Dalla Bolognina a Bonaccini: l’abbandono del “modello emiliano”

apparso il 29.12.22 su ‘Volere la luna’

epa08161042 Emillia-Romagna Region Governor, and candidate Stefano Bonaccini speaks during the final rally of the centre-left election campaign in view of the regional elections that will take place on Sunday, in Forlì, Italy, 24 January 2020. EPA/ELISABETTA BARACCHI

di Leonardo (Dino) Angelini

 

Il processo di fusione a freddo fra ex-democristiani ed ex-comunisti che ha portato alla nascita del PD – processo che secondo i suoi fondatori doveva portare alla nascita di una sinistra moderna e moderata – va sempre più assumendo fattezze centriste e anima democristiana. Solitamente però fra le ragioni che hanno condotto a questo viraggio verso il bianco viene colta la propensione dei politici exdiccì ad assumere cautamente, ma sempre più pervasivamente, il bastone di comando nel partito, e soprattutto nelle istituzioni. E a contaminarsi con i mondi sommersi della finanza, delle massonerie e delle mafie.

Mentre le ragioni della marginalizzazione a tutti i livelli degli ex-comunisti rimangono in second’ordine. Se ne colgono gli effetti, che in epoca renziana arrivano fino alla espulsione dal partito, ma si rinuncia ad analizzare le ragioni interne che li hanno condotti a questa resa. La contemporanea discesa in campo di due esponenti del PD emiliano-romagnolo – di quello cioè che fu un luogo topico della tradizione comunista italiana – ci invita a riflettere su alcune di queste ragioni.

All’inizio fu la svolta della Bolognina che con gran clamore buttò via l’acqua sporca dei rapporti con l’URSS, e nel più assoluto silenzio si liberò del bambino, rinunciando a proseguire nella sperimentazione di quell’originale modello socialdemocratico costruito che proprio nelle regioni rosse il PCI aveva faticosamente costruito a partire dal dopoguerra, per aderire sempre più apertamente a una opzione neoliberista, non molto diversa nei fatti da quella predicata e attuata poi anche dai governi di destra. La Bolognina, in questo modo, appare come in frutto di una vera e propria cecità elettiva che impedì alla direzione nazionale del PCI di cogliere il significato di ciò che pure nei propri luoghi del governo locale andava da tempo già sperimentando come socialdemocrazia realizzata, potremmo dire. E il fatto che Occhetto abbia scelto proprio Bologna, che di quell’esperienza era stata il fulcro fin dall’immediato dopoguerra, mi pare paradigmatico.

Certo, i gruppi dirigenti PCI delle regioni rosse non fecero mai gran che per segnalare al “centro” lo spessore di quell’esperienza. Non lo fecero nel primo dopoguerra, allorché tutto lo sforzo per la ricostruzione e in difesa dei ceti sociali indigenti avvenne nei fatti attraverso l’attuazione di politiche di deficit spending, in continua lotta con i prefetti, che su indicazioni del Governo centrale imponevano il pareggio del bilancio. Non lo fecero neanche dopo, allorché l’istituzione delle regioni favorì nelle regioni rosse la nascita del welfare dei servizi, contrapposto al democristiano e clientelare welfare dei sussidi. Ma le vere ragioni della adialetticità della virata occhettiana non sono in questa mancata segnalazione. A ben vedere già da tempo – almeno dal 1976, secondo le analisi degli eredi di Federico Caffè – il PCI nazionale si era mostrato sensibile ai “vincoli esterni” artatamente imposti dagli economisti più sensibili alle teorie economiche più moderate; muto di fronte a quel “divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro” voluto dai padri del neo-liberismo italiano in salsa diccì (Carli, Andreatta, Prodi etc.); e acquiescente di fronte a quel complesso di politiche neoliberiste che ben presto porteranno all’esplosione dell’indebitamento, alla conseguente dipendenza dai ricatti del potere finanziario, alla svendita dell’industria pubblica, ed infine all’ingresso a mani legate nell’euro. E non è un caso che, dopo l’infelice scontro che vide opposti Occhetto e Berlusconi, nessuno all’interno del PDS mostrò di avere un progetto autonomo per l’Italia e si ricorse a un “papa straniero”, Prodi, che in questo modo fu libero di intraprendere risolutamente la strada del neoliberismo.

Ora però, nel momento in cui finalmente gli amministratori emiliani si dimostrano capaci di guidare il PD nazionale, non ci si può soffermare sulle ragioni contingenti della mancata valorizzazione occhettiana dell’esperienza emiliano-romagnola. Che vanno cercate all’interno di una storia che comincia nell’immediato dopoguerra, e che sembra concludersi solo oggi, dopo che quell’infante, sopravvissuto all’infanticidio occhettiano, sembra definitivamente morto. È questa storia che nelle righe che seguono ci proponiamo di abbozzare.

Fin dal primo dopoguerra il processo di trasformazione della realtà emiliana, pur essendo fortemente influenzato da ciò che avviene a livello nazionale, presenta elementi di specificità che sono alla base di quello che poi sarà chiamato il “modello emiliano”. Che non è un monolito rimasto sempre uguale a se stesso, ma un’entità duttile che, nel bene e nel male, ha saputo innovarsi, in base a una serie di spinte e controspinte caratterizzate sempre dalla estrema velocità con cui si sono modificate nel tempo.

Si parte dall’alleanza fra classe operaia e ceti medi – che, non dimentichiamolo, all’inizio erano i contadini – teorizzata da Togliatti ed applicata a livello locale a partire da una capillare presenza del nuovo partito di massa in ogni angolo della società. Ma già verso la fine degli anni ’50 siamo di fronte a una prima grossa trasformazione della realtà regionale che già non è più contadina, ma industriale; che non ha più alla propria base la famiglia allargata, ma quella nucleare, inurbata nelle nuove periferie urbane che sconvolgono il volto delle città e impongono agli amministratori locali comunisti un insieme di ripensamenti. Si esce da quella controsocietà in cui i militanti, la base, le cooperative e gli sparuti intellettuali organici si erano arroccati a partire dal ’47. E, grazie anche alle possibilità offerte dal primo centrosinistra (le Regioni!), si comincia a progettare quel welfare dei servizi che, attraverso la creazione di “salario indiretto”, permetterà all’Emilia e Romagna di essere più protetta rispetto alle altre realtà industriali del Nord. A guidare questo periodo non ci sono più i vecchi quadri comunisti protagonisti delle lotte clandestine durante il ventennio, ma dirigenti più giovani, figli della Resistenza e delle lotte difensive degli anni ’50. Che ben presto, soprattutto nella loro componente femminile, si mostrano capaci di dialogare con i giovanissimi del ’68 destinati a riempire di contenuti progressisti i comparti del welfare emiliano.

Una ulteriore rapidissima trasformazione avverrà a partire dagli anni ’70: da una parte il decentramento produttivo che, insieme all’automazione, trasforma alla radice la composizione di classe dei lavoratori. E comincia a erodere le fondamenta del blocco sociale che il PCI aveva saputo aggregare qui fin dal primo dopoguerra. Dall’altra, a livello centrale, il PCI, pur propiziando l’insieme delle riforme del centrosinistra destinate a trasformare sia il mondo del lavoro che la società, si mostra incapace, come dicevamo prima, di contrastare la nascita della svolta neoliberista. E, come diceva Barbera nel 1982, «abbandona le battaglie degli anni precedenti e preferisce rivendicare risorse finanziarie da un centro sempre più condizionato da politiche anticongiunturali anziché rivendicare l’assunzione di responsabilità autonome; e nel vuoto cadeva il monito di chi si ostinava a ripetere, soprattutto a sinistra, che non si sono mai conosciute in Occidente forme di democrazia locale che non fossero legate al prelievo di risorse tributarie».

Questa rinuncia alla battaglia per una democrazia locale legata alla municipalizzazione delle risorse tributarie, combinata a quella altrettanto grave del “divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro”, risulterà esiziale poiché favorirà in tutto il Nord quelle pulsioni egoiste e separatiste fra gli operai e i lavoratori autonomi sulle quali poi pascolerà la Lega. È in questo momento che si assiste a un ulteriore cambio della classe dirigente del PCI, che ora s’incammina lungo la strada che condurrà al PD: accantonati i dirigenti e “le dirigenti” dei decenni precedenti, i nuovi politici e i nuovi amministratori spesso si limitano a gestire l’esistente, e per questa strada si apparentano con i loro compagni di partito che a livello centrale sostanzialmente si arrabattano per rendere compatibili le loro posizioni con quelle della sinistra ex-DC.

Tutto ciò poi sfocia nel progetto prodiano volto alla precarizzazione del lavoro (Treu), al varo del welfare mix con relative aziendalizzazioni, tikettazioni, privatizzazioni dei servizi e dei beni comuni, ingresso acritico nell’Europa delle banche. Cose che, combinate con il varo di leggi elettorali antidemocratiche a tutti i livelli (a partire dalla Bassanini), rendono i governi centrali e le amministrazioni locali luoghi privilegiati di abbandono di ogni logica redistributiva; di smistamento delle risorse dal pubblico al privato; di trasformazione del welfare da servizio in affare. Se a questo si aggiungono i poderosi processi di delocalizzazione e finanziarizzazione dell’economia si comprende la natura dello sconquasso che tutto ciò comporta sul piano della composizione sociale. Laddove si va sempre più aggregando un nuovo blocco sociale, che con tutta evidenza sorge quasi in opposizione al vecchio blocco.

Ciò che rimane in Emilia e Romagna della vecchia tradizione comunista in quest’ultima fase è la propensione ad essere sempre i più solerti e conseguenti applicatori degli input che vengono dal centro: solo che ora tutto lo sforzo construens che fu delle prime fasi di questa storia si è trasformato in una linea destruens volta a rovesciare tenacemente ogni cosa precedentemente costruita.

Pare un segno dei tempi il fatto che ora la ex-Emilia rossa, mondata di ogni legame con la propria remota tradizione, possa finalmente aspirare con Bonaccini alla guida della politica nazionale del PD.

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