Ragionando sul quel “Pensi di conoscermi?”

Dino Angelini e Deliana Bertani

 

“Pensi di conoscermi?”: una domanda che istituzioni, privato sociale e associazioni rivolgono più che alla comunità ‘a te’ cittadino, visto nella tua singolarità. Una domanda centrata su una supposizione (pensi di conoscermi?), che però – com’è possibile verificare dando un’occhiata al blog che fa da traino all’iniziativa – sottende un programma che più che una campagna di comunicazione, è un modo di fare cultura perché sulle disabilità e soprattutto sulle difficoltà non facilmente riconoscibili il lavoro principale da fare è cambiare prospettiva, mentalità, comportamento.  Cioè tutto sembra ricondursi alla supposta esigenza che il singolo cittadino avrebbe di cambiare il proprio modo di vedere la disabilità.

Ciò però, a parte l’urtante tono ‘pedagogico’, presenta alcuni aspetti di problematicità che appaiono a noi evidenti laddove si consideri che gli autori di questa domanda non sono i soggetti rappresentati nelle foto, ma il Comune, l’Ausl etc., che con questa domanda hanno pensato di centrare quello che a loro avviso è l’elemento oggi più problematico in tema di disabilità. Quando almeno per noi  i reali elementi di problematicità purtroppo sono proprio in ciò che pensano, progettano e soprattutto fanno, disfanno o non fanno, proprio gli autori di questa infelicissima domanda.

Prendiamo ad esempio ciò che deriva dallo sdoppiamento del sostegno scolastico fra docente ed assistente educativo, che dietro al falso paravento della distinzione fra formazione ed assistenza, cela in contemporanea sia il taglio degli organici dei docenti che la precarizzazione degli assistenti: il tutto al fine di risparmiare sulle spalle dei disabili.

Pensiamo alla sostanziale rinuncia dell’Ausl e delle altre istituzioni a gestire in prima persona le varie Residenze affidandole al privato sociale d’area laddove: 1. spesso il tempo passa senza progetto, né senso, creando focolai d’infelicità fra i pazienti; 2. generazioni di operatori sono impediti ad agire autonomamente dalla loro condizione di precari; e 3. nugoli di manager, che hanno ricevuto l’appalto, curano i rapporti col politico di turno.

Pensiamo infine al sostanziale disarmo del territorio, da lungo tempo ormai sguarnito: -delle equipe pubbliche poli-professionali che ai nostri tempi lo ‘abitavano’; -del loro rapporto con le famiglie da una parte, e con scuola e prescuola dall’altra; -della continua opera di aggiornamento e di formazione in itinere che le contraddistingueva.

E non è vero – come a volte vogliono farci credere – che amministratori e dirigenti non possono far nulla a livello locale di fronte a leggi e decreti siglati in alto loco, poiché c’è stato un tempo in cui, come dimostra proprio la storia della Legge 180, erano le conquiste che avvenivano in sede locale che facevano da battistrada alle riforme. Oggi la loro pusillanimità, così come quest’ultimo tentativo di scaricare sui singoli cittadini l’onere del cambiamento di “prospettiva, mentalità, comportamento” in tema di disabilità, coprono solo la loro sostanziale connivenza con questo nuovo andazzo.

 

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