Panchinari a vita

Dino Angelini

7.12.11

Oggi i giovani che qui da noi entrano nel mercato del lavoro vanno incontro a una panchina lunga: devono cioè restare a disposizione di questo o di quel datore di lavoro come lavoratori precari fino a che, dopo un certo periodo, non sono chiamati in prima squadra come lavoratori a tempo indeterminato”. Era il 2001 e questo più o meno è quello che diceva Seravalli, un economista dell’Università di Parma, in un convegno sul precariato giovanile tenuto presso la Cgil in occasione dei festeggiamenti per il centenario della Camera del Lavoro reggiana.

“Queste ovviamente – aggiungeva – sono le possibilità che il tessuto produttivo reggiano offre oggi, in un momento di espansione del ciclo economico: qualora si andasse a una crisi, ci troveremmo probabilmente di fronte a una divaricazione: da una parte i giovani più qualificati sostanzialmente la sfangherebbero, mentre quelli meno qualificati, e in special modo i giovani migranti, sarebbero destinati praticamente a rimanere panchinari a vita”.

Purtroppo, come sappiamo, il tempo della crisi è arrivato: qui a Reggio l’annus horribilis finora è stato il 2009 con un calo della produzione e delle esportazioni locali praticamente generalizzato e con timidi segni di ripresa a partire dall’anno scorso, che rischiano però di essere disconfermati dall’enorme valanga incombente anche su di noi.

Nel frattempo l’immigrazione è cresciuta e si è andata sempre più confermando come migrazione a bassa qualificazione: nuovi panchinari a vita destinati a sconvolgere ulteriormente un tessuto sociale e produttivo già fortemente stressato.

Eh sì, perché i panchinari a vita da una parte, sul piano produttivo, con la loro stessa presenza contribuiscono a impigrire i datori di lavoro, che trovano più conveniente utilizzare questa manodopera a basso costo e ad alta flessibilità piuttosto che ammodernare le strutture produttive; dall’altra, sul piano sociale, implicano uno sforzo crescente e dispendioso degli enti locali volto al mantenimento della coesione sociale e alla ridefinizione del welfare locale in base alle nuove esigenze che provengono da questi nuovi soggetti.

A ciò si aggiunge il fatto che crescono in provincia sia la fascia cha va dagli zero a i quindici anni, con relative crescenti esigenze sul piano dei servizi; sia gli anziani e perciò le badanti, ad esempio: panchinare a vita che da sole rappresentano forse la metà di tutte le migranti; persone preziose che aiutano, certo! ma che hanno anche bisogno di aiuto.

Insomma, l’immigrazione è cresciuta e Seravalli è stato facile profeta. Anzi gli ultimi dati relativi alla nostra provincia ci parlano dell’emergere di un nuovo fenomeno legato alla sempre più marcata rinuncia da parte dei giovani perfino a cercare lavoro: lo chiamano tecnicamente “sottoutilizzo”.

Potremmo definirlo come una rinuncia perfino a entrare in panchina: tanto nelle condizioni attuali che ci vado a fare? dicono specialmente le giovani autoctone e le immigrate.

In termini sistemici tutto ciò va ad accentuare una propensione alla “famiglia lunga”, che non è la joint family contadina di una volta (con tanto di rezdora, etc). Ma di questo parleremo un’altra volta.

Per ora vorrei solo porre qualche domanda: è possibile che i nostri trainer, istituzionali e non, procedano come se dovesse sempre continuare a giocare la vecchia squadra e lascino perennemente in panchina tutto il resto? Siamo sicuri che nel frattempo se si vuol vincere la partita la nuova situazione non implichi la necessità di fare un nuovo gioco, con nuove regole?

 

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