Una risata ci seppellirà

di Alessandro Portelli, dal Manifesto del 9 Maggio 2009, pag. 1

L’ultima volta che sono stato in metropolitana a Milano i po­sti erano tutti occupati – an­che se non so da chi e se con adegua­to diritto di sangue – per cui sono sta­to in piedi. Se non altro, tenendomi agli appositi sostegni, non ho dato oc­casione a nessun padano di prender­sela anche per questo con Roma ladrona. Almeno su questo, ho la co­scienza a posto, adesso che, nella «ca­pitale morale» del paese, il capogrup­po in consiglio comunale di un parti­to di governo – non il primo che pas­sa, insomma – se ne esce dicendo che bisogna riservare ai nativi un congruo numero di posti a sedere. E nessuno lo caccia fuori a calci.

La domanda politica principale in questi giorni è la seguente: «Ci sono, o ci fanno?» Diceva Carlo Marx che la storia avviene in tragedia e si ripete in farsa. Se fosse così, non avrebbe sen­so disturbare il fantasma di Rosa Parks, la signora afroamericana che consapevolmente decise di sfidare le leggi razziali dell’Alabama rifiutando di cedere il posto a un bianco. E anco­ra meno ne avrebbe evocare la memo­ria delle leggi razziali come hanno fat­to Franceschini e Amos Luzzatto. In fondo, diciamo, quella del dirigente le­ghista milanese è solo una delle solite boutade, lo sa anche lui che non è de­stinata a essere messa in pratica.
Il problema però è che- come sape­va benissimo William Shakespeare -tragedia e farsa invece sono insepara­bili e si specchiano fra loro. La trage­dia può scadere in farsa, ma la farsa prepara la tragedia. E a forza di dire che le sparate dei leghisti, del loro lea­der Bossi e del loro guru Gentilini (e del loro compare Berlusconi) sono folklore, colore locale, spiritosaggini che non vanno prese sul serio, intan­to non ci accorgiamo che queste buf-fonate stanno diventando realtà in spazi assai più vasti e cruciali dei vago­ni milanesi: è l’intera Italia che si tra­sforma in territorio segregato, con scuole e ospedali riservate agli indige­ni, e galera per chi ne varca gli inviola­bili confini. Le schifezze folkloristiche locali si allargano e diventano politi­che governative nazionali: Gentilini propone di prendere a fucilate gli im­migrati come leprotti a Treviso, e tutti ridono; il suo capopartito Calderoli propone di prendere a cannonate le barche dei migranti senza permesso nell’Adriatico, e ci cominciamo a preoccupare; il loro ministro Maroni la­scia le barche alla deriva, rispedisce i migranti al mittente e se ne vanta, e la gente comincia a morire. La farsa mi­lanese si fa tragedia nei campi di con­centramento dei migranti in Libia, nei suicidi nei centri di detenzione ed espulsione in Italia. Non «ci fanno»; ci sono, e fanno finta di non esserci.
II nostro paese è dominato della ter­ribile serietà del poco serio. Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l’assessora trentina, che dice ai terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche bar­zellette sui campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è spiritoso, ma soprattut­to perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce la correttezza politica nella nuova Italia: sono il linguaggio che da forma alla pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e la morte. E’ tutto uno scher­zo, è tutta una farsa – che si porta via con un ghigno le cose poco serie co­me i soldi della ricostruzione in Abruz­zo, le politiche per la crisi, i morti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i sala-ri, la dignità delle donne e dei migran­ti, la bambina ammazzata dai nostri ragazzi in Afghanistan, e altre pinzil-lacchere. Forse «ci fanno» e non «ci so­no» solo perché in questa commedia sta tutto il loro esserci. Dicevamo «una risata vi seppellirà». Avevamo torto. La risata sta seppellendo noi.

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