Trasformismo emiliano

Dino Angelini

15.10.12

Oggi a Reggio Emilia mezza classe dirigente della Lega abbandona il partito; ieri un gruppo di sindaci all’improvviso si dichiara renziano; e avantieri uno di loro – il più neoliberista – torna a strapparsi le vesti come fece l’anno scorso, peraltro senza aver sollevato alcuna reazione, né allora né oggi, in un partito che sotto il segno del neoliberismo c’è nato.

Qui un illustre parlamentare di lungo corso che afferma di rinunciare al seggio parlamentare “perché la nostra generazione ha fallito”, ma che nel frattempo da almeno un anno lascia trapelare la voce che potrebbe candidarsi a sindaco. Là un sindaco progressista che oggi appoggia Bersani, dopo aver operato fino a qualche tempo fa con Ubaldi a Parma (la poltrona di sindaco di centrosinistra evidentemente gliel’hanno data per questa precedente benemerenza). E in disparte – troppo in disparte – i veri amici reggiani di Renzi.

A livello nazionale il Pdl si va squagliando sotto il peso degli scandali; il centro rimane ondivago e sostanzialmente pronto ad ogni avventura con coloro che prevarranno nella contesa elettorale, mentre coloro che furono transfughi, ma non trovarono al centro un posto adeguato, tornano mesti all’ovile, disposti ad altre giravolte; i progressisti s’incartano sul problema delle alleanze, con un “incomprensibile” ostracismo su Monti che – a parte Letta jr – apparentemente non è voluto da alcuno dei contendenti in gara. Neanche da Renzi.

E neanche, ovviamente, da Vendola, che però alla fine non sta lì a guardare il pelo nell’uovo, spinto dai suoi famelici colonnelli ad occupare anche a livello nazionale quegli strapuntini che nei governi locali fanno tanto comodo. E la sinistra radicale che, dalla sua posizione extraparlamentare, spera in una compilation che per alcuni (quorum ego) dovrebbe far capo a Landini e possibilmente estendersi fino a Grillo, per altri dovrebbe essere più o meno la fotocopia della vecchia e screditata Unione.

Dietro tutto questo bailamme i tecnici che intanto portano a compimento lo smantellamento del welfare e la privatizzazione di ogni cosa, per lasciare in eredità – verosimilmente a se stessi, ma con il conforto di elezioni più o meno teleguidate da leggi elettorali truffa – debiti perpetui con l’Ue, con la Banca mondiale e con la finanza internazionale. Debiti perpetui e perciò vincolanti: per chiunque vinca le elezioni.

Insomma, torna a sobbollire quel brodo di coltura del trasformismo che, come diceva Gramsci, è parte costituente della politica e del modo di vivere italiano. Gramsci collegava il trasformismo alla rivoluzione passiva, cioè a quel modo di fare delle classi dominanti che, di fronte alla sconfitta delle classi subalterne (si pensi che lui era stato uno dei protagonisti del biennio rosso italiano!), da una parte solidificavano su base nuova il loro dominio, cooptando anche una parte dei dirigenti radicali (quelli disposti al trasformismo, per l’appunto); dall’altra, per evitare tensioni e per imbrigliare ideologicamente le classi subalterne, concedevano loro qualcosa.

E non è un caso che, fascistizzando e istituzionalizzando con l’ex-comunista (!!) Bombacci quelle che furono le mutue socialiste, il fascismo “viene incontro” a suo modo alle classi subalterne ponendo le basi per la formazione di quelli che poi, dopo la seconda guerra mondiale e con una seconda giravolta, diventeranno i carrozzoni democristiani.

A mio avviso oggi l’ossatura del discorso gramsciano sul trasformismo e il suo collegamento con la rivoluzione passiva rimane valido: siamo a un passaggio alla terza repubblica e l’interesse delle classi dominanti a livello internazionale è spolpare in maniera sistematica e senza infingimenti ciò che resta del welfare e dei beni comuni per fare cassa anche da lì. Finora questa funzione era stata affidata ai governi (anche il governo Prodi in Italia ha contribuito a sbaraccare lo sbaraccabile). Ma la crisi economica mondiale impone la discesa in campo diretta dei tecnici neoliberisti per completare l’opera in maniera molto più radicale che in passato.

L’elemento di novità è nel tipo di rivoluzione passiva che stanno apparecchiando per subornare e accontentare le vittime di questa crisi. Di fronte alla crisi del ’29 le soluzioni furono essenzialmente due: da una parte, come abbiamo visto, le tutele corporative offerte alle classi subalterne dagli stati totalitari, dall’altra il loro ingresso nella sfera dei consumi, promosso dai keynesiani allorché prima o dopo la guerra s’insediarono al governo delle democrazie occidentali.

Oggi a causa della crisi economica nessuna di queste due soluzioni è più perseguibile. Si va delineando però una complessa operazione tesa, attraverso la “colonizzazione dell’immaginario”, allo spappolamento di ogni identità individuale e sociale forte ed autonoma (Luigi D’Elia); all’individualizzazione di problemi che invece sono sociali (Bauman paragona le soluzioni individualistiche che i tecnici suggeriscono per superare la crisi a quelle “di quando si viveva sotto la minaccia di un’incombente guerra nucleare e la gente era incoraggiata ad allestire, a seconda delle proprie risorse, rifugi familiari anti-nucleari”); insomma a una “virtualizzazione tossica della realtà” alimentata dalla “infosfera” (sempre D’Elia) che spinge gli individui e i gruppi sociali a misconoscere le fondamenta del proprio essere e della propria storia e a privarsi di ogni racconto autonomo del presente e di ogni autonoma immaginazione del futuro.

Riusciranno i nostri neotrasformisti a maneggiare il nuovo schema di rivoluzione passiva, che richiede peraltro competenze politecniche nuove che solitamente – almeno in Italia – non sono nelle loro corde? E riusciranno i nuovi subordinati (il famoso 90%!) a togliersi di dosso la venefica camicia di Nesso nella quale sono avviluppati, per passare ad un modello di vita ecologico? Il nostro futuro in gran parte è affidato a come risponderemo a queste domande, ma le premesse non sono buone

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