“Cara Cgil, il tempo delle mediazioni è finito. Serve un sindacato democratico”

Il 5 Statodi Gianni Rinaldini

da: Alternativa per il socialismo

Dopo le manifestazioni e lo sciopero generale promossa dalla Cgil contro le politiche del Governo Renzi, il sindacato si trova nella necessità di definire le forme e le modalità per dare seguito e continuità alle scelte compiute.

So bene che esiste un’altra possibilità, quella di considerare quella fase una sorta di una tantum di cui gestire in qualche modo un atterraggio morbido che permetta di riprendere la normale routine quotidiana. Sarebbe in questo caso una scelta disastrosa dove la stessa burocrazia sindacale sarebbe inevitabilmente travolta come una appendice del ceto politico.

La partecipazione alle manifestazioni e agli scioperi della Fiom e della Cgil, sono andati oltre le stesse aspettative perchè hanno incrociato il “sentire” delle persone in carne ed ossa, il malessere sociale diffuso che anche in questo modo ha scommesso di nuovo sul sindacato. La contemporaneità con altre esperienze di movimento, come lo sciopero sociale, che hanno attraversato quelle giornate hanno altresì reso evidenti le potenzialità e la vastità dell’opposizione sociale.

Non mi faccio illusioni perchè tutto ciò è avvenuto a fronte dell’inimmaginabile, cioè di un Governo ed un Parlamento eletto con un sistema elettorale incostituzionale che ha cancellato tutele e diritti delle lavoratrici e dei lavoratori conquistati con decenni di lotta del Movimento Operaio. Non serve a nulla ragionare sulle responsabilità di questi decenni, sull’assenza di un reale contrasto sociale, ad esclusione della Fiom, perchè resta la cruda realtà con cui oggi siamo chiamati a fare i conti.

Questo è il passaggio ineludibile per la Cgil, per il futuro del sindacato perchè attuata la rottura politica con il PD, dobbiamo dare corso ad un profondo cambiamento di natura strategica, contrattuale ed organizzativa. Senza infingimenti abbiamo bisogno di definire una analisi precisa del contesto politico, istituzionale e sociale del Paese con lo stravolgimento di aspetti essenziali e decisivi della nostra Costituzione.

Mi riferisco all’equilibrio tra diritti politici, diritti civili e diritti sociali che costituivano l’architettura di una Costituzione programmatica che teneva in ambito democratico l’espressione del conflitto politico e sociale tra interessi e idee diverse, alternative, come linfa vitale per la democrazia. Non a caso, si diceva un tempo, “la Costituzione deve varcare i cancelli dei luoghi di lavoro”, che ha portato alla conquista dello Statuto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, così come la conquista dello Stato Sociale ha rappresentato l’affermazione dei diritti sociali universali.

I tanti vituperati Partiti, cosi come le organizzazioni sindacali rappresentavano lo strumento di questi conflitti sociali e politici. Viceversa, viviamo oggi la parte finale di un processo di mutazione epocale dell’insieme del sistema costituzionale, dove la crisi, l’austerità sono utilizzate per disegnare un assetto complessivo del sistema che punta ad espellere il conflitto sociale e politico. Il precariato, la disoccupazione, la ricattabilità permanente come condizione di vita e di lavoro delle persone ne rappresentano la condizione materiale.

Dopo decenni di astruse discussioni sul come mutilare e piegare la democrazia al primato della governabilità, dal bipolarismo al bipartitismo, siamo giunti al capitolo finale, con un sistema politico fondato su due soggetti politici che non hanno alcun riferimento di natura sociale ma ambiscono a rappresentare la categoria del cittadino. Concettualmente vuole dire che pensano di essere non espressione di una parzialità, di idee

alternative ma incorporano in se il luogo della mediazione sociale. Lo stesso comportamento della minoranza del PD sulla vicenda Jobs Act lo testimonia, dove la negazione del ruolo del sindacato confederale non è stato l’oggetto di uno scontro dirimente sul ruolo del Partito e del Governo, ma hanno pensato agli emendamenti come se fossero loro i portatori delle istanze sindacali. Un ruolo che nessuno gli ha assegnato, ma che rende l’idea della deriva del primato della politica.

Del resto il comportamento del Governo Renzi ha reso del tutto esplicito ciò che era già avvenuto con il Governo Monti: il sindacato confederale considerato alla stregua delle centinaia di associazioni esistenti nel paese. Nasce da qui la rottura rispetto al passato tra questo sistema politico e il sindacato confederale, ma più in generale con la rappresentanza sociale rappresentato anche simbolicamente dallo sciopero generale contro il Governo del PD.

Con grande ritardo la Cgil ha dovuto prendere atto che non esiste alcun Partito di riferimento o minoranza di Partito da sostenere, ma semplicemente un contesto politico nuovo. Ritengo la storia del rapporto Partito Sindacato, che nasce dalla II e III Internazionale conclusa, finita da tempo e, la sua coda di questi ultimi decenni, è stata infausta. Si tratta di un aspetto strutturale nel rapporto Partito Sindacato, che apre scenari nuovi per il futuro stesso del Sindacato, senza nostalgie o reticenze come quelle di pensare che in assenza di Renzi, Presidente del Consiglio e Segretario del PD, tutto possa tornare come prima.

L’altro aspetto riguarda la questione sociale che ha preceduto e accompagnato questo masielloprocesso fino ad arrivare alla congiunzione attuale tra l’approvazione del Jobs Act e lo stravolgimento del sistema politico e istituzionale.

Nel corso di questi anni tutti gli atti legislativi, dal welfare al lavoro, sono stati finalizzati ad una idea precisa della società e dell’Europa, quella del neo-liberismo.

“La società non esiste, esistono gli individui”, disse la Thacher agli inizi degli anni ’80, riassumendo il significato dell’offensiva del capitale finanziario ed industriale per ridisegnare un sistema dove i lavoratori dipendenti, i precari e i disoccupati – cioè gli individui – devono essere messi nella condizione di una concorrenza feroce tra di loro assolutamente pervasiva della condizione umana. E’ perfino beffardo rammentare la campagna culturale e mediatica sulla presunta libertà individuale, fondata sulla flessibilità e il merito che accompagnava il crescere nella società reale delle diseguaglianze sociali.

Tutto ciò che costituisce, nel lavoro subordinato, un vincolo sociale sia esso di solidarietà o dei diritti, rispetto a questo obiettivo deve essere superato, cancellato. Lo stesso utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione su base informatica sono state piegate a questa esigenza. La crescita a dismisura delle disuguaglianze sociali trova in questo passaggio lo snodo decisivo dell’attuale fase della storia del capitalismo finanziario ed industriale. Il sistema fiscale di carattere progressivo come architrave del sistema dei diritti sociali universali è stato demolito, perchè la formazione della ricchezza con il ruolo assunto dai flussi finanziari, con la libera circolazione dei capitali e l’attuale organizzazione delle imprese evade “legalmente”. Penso alla Fiat o alle multinazionale del digitale che hanno spiegato a tutto il mondo che loro pagano “legalmente” lo 0,5% di tassazione.

Nello stesso tempo, con il meccanismo delle “esenzioni”, la fiscalità viene utilizzata per rendere subalterna la contrattazione aziendale e/o di categoria alle esigenze delle imprese, le quali di fatto diventano anche “titolari” per l’accesso di una parte sempre più consistente di diritti sociali.

Faccio alcuni esempi per capire meglio la situazione:

Viene concessa la detassazione degli aumenti retributivi a livello aziendale, solo se corrispondono a criteri definiti legislativamente di variabilità rispetto agli obiettivi di produttività, redditività e qualità. Oppure la legislazione fiscale di sostegno per le quote versate dai lavoratori e dalle imprese per la costituzione a livello aziendale e/o di categoria, di fondi sanitari che si aggiungono a quella della previdenza integrativa. Qualsiasi sindacalista sa, o dovrebbe sapere che la stessa compartecipazione della quota versata delle imprese, è una finzione perchè trattasi pur sempre del “costo del lavoro”, come tale calcolato dalle controparti nelle trattative.

Adesso con il meccanismo delle assunzioni a tutele crescenti siamo per i primi tre anni di lavoro, alla decontribuzione totale, con un risparmio per le imprese di circa il 30% del costo del lavoro. Leggere la busta paga di un lavoratore metalmeccanico è molto istruttivo per capire l’assetto sociale che si è costruito. Sul piano contrattuale, siamo alla distruzione evidente dei Contratti Nazionali perchè l’art. 8 ha tradotto in legge il sistema Fiat e cioè la possibilità di definire a livello aziendale tutti gli aspetti della prestazione lavorativa.

Una rivoltella alla tempia di qualsiasi trattativa nazionale, dove la controparte può dettare le condizioni per loro più convenienti. Si definisce in questo modo un quadro preciso di vincoli che configurano una gabbia di struttura contrattuale, dove non esiste più l’autonomia del sindacato. Questo è quello che è rimasto della concertazione.

Con l’abolizione dei diritti e delle tutele si completa l’operazione della dissociazione totale tra diritti e lavoro, la crisi viene utilizzata per affermare l’idea del “purchè sia un lavoro”. Non è difficile mettendo insieme i diversi pezzi capire che siamo di fronte ad un sistema complessivo che segna una rottura con la storia europea del dopo-guerra e guarda al sistema di regole sociali dei paesi anglosassoni, in particolare degli Stati Uniti. Per l’insieme di queste ragioni la Cgil è chiamata a misurarsi con uno scenario inedito, fondato sulla  precarizzazione di massa e la disuguaglianza sociale.

Uno scenario che nega il ruolo della Confederalità come soggetto sociale di cambiamento della società, e riduce il sindacato a soggetto aziendale e corporativo con vincoli precisi, che ho prima richiamato, di totale subalternità agli interessi di ogni singola impresa. Il Contratto Nazionale come elemento di solidarietà e di miglioramento normativo e retributivo per l’insieme dei lavoratori, è stato di fatto già superato e, quello di cui si discute oggi, è altra cosa al di là di come lo si voglia chiamare. La Confederalità come espressione degli interessi del lavoro subordinato, dei disoccupati e dei pensionati, cosa vuole dire oggi? Quale è la ragione per cui il lavoratore metalmeccanico, il precario, il disoccupato, l’insegnante, l’informatico, devono sentirsi parte di una stessa Organizzazione?

E’ finito il tempo dove la Cgil era parte di uno schieramento politico locale e globale da cui mediava, seppure genericamente un orizzonte di cambiamento della società. Autonomia e indipendenza della Cgil oggi, vuole dire esprimere una nuova progettualità, un idea di cambiamento della società che dia un senso ed un significato ad una comune appartenenza. Questa fu l’intuizione di Bruno Trentin quando propose, non a caso all’indomani del superamento delle correnti di partito, la necessità di un programma fondamentale della Cgil, come carta di identità della Organizzazione Confederale. Non se ne fece nulla.

Quella intuizione va ripresa in una situazione molto peggiorata perchè vi è il rischio concreto che della confederalità sopravviva soltanto una struttura gerarchica e piramidale, un guscio vuoto, un sistema di regole interne destinato a deflagrare perchè tenuto insieme dal nulla o meglio dall’autoconservazione. La stessa legittimazione del sindacato, chiama in causa inevitabilmente la rappresentanza sociale. Ho ben presente lo smarrimento che esiste nella organizzazione, negli apparati perchè è crollato tutto un mondo di rapporti formali ed informali, di riconoscimento istituzionale del proprio ruolo nelle diverse istanze della organizzazione a livello nazionale, regionale e territoriale.

Dare continuità alla scelta dello sciopero generale non riguarda soltanto le decisioni del Comitato Direttivo Nazionale, ma tutta l’Organizzazione deve cambiare profondamente. I territori, i luoghi di lavoro sono il terreno da cui ripartire anche con nuove forme di rappresentanza e di aggregazione di un lavoro frammentato e diviso.

Un percorso di costruzione e cambiamento degli attuali rapporti di forza, che sono possibili soltanto con l’estensione della rappresentanza sociale e pratiche rivendicative, che sappiano parlare e  coinvolgere la nuova complessità del mondo del lavoro subordinato nei territori e a livello nazionale.

Questo per il Sindacato vuole dire, dal basso in alto. Mescolarsi ed essere parte del disagio sociale crescente, causato dalla costante riduzione dei servizi, la crescita delle aree di povertà, la devastazione sociale e ambientale. Non so se la Cgil è in grado di compiere un passaggio di questa natura e vedo per intero il rischio

che categorie e strutture confederali, cerchino illusoriamente rifugio, nella rincorsa sempre più affannosa di una legittimazione data dalle controparti con accordi indecenti e una contrattazione territoriale e/o sociale di pura applicazione dei tagli del Governo.

Sarebbe la traduzione del “purchè sia un lavoro” nel “purchè sia un accordo”. Tutto ciò richiede una volontà, una determinazione del gruppo dirigente della Cgil – Confederazione e Categorie – nel compiere scelte conseguenti a questi mesi di mobilitazione, sia nei contenuti della contrattazione delle categorie sia nell’operare delle Camere del Lavoro. Una nuova stagione rivendicativa sui temi sociali fondamentali che coinvolga l’insieme del sindacato, aprendosi al rapporto con altre istanze di movimento, con il discrimine della democrazia e il rifiuto della violenza.

Una apertura a tutto campo di questa natura, non è compatibile con l’attuale funzionamento della Cgil, delle sue regole interne, dell’esistenza di una molteplicità di categorie e di Contratti Nazionali, con la formazione dei gruppi dirigenti secondo la logica della cooptazione.

L’ultimo Congresso della Cgil era giunto al limite della rottura dell’Organizzazione, quando il Segretario Generale della Fiom, ha annunciato che se si procedeva alla elezione degli organismi di vigilanza interna, compreso la commissione Statuto, a colpi di maggioranza, si abbandonava il Congresso.

Quelle regole non sono più agibili e la democratizzazione della Cgil richiede un profondo cambiamento, fondato sulla partecipazione attiva degli iscritti e dei delegati, compresa l’elezione dei gruppi dirigenti e dei segretari generali. Anche da questo versante, l’unità della Cgil nel promuovere la mobilitazione di questi mesi è auspicabile che abbia il significato di un nuovo inizio.

La struttura gerarchica, piramidale e burocratizzata non va da nessuna parte e il futuro del Sindacato non è scindibile dalla democrazia nella sua vita interna e nei rapporti con le persone che vogliamo rappresentare.

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