la campagna che si stende fra Locorotondo e Martina Franca

(da: Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, Bompiani, 2010, pp. 63\64)

C’è un luogo in Puglia non così famoso quanto Alberobello, ma in quei paraggi, e forse più esotico, la campagna che si stende fra Locorotondo e Martina Franca. Ancora intatta, gremita, quasi un albero piegato di frutti, sfoggia le insegne d’una maternità inesauribile, come il simulacro di Diana d’Efeso, o il ventre di una cagna che allatta. È selvaggio scoppio, da un sotterraneo sangue grumoso, quasi di foruncoli di crescenza, ma come gemme di alberi che stanno per diventare foglie e rami: e qui è la terra che fa tutto da sé, miracolosamente androgina e materna, emette gemme, poppe, latte e sangue. Di sangue sembrano intrise le zolle quasi paonazze, come in Provenza, e latte denso, bianchissimo, accecante, s’accaglia sulle cime delle cupolette puntute dei trulli; mentre il verde più acidulo e accanito delle viti, e quello denso, da tagliarsi a fette, come un sanguinaccio nero, dei carrubi, o la giada opaca dei fichi, sbucano ovunque, a rinzaffo, a contrasto, quasi a sterminio dei trulli.

Così quelle che sono linde colture, una campagna che è come tante aiuole cerchiate di muretti, curata quanto le unghie di una signora, di primo acchito può parere in preda a una eccitazione sfrenata, come nei boschi cedui, quando riscoppiano dalle ceppaie i polloni. E s’accentua il carattere propiziatorio e materno di quelle case che puntano al cielo come mazze di asparagi, anatomia della terra più che fattura dell’uomo. Tutta naturalità, questa campagna: ed è pianificata come una città, modellata come una statua, dipinta come un quadro.

La modificazione che qui subiscono i trulli, rispetto ad Alberobello, attesta il naturale evolversi, congruo modellarsi sull’uso vivo, di una civiltà che non si sostituisce e si intrude violentemente come quella del cemento armato. Il trullo, da capanna neolitica, diviene cupola, come è insegnato nel suo nome greco, e, conservando la straordinaria forma di un mezzo fuso enfio di lana, spunta sui tetti delle case massicce. Codeste, dunque, hanno mura di enorme spessore, a contrafforte, inclinate come tende da campo, e sopra reggono più trulli che cupole San Marco a Venezia o Santa Giustina a Padova. Trulli, fusi, birilli, trottole, campanelli, come li volete, accostati, e l’uno arrota l’altro; dritti in piedi come l’uovo di Colombo. Conservano il colore di argento brunito che prendono le chianche o lastre di sasso, esposte al sole e alla pioggia, e il bianco della muratura, di sotto, sempre più pare latte, panna: o calce ancora viva, che scotta toccarla.

Così nessuna campagna è più festosa di questa, che è come un girotondo di bimbi, l’illustrazione benevola d’una fiaba, il pianeta d’un’età privilegiata innocente. Ma è pure come uno scampanio silenzioso che fa echeggiare, nel più riposto del cuore, ricordi sopiti e subitanei, di mattini lieti e di scampagnate festive, d’un’età perduta che sembra di ritrovare come un vestito in fondo a un cassetto, o un fiore dentro un libro. Infanzia nostra e della terra, infanzia accesa di luce e d’aria viva, come una corsa, con i polmoni che ingoiano tutto, anche il verde, l’azzurro, i pampani e le carrube.

Tanto, e niente di meno, ci dona questa campagna.

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