Aspetti pedagogici nell’esperienza della Casa dell’Aliah dei Bambini di Selvino.

Lia Tagliacozzo

Ateneo Veneto, 31.1.19

 

La storia della comunità, nata a Selvino nel settembre del ’45 per iniziativa di Raffaele Cantoni per Delasem e del partigiano Luigi Gorini per il CNL quando la Casa di Sciesopoli, costruita per volere di Mussolini per i Balilla, fu affidata a Moshè Zeiri per ospitare i bambini orfani della Shoah in una specie di nemesi, è una storia che mi ha affascinato e commosso da quando ne ho sentito parlare da Marco Cavallarin che se ne occupa con grande passione da molti anni. Fra i promotori c’erano anche il sindaco e il prefetto di Milano, Greppi e Riccardo Lombardi, il CLN con Ferruccio Parri e Mario levi partigiano ebreo. Gorini fu poi amministratore di sciesopoli.

La mia ammirazione va a Moshè Zeiri, direttore della casa fino alla sua chiusura nel ’48, e a tutto il suo gruppo di educatori che si sono trovati di fronte a bambini e ragazzi provati da esperienze sconvolgenti, usciti dai campi di sterminio in cui avevano visto morire i genitori, avevano vissuto in mezzo alla morte soffrendo la fame, seppellendo cadaveri scheletrici, cercando di sopravvivere nel mezzo della tragedia. Altri si erano nascosti nei boschi, o avevano trovato rifugio fra i partigiani sempre in condizioni estreme.
Tutti arrivavano traumatizzati, non avevano più una famiglia, una comunità, e non avevano più un luogo e una lingua di riferimento se non spesso l’yddish o la lingua degli stessi aguzzini.

La capacità di lavoro collettivo e di organizzazione doveva essere di altissimo livello. L’obiettivo era quello di offrire ai piccoli ospiti una vera e propria rinascita e renderli in grado di adattarsi al meglio ad una nuova vita in Erez Israel, imparando la nuova lingua e se volevano cambiando addirittura nome.. E tutto questo richiedeva non solo competenze di tipo pedagogico che potevano essere state maturate da passate esperienze, ma soprattutto la capacità di affrontare un problema che finora nessun educatore si era trovato ad affrontare.

Questi ragazzi nell’attraversare la tragedia non avevano potuto avere accesso alle normali relazioni che favoriscono la crescita, avevano perso tutti i loro affetti più cari, non avevano potuto studiare, non avevano potuto essere educati in nessun modo, avevano dovuto impiegare tutte le proprie risorse per sopravvivere nell’inferno.
I loro racconti, quando riuscivano a raccontare, erano agghiaccianti. Qualcuno raccontava di aver dovuto portare il corpo del padre con un carretto al forno crematorio. Non mancava il senso di colpa per essere sopravvissuti alle loro stesse famiglie.
Quando ascoltiamo testimonianze come quelle della senatrice Liliana Segre o delle sorelle Bucci possiamo farci un’idea di quello che hanno passato questi ragazzi e di come tornare alla vita normale abbia potuto essere difficile per loro.
La scelta fu quella di tacere il passato recente e di impegnare tutte le forze per il preesente e soprattutto per costruire il futuro.

Si doveva unificare la lingua in quella ebraica, visto che l’obiettivo era quello di riuscire a portare i ragazzi in Erez Israel a trovare un focolare comune. Lingua e letteratura ebraica come oggetto di studio principale, ma anche risanare le ferite di un’infanzia rubata.
Dice Aaron Appelfield “ Il furto della giovinezza è una lacerazione inguaribile” ( da Sergio Luzzatto, I bambini di Selvino”).
Il libro di Sergio Luzzatto è costruito attraverso interviste ma soprattutto attraverso l’epistolario, le lettere tradotte dalla nostra Chiara Camarda.
Ci rivela che Moshe Zeiri era un ottimo organizzatore ma mancava di solide basi pedagogiche, tanto che la moglie da Israele gli spedisce libri di Janus Korzack, il grande pedagogista perito nella Shoah coi suoi bambini.
In effetti Moshè mutua da Korshak l’idea del Parlamento dei bambini, del giornalino (Nivenu, la nostra parola) che ospita i loro articoli, le loro poesie e i loro disegni,
la scelta dell’ascolto e della responsabilizzazione, che permetterà poi ai ragazzi, una volta coronato con grande fatica il sogno dell’Alyà, di reggere i problemi del rapporto con i sabra e di farsi fondatori di kibbutzim e ottimi protagonisti della vita del paese.
D’altra parte probabilmente Moshè Zeiri conosceva i metodi di Reuven Feuerstein, giovane segretario dell’ Aliat-ha-noar, che proprio attraverso il lavoro psicopedagogico con gli orfani della Shoah cominciava ad elaborare i suoi metodi basati sulla fiducia nella possibilità di ogni bambino di modificare e sviluppare attraverso la mediazione dell’adulto le proprie funzioni e capacità cognitive.
Con questi strumenti si dovevano affrontare i problemi tipici dell’età evolutiva in un contesto tutto particolare di ragazzi traumatizzati che della vita sapevano molto di più dei ragazzi della loro età ma che con la fragilità tipica della loro stessa età affrontavano i primi innamoramenti, il problema del sesso, le ribellioni e le angosce adolescenziali.
Si giunse ad un originale sistema pedagogico in cui l’insegnamento della lingua e della cultura ebraica si unirono al teatro, alla musica ( Moshè arriva al punto di portare gruppi di ragazzi ad assistere alle rappresentazioni della Scala), alla pittura, alle attività artigianali e a un’educazione di tipo socialista e sionista basata sui principi della vita comunitaria.
La base educativa era la cooperazione e la responsabilità reciproca, insieme ad una disciplina che doveva restituire le regole giuste che nella loro esperienza erano state sostituite dal sopruso e dalla violenza.
Moshè diede vita ad una specie di “Repubblica dei bambini”, quasi una prefigurazione del Kibbuz al quale questi bambini erano destinati.
La scelta fu quella di tacere il recente passato per arrivare ad una vera e propria rinascita. Per quanto riguarda la religione, l’impostazione era laica, pur rispettando lo Shabbat e le feste più importanti.
Nello stesso tempo il primo maggio hanno a volte sfilato per il paese con la bandiera rossa e la bandiera bianca e azzurra della nascente Israele.

L’idea era quella di giungere ad un Kibbuz dei bambini di Selvino ma le vicissitudini dell’Alyà non permisero di realizzarla, anche se molti rimasero insieme , si formarono coppie, e i ragazzi continuarono a frequentarsi.
Raggiungere la Terra Promessa fu difficilissimo. La maggior parte dei ragazzi, che partivano a scaglioni come minori non accompagnati, furono costretti fino al ’48 nei campi di prigionia inglesi di Cipro, dove peraltro seppero stare insieme e reggere l’ulteriore trauma.
Nel 1983 un folto gruppo si ritrovò a Selvino anche con Moshè , incontrando il sindaco e le autorità del paese. Un altro incontro ci fu nel 2015, e in questa occasione si decise di allestire a Selvino un piccolo Museo e di porre una targa d’ottone per ricordare gli eventi. Questa stessa targa è stata nei giorni scorsi trafugata da una mano probabilmente fascista.

L’idea è quella di allestire all’interno di Sciesopoli un Museo che ricordi questa esperienza di accoglienza così particolare ma così emblematica, come fu anche quella dei 73 bambini che a Nonantola, in provincia di Modena, furono accolti, profughi dai paesi dell’est e dalla Germani, nel ’41 a Villa Emma e furono salvati tutti tranne uno che si trovava in ospedale, dopo l’8 settembre del ’43 dalla stessa popolazione del paese. Un’altra storia da ricordare e raccontare come molte altre.

All’uopo è stata aperta una raccolta fondi; aspettiamo quindi indicazioni piùprecise da Marco Cavallarin.

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