Primarie, l’oscenità dell’urna-stranieri

Dino Angelini

8.3.14

Domenica 2 marzo nell’ormai tristemente noto seggio di Catomes Tot un’urna-stranieri (qui nella foto) faceva mostra di sé, a fianco a un’urna-cittadini, a raccogliere il consenso dei migranti “con regolare permesso di soggiorno”.

Nell’osservare la foto che fieramente, e di primo mattino, i componenti del seggio avevano messo in rete, dopo un momento di stupore, da vecchio migrante interno – mai dimentico della profonda ambivalenza che ha caratterizzato il mio primo rapporto con i reggiani e il loro con me – ho provato un profondo senso di rabbia.

Ho cercato d’informarmi in rete e dopo qualche ora mi è stato detto che si trattava di un’indicazione nazionale mirante a coinvolgere i migranti non ancora provvisti di cittadinanza. E i giovani fra i 16 e i 18 anni, mi hanno detto. Giovani che evidentemente, in base forse a una cittadinanza “più piena”, ancorché non perfetta, potevano confondere il proprio voto con quello degli altri “cittadini” (non so se anche nelle altre città d’Italia il voto dei migranti sia stato raccolto allo stesso modo).

Mi è stato detto anche che gli “stranieri” erano stati convogliati tutti nel seggio di Catomes Tot, dove – come sappiamo – si sono espressi con adesioni bulgare a favore di Corradini.

Ora, al di là delle stigmatizzazioni che sono state fatte (anche dal sottoscritto) su questo voto plebiscitario, mi preme in questo post spendere due parole in tema di cittadinanza. Quella foto, infatti, nella sua involontaria “oscenità” (ob/scoenus: da tenere fuori scena) mostrava senza alcun pudore la drammaticità della condizione dei migranti nella nostra società. E nella nostra città.

Quelli “con regolare permesso di soggiorno” trattati come lo erano nell’antica Atene i meteci: semiliberi senza diritti e con il dovere di pagare le tasse. E quelli “senza regolare permesso di soggiorno” ridotti in una condizione servile, se non di schiavitù. Stiamo parlando di una percentuale significativa – e sempre più elevata – di abitanti del nostro territorio, che ancora non possono definirsi “cittadini” e che pure il Pd vuole, almeno in parte, consultare.

Lo fa anche, in termini certo meno discriminatori, ma altrettanto populisti e demagogici, con i 16enni e i 17enni autoctoni. Ma anche questa operazione, indubbiamente più soft, muove da una medesima preoccupazione: infatti sia i migranti che i giovani si presentano agli occhi dei “cittadini” come due alterità che vanno un po’ ghettizzate e lasciate ai margini, un po’ blandite affinché accettino senza tanti grilli per la testa di mettersi in fila ad aspettare pazientemente una cittadinanza più piena, un lavoro meno precario.

In fila per imparare ad armarsi di pazienza e accontentarsi delle briciole. Per pagare le tasse senza pretendere diritti. Come i meteci. Per attendere un lavoro qualsiasi implorando col cappello in mano. Per imparare a ottenere per preghiera, e non per diritto.

E poi ci meravigliamo se, varcando il limen dietro al quale li abbiamo costretti, i migranti si avvicinano alla nostra ”Urna – Stranieri” non come li abbiamo benevolmente immaginati, ma come barbari – sporchi, brutti e cattivi – o in ogni caso come abitanti della città, non ancora addomesticati al mestiere di cittadino. Legati ai loro capi, ai loro ras, alle loro associazioni clientelari o religiose!

Probabilmente la stessa cosa pensavano i galantuomini quando Giolitti cent’anni fa concesse il suffragio universale maschile e quando la Costituente “estese” il voto alle donne. Cinquantotto anni… poco più di una generazione  fa.

No taxation without representation”, scrissero sulle loro bandiere i sudditi britannici delle Americhe nel momento in cui si ribellarono all’Inghilterra e lottarono per l’indipendenza e la democrazia. Noi oggi stiamo fingendo di dare rappresentanza a chi paga le tasse, ma non può dirsi cittadino. Questo è il messaggio più sconvolgente e osceno che viene dalle urne separate del Catomes Tot.

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