteristiche che vanno colte, se si vuole comprendere le ragioni in base alle quali avvengono le trasformazioni del gusto e le funzioni svolte storicamente da questo o da quest’altro tipo di esibizione.

Nel nostro caso mi verrebbe da dire: all’origine c’era il Marabù, e tutti quei luoghi della notte verso i quali presero a dirigersi i giovani nei primi anni ’70, dopo la grande stagione dei concerti tipo Woodstock e, più in generale, dopo le grandi trasformazioni avvenute nella famiglia e nella società a partire dal ’68.

Quelli della notte sono dei giovani che “a mezzanotte” – come dice Pietropolli Charmet – “mettono a letto i propri genitori, e vanno a vivere la loro vera vita” in quei luoghi e in quei tempi a parte, capaci contemporaneamente, in base alla loro limitarità spaziale e temporale, di marcare la distanza dal mondo adulto e la strada di un percorso autonomo e parallelo.

Un percorso all’interno del quale è possibile riscontrare l’inizio di quei “riti individuali di passaggio” che conducono all’età adulta in assenza di cerimonie pubbliche che attestino la crescita psicologica.

Ciò che si verificò fin da subito è una specie di gioco a rimpiattino che vide l’industria culturale, ma anche tutto l’apparato produttivo consumistico che si rivolgeva a giovani, tentare di penetrare in questi luoghi sfuggenti per copiare e riproporre come trend consumistici i gusti musicali e non, i modi di vestire e di vivere spontaneamente lì nati.

Ottenendo come reazione immediata la diffusione a livello di massa di una nuova moda, che era figlia spuria e indesiderata della creatività giovanile; a livello più mediato un movimento neoliminare di sottrazione e di riproposizione di nuovi gusti, di nuove tendenze, di nuove forme e di nuovi luoghi di esibizione e di fruizione, nato magari in nuovi luoghi e sotto altre “insegne”.

Da allora sono passati oltre quarant’anni. Il gioco a rimpiattino non è mai finito, ma anzi negli ultimi anni è diventato più frenetico. Nel frattempo però molte cose sono cambiate; e l’episodio dell’altra sera ne pone in evidenza una che a mio avviso è decisiva se si vuole comprendere le ragioni di tutti.

Si tratta di qualcosa che ha a che fare con la natura del luogo e del tempo che non sono più “a parte”, ma disposti letteralmente (!) a interferire con i luoghi e i tempi di chi non partecipa e non intende lasciarsi coinvolgere all’interno di un evento che, anzi, vive con fastidio.

Il giovane di quarant’anni anni fa a mezzanotte metteva a letto i propri genitori di allora per andare finalmente a vivere la propria vita da un’altra parte. I giovani coinvolti l’altra sera nell’evento dei Chiostri di San Pietro sono stati condotti all’interno di un luogo assolutamente non liminare per promuovere un movimento opposto che consiste nello svegliare i propri genitori (che poi sono i giovani degli anni ’70!) dal loro sonno, costringerli ad ascoltare controvoglia una musica che a loro – in quel momento, almeno – non interessa e spingerli alla denuncia.

La stessa cosa fanno spesso spontaneamente d’estate molti giovani immigrati interni o esterni proponendo musica a tutto volume (spesso musica “etnica”, napoletana così come siciliana o latino-americana) ai vicini: incuranti dei loro gusti, irrispettosi dei loro tempi di fruizione.

Nel caso dei giovani migranti attraverso la musica c’è la volontà di riempire i momenti del loisir di contenuti e di forme espressive che li riportino nostalgicamente alle loro origini lontane. E l’oggettiva provocazione implicita in queste esibizioni è da ricondurre alla loro spesso debolissima e malsicura neoidentità reggiana.

Diverso, molto diverso è quando all’origine degli episodi come quello dei Chiostri di San Pietro ci sono gli enti pubblici: in questi casi ciò che accade va ricondotto alle ragioni che sono alla base di queste forme di mecenatismo de noantri: che “deve far vedere” di essere dalla parte dei giovani, che “deve far vedere” di essere all’ultima moda, che deve farlo vedere a tutti pensando che questo possa far piacere, o possa épater les bourgeoises, spaventare i vecchi “conservatori” d’ogni risma.

È un po’ la stessa cosa che è avvenuta nei giorni scorsi a Festareggio con le provocazioni scatologiche di Immanuel Casto. Dove o ci stavi a sentire le porcherie di questo novello “bidè delle Muse” o eri retrò.

Da una parte il farsi vedere dei giovani migranti, e il farsi vedere dei giovani amministratori che scambiano le proprie provocazioni con l’essere di sinistra. Dall’altra l’esigenza dei giovani (e dei meno giovani) di continuare a sottrarsi alle vecchie, così come a queste nuove sirene.

Si tratta di due movimenti opposti che vedono da una parte i giovani impegnati a sottrarsi e a marcare il proprio percorso di crescita in assenza di cerimonie pubbliche e condivise che l’attestino; dall’altra questi nuovi mecenati impegnati a coinvolgerci, anche obtorto collo, e a punteggiare la nostra estate con feste che vengono meno alla prima e più profonda ragione della festa: il suo “venire a cadenza”, come dicono i demologi.

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