Rancore e nostalgia

di Dino Angelini

 

Tiempe belle 'e na vota,
tiempe belle addó' state?
Vuje c’avite lassate,
ma pecché nun turnate?

........................
(Califano, Valente - 1916)

Mi dicono che sono rancoroso. Il mio vecchio maestro Diego Napolitani, di fronte a parole-chiave che riguardino noi o i nostri pazienti, ci suggeriva di risalire all’etimo, poiché – diceva – spesso (anche se non sempre) in quella loro radice può essere iscritta una verità. Per cui ho consultato il dizionario etimologico Cortellazzo-Zolli e ho scoperto che il termine ‘rancore’ proviene dal basso latino ‘rancor’, che sta per odore di rancido, cioè di vecchio, di antiquato, e in ultima istanza di sorpassato.

Devo confessare che, già prima di aver fatto questa scoperta, e anzi nel momento stesso in cui stamane ripetutamente in due dei tre banchetti della sinistra radicale (disseminati in centro nello spazio di 80 metri!!) mi sono sentito definire come ‘rancoroso’ ho sentito che in quell’etichetta c’era un qualcosa di vero. Qualcosa cioè che, se da una parte mi dava alquanto fastidio, dall’altra sentivo come corrispondente a una mia parte interna che da un po’ di tempo mi parla, e trova udienza nel mio personale teatro rappresentazionale: spesso in antitesi rispetto alle mie altre parti, ma negli ultimi tempi sempre più in sintonia con esse.

Il tutto in un crescendo rossiniano che a volte fa arrabbiare, lo so, che sicuramente è solleticato dal clima euforico vigente nei social media, ma che non ha nulla di artefatto, mi abita ormai da tempo, e prende sempre più strada dentro e fuori di me.

Altrettanto vera è però la presenza, fianco a questa voce che sa di vecchio, di antiquato e di sorpassato, di un’altra voce: quella della nostalgia, la cui luttuosa radice – ‘dolore per il ritorno (del passato)’ – mi è nota da tempo, per un insieme di motivi in cui aspetti delle mia vita pubblica e privata si mescolano inestricabilmente. Ma, mentre queste cicatrici nella vita privata sono state elaborate e fecondamente riattraversate sotto il segno dell’analisi, quelle pubbliche stentano a ‘guarire’.

Ecco, io spero che presto anche nel pubblico il frutto di questa funesta combinazione ceda il passo al suo opposto. E cioè ad un rinnovato spirito di benevolenza e di amicizia, che si sposi con una rivisitazione del passato, in cui la elaborazione del lutto mi, anzi ci conduca ad una rinnovata dialettica fra ciò che di meglio e di vivo viene dalla nostra ascendenza (il sol dell’avvenire!) e ciò che di nuovo emerge dagli odierni movimenti reali che mirano ad abolire lo stato di cose presente.

RE, 8.12.19

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