Tre desideri per domenica e dopo

(anche su segnalazione di Carmen Marini!)

di Ida Dominijanni, da Il Manifesto on line

Secondo me, noi donne non usciamo umiliate e offese dal Berlusconi-gate. Per la buona ragione che senza la parola disvelante di alcune donne che nel sistema berlusconiano erano incappate, e senza il lavoro tenace di molte altre, il caso non sarebbe nemmeno scoppiato. Non penso solo alle prime che hanno spalancato il sipario sul «regime sessuale» del premier, tradendo il patto di lealtà – politica, Sofia Ventura; coniugale, Veronica Lario; sessuale, Patrizia D’Addario – con lui. Penso alle opinioniste che hanno rilanciato la loro parola, alle giornaliste che hanno indagato, alle magistrate che non si sono piegate e non si piegano ai suoi diktat.

Penso soprattutto alle molte e incalcolabili donne che nelle case, nelle scuole, nelle università, nelle radio, nelle televisioni, nei siti-web, nei luoghi di lavoro hanno aperto spazi di consapevolezza e di discussione, a fronte di una classe politica che nella sua larghissima maggioranza, a destra e a sinistra, ha derubricato il caso a fatto minore, gossip, cosa privata e materia non politica fino al momento in cui non ha assunto una rilevanza penale. Mi tocca ricordarlo a Anna Finocchiaro, che oggi scommette che «saremo noi donne a mandare Berlusconi a casa» con la manifestazione del 13, dimenticando che proprio le donne del Pd, salvo un paio di eccezioni, sul Berlusconi-gate sono state assai prudenti, perfino diffidenti, fino a quando la verità dei fatti era testimoniata non da pagine di intercettazioni ma solo da alcune donne. Forse perché quelle donne non erano né di sinistra, né abbastanza perbene (c’era una escort dichiarata e madre single, non questa sfilza di arcorine in bilico fra la prostituzione e le bonne marriage), e non rappresentavano la dignità della nazione? E vorrei ricordarlo anche alle promotrici e sponsor della manifestazione, perché la retorica dell’uscita dal silenzio non cancella solo i guadagni del femminismo, come ha scritto ieri Lia Cigarini su questo giornale, ma anche l’impegno specifico femminile su questo caso, e produce perfino alcune bizzarrissime autocancellazioni: a Serena Dandini per esempio, che saluta nella manifestazione del 13 il ritorno della voce femminile, vorrei dire con un sorriso che senza la sua voce, la sua ironia e la sua parodia quotidiana questi due anni sarebbero stati, credo per tutte, più pesanti di quanto non siano già stati.
C’è adesso un bisogno di voce, autoriconoscimento ed esposizione collettivi che esplode ed è benvenuto, che si va nutrendo di una discussione civile e ricca quant’altre mai nell’Italia del perenne talk-show, e che esprime una polifonia di intenzioni e una eccedenza di soggettività certamente irriducibili a uno slogan, a un cartello o alla chiave magica della visibilità. Consegno a questa polifonia tre desideri, per la giornata del 13 e per quelle che verranno.
Mi piacerebbe in primo luogo che si parlasse meno di corpo e più di parola femminile. Lo sappiamo: siamo immerse in una industria culturale – occidentale, non solo italiana – che mercifica i corpi, soprattutto femminili, per erotizzare le merci, di consumo e di intrattenimento. Sappiamo pure che le tv berlusconiane hanno fatto di questo modello il loro verbo, senza peraltro incontrare alcuna resistenza né nella tv pubblica né nella stampa d’opposizione, come s’è visto dall’insistenza con cui il fronte antiberlusconiano ha continuato a sbattere in tv e sui giornali i corpi delle arcorine invece di spostare l’obiettivo su quello disfatto del sultano. Ma sappiamo anche che non è per questo, o primariamente per questo, che la parola e il pensiero femminile faticano a trovare corso e riconoscimento nella sfera pubblica, politica e culturale, italiana. Proviamo a chiederci: ne troverebbero di più, se l’immagine del corpo femminile fosse più pudìca, più composta, più severa? Ne dubito assai. E’ il caso allora di ricordare a tutti, libertini di destra e moralizzatori di sinistra, che il corpo di cui il femminismo rivendicò la riappropriazione negli anni ’70 è un corpo-mente: fisicità e parola, sessualità e pensiero, insieme, prendere o lasciare.
In secondo luogo, mi piacerebbe sentir parlare più di sessualità e inconscio, e meno di diritti e parità. Non vedo il nesso che altre stabiliscono fra degrado sessuale maschile e regressione sociale femminile. E non solo perché non condivido la tesi, davvero da discutere, per cui, cifre alla mano, sul piano sociale noi donne (altro è il discorso che riguarda il declino dell’intero paese) staremmo sempre peggio: qualcuna che ricordi l’Italia pre-femminista potrebbe onestamente sostenerlo? Ma perché, se è sempre stato vero che la sintassi dei diritti non collima con il linguaggio della sessualità, tanto più è vero oggi che il sistema berlusconiano ci mette davanti a un potere maschile che prescinde del tutto dal piano della legalità formale e si avvale di dispositivi che investono direttamente il corpo, il sesso, l’immaginario, l’inconscio. E’ quella che Judith Butler chiama «la vita psichica del potere», che non si contrasta a suon di regole. Anche qui va rovesciata la domanda: forse che le notti di Arcore non ci sarebbero state in un regime di maggiore parità formale fra uomini e donne, o forse che la corruzione della rappresentanza stile Minetti sarebbe stata fermata da una bella legge sulle quote rosa? D’altra parte, in tanto rumore massmediatico sul sesso, paradossalmente (ma non troppo) è proprio il sesso, o meglio la sessualità, il grande assente dalla scena e dal discorso. Dalla scena del sultanato, dove una performance compulsiva del godimento surroga il fantasma dell’impotenza e l’assenza del desiderio. Ma anche dal discorso antagonista di molte giovani, dalle quali capita di sentir parlare del sesso solo come di un dispositivo di assoggettamento al biopotere e al biocapitalismo. C’è ancora, e dov’è finita, la sessualità come luogo di emergenza del desiderio e della soggettività?
Vorrei infine sentir parlare di libertà femminile più che di dignità della nazione, e di relazione fra i sessi piuttosto che di «uomini amici delle donne». Il rapporto reciproco che uno degli «slogan consigliati» per il 13 stabilisce fra dignità delle donne e dignità della nazione io non lo vedo, e se è certo che la dignità della nazione trarrà vantaggio, se non altro sui giornali stranieri, dalla manifestazione, è altrettanto certo che dignità e libertà femminile si sono affermate da sempre non dentro e con, ma dentro e contro le vicende, oggi e non solo oggi alquanto indegne, della nazione, e in un movimento ben più largo dei suoi confini. Tanto meno mi sembrano credibili quegli uomini, perlopiù di ceto politico, che hanno promesso di scendere in piazza a presidio della dignità delle «loro» donne, un lapsus neopatriarcale neanche tanto sottile (per un commento, Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi, donnealtri.it). Amici per davvero, io sento solo quelli che hanno approfittato delle note vicende non per tutelare noi ma per scoprire e dire qualcosa di sé. E per fortuna, via via ne abbiamo trovati tanti.

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