Il Governo Renzi ed il “Job Act”.

A cura del Coordinamento Emiliano Romagnolo dei comitati locali della “Lista Tsipras – L’altra Europa”.

*   *   *

L’azione del Governo sulla fondamentale materia costituita dalla regolamentazione del mercato del lavoro, da un lato, e della disciplina dei rapporti di lavoro dall’altro, merita un severo giudizio negativo sia per i contenuti delle proposte realizzate o in via di realizzazione sistematicamente riduttive o addirittura distruttive dei diritti dei lavoratori, sia anche per il metodo con cui è stato, e dovrebbe essere, nelle intenzioni, ulteriormente realizzato l’intervento “riformatore”. Metodo caratterizzato da uno spiccato autoritarismo, e dalla concreta esclusione di ogni dibattito democratico sia in sede politica che sindacale, con affidamento, invece delle nuove , gravissime regolamentazioni, a tecnici ed esperti governativi facilmente indentificabili in realtà con esponenti politici di centro-destra o riconducibili ad organizzazioni datoriali.

Gli strumenti che il Governo ha usato (per il cd. “Job Act I”) o si appresta ad usare (per il cd. “Job Act II”) sono quelli ormai classici di svuotamento della democrazia parlamentare: il decreto-legge, da convertire poi in legge sotto il ricatto del voto di fiducia e la legge delega generica o “in bianco” per attribuire al Governo e ai suoi “esperti” un potere in concreto sconfinato e non più controllabile nei suoi esiti una volta emanati i decreti delegati, dai parlamentari eletti. In tal modo, per portare un esempio estremo, ma tutt’altro che irrealistico, il Governo potrebbe anche abolire lo Statuto dei Lavoratori, senza che nessun parlamentare abbia potuto dire in merito una sola parola, per essere quella pur fondamentale materia comunque ricompresa nella vastissima delega “in bianco”.

Occorre, però, ora giustificare con precisione, seppur in modo sintetico, la recisa opposizione all’operato e alle proposte del Governo in tema di lavoro e, dunque, esaminare criticamente sia il cd. “Job Act I”, già realizzato (con legge n. 78/2014), sia il cd. “Job Act II”, che, allo stato, è rappresentato dal disegno di legge delega n. 1428, comunicato alla Presidenza del Senato in data 3 aprile 2014. E’ del pari corretto non limitarsi alla critica ma avanzare, sui singoli temi, controproposte, sia di merito che di metodo.

*   *   *

Critiche e proposte sul “Job Act I°”

Per “Job Act I” si intende il D.L. 20 marzo 2014 n. 34, poi convertito in legge 16 maggio 2014 n. 78, che con un vero e proprio colpo di mano, ha, da un lato ridisciplinato, banalizzandolo, il contratto di apprendistato, e dall’altro stravolto la disciplina del contratto di lavoro a termine (“diretto” e anche di quello “indiretto” rappresentato dal contratto di lavoro somministrato) rendendo in concreto perenne il precariato, con ulteriore potente e malvagio impulso alla sua diffusione, perchè il contratto a termine è stato con quella legge coscientemente trasformato in un’arma di inesauribile ricatto verso il lavoratore.

Il nucleo – semplicissimo – e razionale della disciplina del contratto a termine è sempre stato costituito dalla sua relazione strutturale con una esigenza lavorativa caratterizzata da temporaneità: se esiste una esigenza lavorativa temporanea (sono circa il 14% delle occasioni di lavoro) è legittimo e razionale apporre al contratto di lavoro un termine di scadenza automatico anche se il lavoratore viene adibito ad una lavorazione continuativa. Si parla per questo, di contratti a termine “acausali” appunto perchè non fanno più riferimento ad alcuna ragione o causale (temporanea). Ma così è legittimata l’ingiustizia ed il ricatto è reso stabile e generale per il precariato.

Questa gravissima conseguenza non è impedita dai limiti che la legge prevede per l’uso del contratto a termine sotto il profilo della durata totale e della percentuale massima di lavoratori a termine nella singola impresa. E’ vero, infatti che il lavoro a termine di un lavoratore presso una stessa impresa non può superare il triennio e che se lo supera il rapporto si stabilizza ma anche questo torna in danno del lavoratore perchè una volta arrivati in prossimità del triennio, il datore di lavoro semplicemente non rinnoverà più il contratto a termine, ed assumerà un altro precario, mentre il precedente dovrà trovarsi altra occupazione, parimenti precaria.

Quanto al limite percentuale del 20% massimo di occupati a termine nella singola impresa, si tratti di un limite illusorio perchè difficilmente misurabile in concreto perchè non comprendente i rapporti di lavoro somministrato (contratto a termine “indiretto”), e perchè non adeguatamente sanzionato, visto che la legge 78/2014 prevede, in caso di superamento del limite, solo una sanzione pecuniaria contravvenzionale e non la trasformazione del contratto.

Va, però, osservato, e dichiarato con tutta l’evidenza possibile che non tutto è perduto in materia di precariato e che il crimine sociale perpetrato dal Governo Renzi può ancora essere sventato in quanto:

1) i contratti a termine e di lavoro somministrato, regolati dalla vecchia legge (e quindi impugnabile per insussistenza di causale) sono ancora in corso di esecuzione, e potranno essere impugnati fino a 120 giorni dopo la loro scadenza. Le statistiche giudiziarie dicono che oltre l’80% dei contratti a termine impugnati sono stati giudicati illegittimi e quindi trasformati a tempo indeterminato.

In sintesi, esistono in Italia circa un milione di lavoratori precari che hanno una ultima occasione di ottenere la stabilizzazione a tempo indeterminato prima che gli attuali contratti siano sostituiti da quelli “acausali” introdotti da “Job Act I” (Legge Poletti).

E’ in corso, in proposito, una congiura del silenzio che occorre rompere e sventare, avvertendo tutti gli attuali precari della concretissima ultima possibilità che viene loro offerta.

2) I nuovi contratti “acasuali” sono di assai dubbia legittimità perchè contrari alla normativa europea, e precisamente alla Direttiva CE n. 70/1999, che chiaramente configura il contratto a termine come contratto “causale”, fondato su ragioni obiettive, e che inoltre contiene una clausola di “non regresso” rispetto alle disposizioni contenute in (precedenti) leggi nazionali di recepimento della Direttiva: nel caso dell’Italia si tratta della Legge 368/2001 che adottava in pieno il criterio “causale” richiedendo la specificazione, nel testo stesso del contratto, della esigenza lavorativa temporanea.

Questa illegittimità del “Job Act I” sui contratti a termine acausali può essere fatta valere davanti a tutti i Tribunali di lavoro del nostro Paese, i quali potranno direttamente disapplicarlo secondo l’opinione maggioritaria o comunque quanto meno rinviare la questione alla Corte Europea di Lussemburgo in sede cd. “accertamento pregiudiziale”.

Anche indipendentemente dalla difformità rispetto alla Direzione Europa, sussiste, comunque, una illegittimità del “Job Act I”. Rispetto ai dettami costituzionali in tema di tutela del lavoro e al principio di ragionevolezza, essendo irrazionale che nel nostro ordinamento, da un lato venga proclamato che il contratto a tempo indeterminato è la forma “normale” di contratto di lavoro e dall’altro incentivato il ricorso, quale forma pressochè esclusiva di assunzione al contratto a termine “acausale”.

Se le descritte misure di “resistenza” verranno attuate con sufficiente impegno, sarà del tutto possibile porre rimedio alla profonda ingiustizia posta in essere dal Governo Renzi con il “Job Act I”.

*   *   *

Critiche e proposte sul “Job Act II” (ancora allo stato di progetto).

La lettura del disegno di legge – delega n. 1428 (“Job Act II) è quanto mai inquietante, sia per quello che prevede su alcune fondamentali materie (es: misure per l’occupazione e, soprattutto, tipologia e disciplina dei contratti di lavoro).

Invero, come già accennato, la genericità della legge delegante costituisce un annoso problema, imperniato sull’interpretazione, restrittiva o lassista, da dare alla fissazione, da parte della legge delegante di quei “principi e criteri direttivi” previsti dall’art. 76 Cost. come “guide – linee” cui il Governo deve attenersi nella elaborazione dei decreti – delegati. Si è sempre sottolineato che sottoponendo alle Camere un progetto di legge delega con Principi e criteri direttivi del tutto vaghi, ed ottenendone l’approvazione, il Governo usurpa in realtà la funzione legislativa spettante al Parlamento, ma, a nostro avviso, con questo progetto del “Job Act II” si è giunti all’estremo, a proposito, soprattutto della decisiva materia della tipologia dei rapporti di lavoro e della loro disciplina, come si dirà tra breve affrontando lo specifico argomento.

Non meraviglia, dunque, che il “Job Act II”, propagandato come una riforma globale, consti in tutto di 6 articoli, proprio perchè esso aspira ad essere una sorta di “delega in bianco” e, pertanto, specie sui punti davvero importanti, laconica e reticente al massimo. Quei sei articolo possono, dunque, essere passati in rassegna:

Art. 1 (Delega in materia di ammortizzatori sociali).

La previsione è articolata in due parti, dedicata rispettivamente, lett. a), agli ammortizzatori “conservativi” ovvero di tutela in costanza di rapporto di lavoro (integrazione salariale) e b) di sostegno in caso di disoccupazione involontaria.

E’ evidentissimo, sul primo argomento, il pesante regresso addirittura rispetto alle già criticatissime previsioni della Legge Fornero (Legge 92/2012), perchè viene apertamente abolita, la CIG per chiusura aziendale ma soprattutto appare implicitamente abolita la Cassa integrazione “in deroga” (art. 7 ter legge 33/2009) , che in questi difficili anni di crisi ha impedito la lacerazione del tessuto sociale. Di essa, infatti, non si parla più, essendo solo prevista (con classica “delega in bianco”) la “revisione dell’ambito di applicazione della CIGO e della CIGS e dei Fondi di Solidarietà di cui all’art. 3 Legge 28 Giugno 2012 n. 92.

Della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO) e di quella Straordinaria (CIGS) è prevista, appunto la revisione sia dei limiti di durata sia dell’ambito di applicazione ma non è assolutamente detto in quale senso, se restrittivo o ampliativo. Sembra impossibile, ma i parlamentari che voteranno la legge delega (magari perchè costretti da una questione di fiducia) non sapranno se stanno votando per allungare o, al contrario, per accorciare la durata della Cassa Integrazione, per estendere l’ambito di applicazione alle piccole imprese manifatturiera e alle aziende commerciali, o per limitarla ancor più severamente alle sole imprese industriali.

Che in linea generale l’orientamento sia restrittivo emerge dalla espressa necessità di regolare l’accesso alla Cassa Integrazione Guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, come trasformazioni a “part-time”, sospensione concordate con utilizzo di “banca – ore”.

Quanto al secondo argomento, ossia al trattamento di disoccupazione involontaria, il dato centrale è la conferma della abolizione, già programmata dalla Legge Fornero (n. 92/2012) a datare dal 1.01.2017 della indennità di mobilità, il più importante certamente degli ammortizzatori sociali predisposti dalla legislazione attuale per gli esuberi del settore industriale e manifatturiero.

Nelle crisi di ristrutturazione e riorganizzazione di imprese industriali i lavoratori potevano contare su un sistema di “ammortizzazione” sicuramente generoso e strutturato: fino a 3 anni di CIGS, seguiti eventualmente da due o tre anni (a seconda dell’età) di indennità di mobilità con adeguati incentivi di ricollocamento. Tutto lascia supporre una drastica riduzione perchè la indennità di mobilità sarà sostituita dalla generica e “normale” ASpI, con durata tipica di soli 12 mesi (di cui i secondi 6 ad importo decurtato) mentre, eventualmente preceduta da una ridimensionata CIG.

L’ASpI, come si sa, altro non è che l’odierna indennità ordinaria di disoccupazione, per così dire “ribattezzata” e leggermente migliorata nella durata.

Ma anche su questo istituto la legge-delega sembra voler tornare, nel senso di modulare la durata in proporzione della anzianità precedente di lavoro e contribuzione. Si tratta di una logico per così dire “assicurativa” del tutto inadeguata ed erronea, per non dire aberrante, giacchè di fronte alla perdita del lavoro e al dramma esistenziale che ne consegue, si tratta di sovvenire a bisogni fondamentali delle persone e non di premiare la lunghezza di una precedente contribuzione.

In definitiva le novità che si annunziano sono solo negative, oppure avvolte nell’indeterminatezza e quindi rimesse ad un futuro arbitrio governativo, anche se da parte governativa si sente propagandare un asserito carattere universale delle nuove discipline di tutela, (molto) meno generose proprio perchè universali. Di tale “universalismo” non vi è però alcuna affermazione espressa nel testo della proposta di legge delega.

In realtà, secondo il nostro giudizio l’universalismo delle tutele con riguardo al sistema degli ammortizzatori è principio da introdurre, essendo invece oggi iperniate essenzialmente sul settore manifatturiero, lasciando scoperti, o quasi, gli altri settori economici. Senza cadere però nell’errore opposto di porre al centro del sistema la indennità di disoccupazione (ASpI) di importo e durata modesti, ma uguale per tutti e presupponente però la perdita del lavoro per crisi o cessazione della ditta datrice di lavoro, abbandonata a sé stessa in malthusiana visuale neo-liberista.

Bisogna, cioè, comprendere che in certi settori (soprattutto manifatturiero di medio-grande dimensioni) è importante, per evitare la “desertificazione” produttiva, che l’azienda in ristrutturazione e le sue maestranze possano contare su periodi anche lunghi di integrazione salariale, mirante ad un rilancio con la sopravvenienza, se del caso, di nuovi investitori, mentre in altri settori (es. commercio) le crisi aziendali e occupazionali sono per lo più irreversibili e repentine di talchè occorre garantire al lavoratore inevitabilmente licenziato, un trattamento di disoccupazione di lunghezza adeguata.

La proposta, dunque, è quella di introdurre per ogni lavoratore una “dote” di ammortizzatore sociale, (ad esempio: 3 anni nel quinquennio) che sia per così dire “a geometria variabile” e cioè “spendibile” a seconda dei casi come integrazione salariale a rapporto di lavoro sospeso, o come indennità di disoccupazione a rapporto estinto.

Art. 2 (Delega in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.)

Sarebbe un tema di intervento legislativo assolutamente centrale e da privilegiare rispetto ad ogni altro, considerata la crisi occupazionale che attanaglia il Paese, eppure la proposta di legge-delega è in materia del tutto povera e deludente. Nessun piano straordinario per l’occupazione giovanile o per il recupero della mano d’opera espulsa dalle crsi e ristrutturazioni aziendali, ma solo la previsione di una nuova istituzione, detta “agenzia nazionale per l’occupazione”, con competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI, da attuare senza oneri aggiuntivi, con risorse recuperate dagli enti ed istituzioni attualmente investiti dagli stessi compiti. Il tutto lascia presagire il solito “cambio di etichetta”, presentato come riforma. Sul tema vero delle politiche attive, la proposta di legge-delega affida al Governo la sola “razionalizzazione degli incentivi all’occupazione esistenti” e di quell’autoimpiego e all’autoimprenditorialità, ovvero una sorta di riepilogo o testo unico di quanto già esiste e ha prodotto assai scarsi risultati. Si profila, quale unica novità, la introduzione di “modelli sperimentali” che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento di soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle esperienze più significative realizzate a livello regionale : l’accenno è, forse, al contratto cd “di ricollocamento” , nuovo istituto propagandato da esperti del “centro-destra” e comportante un notevole versamento di fondi pubblici regionali ad agenzie private, incaricate, appunto, delle procedure di tentato ricollocamento.

A queste evanescenti proposte va contrapposta la messa a punto in via d’urgenza , di un piano straordinario, prevedente sia la creazione diretta di posti di lavoro attraverso una ripresa della domanda pubblica sia la creazione di nuovi “spazi” occupazionali, specialmente per i giovani, imperniati su una nuova disciplina dei “contratti di solidarietà espansiva”, prevedenti l’introduzione della settimana lavorativa di quattro giorni (30 ore) con conseguente liberazione di uno “spazio” lavorativo pari al 20% del monte-orario, sufficiente per un riassorbimento totale o di ingente dimensione della disoccupazione esistente. Il piano può prevedere, con attente politiche di reperimento risorse, la compensazione anche totale delle perdite salariale teorica discendente dalla decurtazione oraria dei lavoratori già occupati, che beneficerebbero del grande vantaggio esistenziale di un giorno libero in più a settimana.

Art.3 (Delega in materia di semplificazione delle procedure e dei provvedimenti).

In questa previsione la genericità del testo della proposta non consente assolutamente di identificare i contenuti dei futuri decreti legislativi: si ipotizzano semplificazioni e razionalizzazioni che dovrebbero “dimezzare” gli adempimenti connessi con la costituzione e la gestione dei rapporti di lavoro, unificare le comunicazioni alle varie amministrazioni, abolire la tenuta di documenti cartacei. A queste banalità si affiancano, però, almeno due previsioni non poco inquietanti:

1) La eliminazione “anche mediante norme di carattere interpretativo” delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali e amministrativi. Sembra si tratti, in sostanza di una “delega in bianco” di interpretazioni autentiche (multiple), che è l’esatto contrario di quanto predicato dalla Corte Costituzionale sul carattere eccezionale delle norme retroattive di interpretazione autentica.

2) La revisione del regime delle sanzioni amministrative per violazione delle norme in tema di protezione del lavoro con “valorizzazione degli istituti di tipo premiale”. La normativa “di tipo premiale” è quella che esenta da sanzioni il contravventore, o le riduce a livello simbolico purché il contravventore elimini l’illecito e “si metta in regola”, secondo una ben nota espressione gergale.

In realtà la legislazione “premiale” è in sé addirittura criminogena perché incentiva i datori a violare le regole dal momento che tutto quanto può loro accadere è di dover eliminare l’illecito, nel caso -del resto assai raro ed improbabile- di esser scoperti da una visita dell’Ispettorato del Lavoro.

Ferma, dunque, la più recisa opposizione alle due specifiche proposte e prospettive ora ricordate, va poi contrapposta alle generiche intenzioni di “efficientamento” delle procedure amministrative riguardanti i rapporti di lavoro, la richiesta di una riforma tanto semplice quanto efficace per evitare abusi di ogni sorta: l’istituzione di una Anagrafe Pubblica del Lavoro, che consenta a chiunque, e comunque alle organizzazioni sindacali, di conoscere nel dettaglio, con nomi e cognomi, la composizione della forza-lavoro di qualsiasi ditta. Non vi è nulla di difficile né di costoso visto che i dati già esistono e ben ordinati, presso i Centri per l’Impiego grazie alle denunzie obbligatorie cui ogni datore è tenuto (assunzioni, cessazioni, tipo di rapporto, qualifica del lavoratore ecc.).

Si tratta di una riforma che non costerebbe nulla o quasi nulla, ma capace di riportare legalità nel mercato del lavoro, perché nessun datore commetterebbe abusi (es: superamento delle percentuali massime di precariato) da tutti conoscibili e rilevabili con la semplice interrogazione di un terminale.

Art. 4 (Delega al riordino delle forme contrattuali).

E’ la norma che suscita la maggiore preoccupazione sia dal punto di vista contenutistico che di metodo democratico, perché realizza una vera “delega in bianco” al Governo di riscrivere a suo piacimento -e in particolare quello dei suoi alleati di centro-destra – l’intero diritto del lavoro. A questo scopo la proposta aggira e viola, anzitutto, l’art.76 della Costituzione quando indica come “principi e criteri direttivi” quelli che sono, invece, solo vaghe indicazioni sull’oggetto della attività, e che conviene, per chiarezza, testualmente riportare:

a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali.

b) redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali semplificate secondo quanto indicato alla lettera A) che possa anche prevedere, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti.

La lettera A), curiosamente, prospetta un compito non legislativo ma di studio e analisi, propedeutico rispetto al potere enorme e totalizzante che il Governo chiede gli sia delegato: quello di redigere “un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali semplificate”: non si tratta solo di selezionare i tipi di rapporto di lavoro da mantenere e quelli da eliminare, ma di (ri)disciplinare i rapporti salvaguardati, il che può perfettamente significare di riscrivere il Codice Civile, lo Statuto dei Lavoratori e la normativa speciale lavoristica, senza che il Parlamento possa per nulla interfenire dopo avere conferito questa “delega in bianco”. E’ evidente, invero, come nessun “principio e criterio direttivo” venga stabilito nella proposta al di là delle indicazioni del “maxioggetto”: il Governo potrebbe, ad esempio, sia mantenere che abolire la tutela dell’art.18 dello Statuto contro i licenziamenti arbitrari, mantenere, abolire o modificare le norme in tema di mansioni, di esternalizzazioni, di assenze, di appalti ecc. ecc., e probabilmente, sostituire nel complesso alla normativa esistente un nuovo “codice del lavoro” di stampo assolutamente neo-liberista, già predisposto -a quanto si sa- dagli esperti filodatoriali della sua componente di centro-destra. La violazione del dettato costituzionale (art.76) circa le caratteristiche della delega è evidente, ed evidente la espropriazione totale del potere legislativo appartenente ai parlamentari eletti.

L’unica indicazione che si rinviene nel testo della proposta è quella, piuttosto timida, della introduzione in via sperimentale di un contratto d’ingresso al lavoro “a tutele crescenti”, e cioè costituente comunque, di per sé, una manomissione dell’art. 18 dello Statuto.

L’art.4 della proposta di legge delega contiene anche due ulteriori previsioni, certamente non trascurabili, anche se di gran lunga meno importanti: si tratta della introduzione di un compenso orario minimo, e della estensione a tutti i settori produttivi del cd. “lavoro accessorio” attraverso l’acquisto e l’utilizzo di “buoni lavoro”.

Basta, allora, una breve riflessione per comprendere che quella della introduzione di un “compenso orario minimo” non è una misura di tutela dei lavoratori, ma solo una misura antisindacale, diretta a screditare e rendere inutili i contratti collettivi nazionali di lavoro. La questione vera non è di fissare per legge un salario orario minimo, che sarebbe, comunque, stabilito a livelli molto bassi, corrispondenti alla capacità di pagare delle imprese marginali, ma di conferire efficacia generale (erga omnes) ai contratti collettivi nazionali dei vari settori, in favore di tutti i lavoratori operanti nel settore.

Quanto al “lavoro accessorio” si tratta di una forma ideologicamente estrema di mercificazione del lavoro, “condensato” nei buoni-lavoro acquistabili, per così dire, “dal tabaccaio”; tuttavia non troppo rilevante in concreto né pericolosa, se limitata davvero a prestazioni discontinue e occasionali (es: prestazioni di baby-sitter).

L’intenzione manifestata dal Governo è, invece, quella di estendere il più possibile, a tutti i settori, l’ideologia e la pratica del lavoro “usa e getta”.

L’opposizione assoluta e ferma verso questi progetti, non significa, però, disconoscere l’opportunità di una revisione delle tipologie dei contratti di lavoro, ed anzitutto, dunque, di una rivisitazione della stessa nozione giuridica di lavoro dipendente che, ponendo l’accento non più sulla eterodirezione del lavoratore, ma sulla alienità dei mezzi e dei risultati dell’attività lavorativa inglobi le forme di lavoro parasubordinato (collaborazioni coordinate e continuative, con o senza partita iva).

E’ questo il primo contenuto di una nostra controproposta, che dovrebbe, poi, procedere alla individuazione delle tipologie contrattuali necessarie ed utili in aggiunta al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (aggiornato da un più ampio concetto di dipendenza) quali sono o potrebbero essere: il contratto a termine con accurata specificazione però, dell’esigenza lavorativa temporanea; il contratto “part-time”; il contratto di apprendistato o altro a causa mista di lavoro e formazione; il contratto di lavoro del socio-lavoratore, ma con profonde modifiche che attribuiscano le tutele del socio-lavoratore mancanti o che sono state, un po’ per volta, eliminate. Le altra forme di lavoro precario andrebbero abolite, a cominciare dal lavoro somministrato, dalla associazione in partecipazione, lavoro a chiamata, lavoro a progetto ecc..

Alla proposta, ingannevole, di compenso orario minimo per legge va contrapposta quella, ben più vantaggiosa e democratica di attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi nazionali di lavoro, previa emanazione di una legge sulla rappresentanza e rappresentatività sindacali, che garantisca la democraticità del procedimento di loro formazione e approvazione.

Art. 5 (Delega in materia di maternità e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro)-

Si tratta di una previsione riguardante una materia specifica e costituente una riprova a contrario della fondatezza delle critiche sopra formulate: la delega, infatti, è sufficientemente determinata almeno per alcuni punti come l’introduzione di un principio di automatismo previdenziale anche per le lavoratrici parasubordinate, la tendenziale estensione dell’indennità di maternità a tutte le categorie di donne lavoratrici, l’introduzione della “tax credit” quale incentivo al lavoro femminile.

Si torna, però, alla solita genericità quando si prevede l’”incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario” per conciliare i tempi di lavoro con le esigenze di vita, visto che non viene detto assolutamente nulla sulle modalità e consistenza della suddetta incentivazione.

Art.6 (disposizioni comuni per l’esercizio delle deleghe di cui agli artt. da 1 a 5).

E’ la norma di chiusura, tutt’altro che trascurabile perché conclude il progetto di espropriazione della potestà legislativa del Parlamento, prevedendo che i decreti legislativi di attuazione della delega possano essere emananti senza il parere delle Commissioni Parlamentari, ove non reso nel termine perentorio di 30 giorni. In altre parole, i parlamentari non avranno neanche il tempo di esaminare, valutare ed eventualmente criticare il modo con cui è stata utilizzata dal Governo quella delega generica o “in bianco”.

L’altro disposto importante è quello per cui dalla attuazione delle deleghe “non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”: è la conferma finale che il “Job Act II” conterrà anch’esso solo restrizioni, peggioramenti o eliminazioni di tutela e nessun impegno per piani di rilancio occupazionale, o garanzia di reddito. E’, per i lavoratori, l’ennesima legge punitiva ed autoritaria, sotto l’etichetta propagandistica della modernizzazione”.

Piergiovanni Alleva

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *