Paola Piva, ovvero: storia essenziale di  una fimmina un po’ troppo… anomala?

di Ivo Camerini

da: ASN-Cisl, MemoriaOnline, in https://online.cisl.it/arc.storico/FOV3-00018668/S09179928


Recentemente (2007) ho avuto occasione di conoscere personalmente Paola Piva, donna e sindacalista-intellettuale, molto nota all’interno della Cisl. Non mi sono fatto sfuggire l’occasione per un’intervista per il nostro spazio MemoriaOnline e ho chiesto  anche  a Lei di rispondere alle nostre classiche domande di storia orale intrecciata al commento sulla situazione odierna. Riporto pertanto qui di seguito domande e risposte della mia intervista. (Ivo Camerini)
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[Paola Piva in effetti 
dai sociologi trentini degli  anni '60 
è conosciuta come: Paola Toniolo (D.A.)]

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– Puoi ricostruirci, in maniera molto essenziale, una tua biografia di donna e di sindacalista intellettuale, che ha vissuto nella Fim-Cisl?.

Sono entrata nella FIM nazionale nel febbraio 1971 portata da Raffaele Morese. Mi aveva sconosciuto un anno prima a Salerno dove facevo formazione degli adulti in un centro di servizi culturali del mezzogiorno (gestione Enaip su mandato Formez). Credo che stesse reclutando quadri. Quando Raffale mi propone di lavorare alla FIM mi ero da poco sposata e vivevo a Roma con una borsa di studio all’Istituto Basso. Fui subito felice, sentivo che si presentava una vera opportunità. I compiti erano poco chiari, mi dissero che dovevo assistere la segreteria, partecipare a riunioni, ricordare impegni presi, scrivere qualcosa da utilizzare nei discorsi.

Pierre Carniti mi spiegò che il lavoro si sarebbe precisato in corso d’opera. L’inizio fu duro; capivo quasi niente dei discorsi a cui assistevo in silenzio. Un giorno, era venerdì, Pierre mi diede da scrivere un articolo sull’autonomia sindacale che doveva firmare su Rinascita. Passai un fine settimana terribile spremendo al massimo le mie capacità, alla fine ero soddisfatta del compito. Lunedì, mezz’ora dopo la consegna, Pierre mi convoca accigliato, secco: ”Perché vuoi farmi dire le stesse cose che dice Trentin, proprio su una rivista comunista? Non hai capito la nostra differenza?”. In effetti non vedevo chiaro. Intanto comincia per me un’altra avventura tutta personale: aspetto un bambino.

Fiduciosa nei compagni mi affretto a dirlo in segreteria, di nuovo accolta con freddezza. Qualche giorno dopo mi affidano un lavoro d’archivio: compilare la cronistoria della FIM per un libro che stanno scrivendo Gian Primo Cella e Bruno Manghi. Era un compito alla mia portata, però tagliava fuori dalla vita sindacale; l’ho sentito come una punizione. Tiro avanti pensando che li conquisterò lavorando presto e bene.

Ottobre ‘71 nasce mia figlia Chiara, ci organizziamo con baby sitter (mio marito faceva il pendolare con l’università di Salerno tre giorni alla settimana) e in dicembre torno alla FIM pronta per dare il meglio. Ma invece la mia collaborazione a part-time fu interrotta. Fu un’altra doccia fredda ….

Torniamo alla tua biografia essenziale di donna. Naturalmente,se lo vuoi: la tua carta d’identità e un tuo brevissimo curriculum vitae.

Nata a Bergamo, nel 1945, ho vissuto fino a 18 anni a Venezia. A Trento, Facoltà di Sociologia, ho partecipato al movimento studentesco con tre occupazioni che sono servite a conquistare il riconoscimento del titolo universitario. Era una delle prime esperienze di base nelle università italiane; lì ho imparato a gestire una trattativa, promuovere il consenso in assemblea e non farmi intimorire dai maschi; eravamo 8 ragazze su cento iscritti. Mi sono laureata nel 1967, venuta a Roma per lavoro (Ufficio studi Enaip), mi sono sposata, ho una figlia e da allora vivo qui. Dal 1971 al 1982 ho lavorato nella Flm nazionale, poi tre anni nella Fis-Cisl (sindacato informazione e spettacolo). Furono anni centrali nella mia formazione, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di passare a un lavoro “laico”, dove lo stipendio non dipendesse dalla appartenenza a schieramenti politici. Nel 1985 la Fondazione Labos mi ha chiamato a dirigere una scuola dedicata al welfare e fino al 1994 ho prodotto studi, corsi, dispense per lo sviluppo organizzativo di servizi sanitari, sociali, cooperative, terzo settore. Ho conosciuto molti  protagonisti delle riforme di quegli anni e gestori in tutta Italia; ho contribuito alla prima programmazione sanitaria, per il Ministro Donatt Cattin. Quando la Fondazione è andata in crisi, insieme a due socie più giovani ho dato vita a Studio Come, una s.r.l. che fa ricerca e consulenza sul welfare territoriale; stiamo anche in molti progetti di pari opportunità, insieme al sindacato, sia in aziende che enti pubblici. In parallelo ho avuto varie esperienze politiche: femminismo, consigliera comunale a Roma (1989-2003), eletta come indipendente di sinistra nell’allora Pci. Nel primo governo Prodi ho collaborato alla programmazione sociale per la Ministro Livia Turco. Sto facendo volontariato con Seniores in Africa.*

Entriamo nella tua esperienza sindacale. In quei primi anni settanta, quando la tua bimba comincia a muovere i primi passetti, tu  rientri in Fim, che ormai, dal 1972, era Flm. Furono “anni formidabili” anche per te?

Senz’altro formidabili anche per me. Infatti,finalmente, arriva la grande occasione: estate-autunno 1972 si prepara il rinnovo del contratto nazionale, dove si voleva inserire anche il diritto allo studio. In luglio vado a Madonna di Campiglio, sono formatrice nei corsi per delegati, 15 giorni con appresso una bimba di 10 mesi. Lì incontro i problemi di tanti giovani operai del nord, raccontano che di giorno lavorano e la sera vanno a scuola per conquistarsi un diploma, la fatica di stare svegli quattro ore sui banchi dopo 8 ore alla catena di montaggio, resistere per 4-5 anni studiando su testi antiquati, fatti per ragazzini. Sono d’accordo con loro, hanno diritto a studiare da adulti, valorizzando quello che imparano in fabbrica, perché il lavoro non è solo impegno fisico, è soprattutto maturazione umana. Del resto – penso in cuor mio – ho anch’io il mio doppio lavoro, di giorno al corso, sera e notte la mamma…. Entriamo in sintonia, stendiamo i documenti che in autunno porteranno a inserire il diritto allo studio nella piattaforma contrattuale. In quegli anni si parlava di come realizzare l’utopia indicata da Marx: metà studio, metà lavoro per tutti. E poi volevamo cambiare la scuola di classe, su questo avevo fatto la tesi di laurea. Trovai quello spazio che cercavo da mesi, mettere le mie competenze al servizio della classe operaia. Nell’ottobre 1972 nasce la FLM; fu un vero sindacato nuovo, non una semplice fusione e credo che questo abbia contato molto per me e per tanti giovani come me, che entravano senza portarsi dietro una storia politica forte, diciamo, senza radici organizzative.

Vivo alcuni anni correndo: piattaforme, assemblee di fabbrica in giro per l’Italia, mi faccio tanti amici, ho perfino un posto a sedere al tavolo delle trattative nazionali. Nel contratto entrano una riduzione di orario di 150 ore da spendere nell’arco di tre anni e per una formazione che duri almeno il doppio. A quel punto, bisognava conquistare un buon numero di corsi pagati dal Ministero e insegnati di qualità. Parte la vertenza al Ministero Pubblica Istruzione per ottenere i corsi di alfabetizzazione, scuola media e seminari tematici. Il nostro confronto era con la Direzione Generale Educazione Adulti, un comparto culturalmente arretrato, lontanissimo dal nuovo che avanzava nelle fabbriche. All’epoca, per prendere il diploma dell’obbligo, le scuole serali duravano 1500 ore spalmate in tre anni, noi volevamo corsi di 300 ore in un anno; ottenemmo corsi di 350 ore. Nell’autunno 1973 partirono 1.000 corsi, troppo pochi per le richieste che piovevano sui Provveditorati agli Studi, soprattutto al nord. Intanto viene istituito il Coordinamento nazionale 150 di cui divento responsabile; attorno a noi cresce il consenso del movimento studentesco e del sindacato scuola, con cui ci alleiamo subito per reclutare insegnati progressisti, elaborare una didattica confacente ai nuovi alunni: contenti, metodi, dispense, era tutto da inventare. L’anno dopo otteniamo 3.000 corsi, a seguito di un corteo sotto le finestre del Ministro Malfatti; era un politico accorto, riuscì a far ragionare l’apparato retrivo, ebbe la meglio sulle resistenze interne.

Il coordinamento nazionale era aperto; i sindacati provinciali designavano i responsabili 150 ore ma anche le grandi fabbriche potevano esprimere un delegato, pagava il viaggio lo mandavano alle riunioni nazionali. La formula senza filtro all’inizio consentì grande efficacia organizzativa, poiché si trattava di una materia contrattuale nuova, occorreva sfruttare l’effetto moltiplicatore del movimento dei consigli. Tra delegati e responsabili provinciali credo che negli anni d’oro si raggiunse un migliaio di quadri. Devo precisare che il sindacato di quegli anni non somigliava affatto a un’organizzazione spontaneista; le adesioni ai coordinamenti erano frutto di azioni capillari costruite con cura e la conduzione delle riunioni era vigile nel cercare un equilibrio tra direzione dal centro verso le fabbriche e raccolta di indicazioni da queste verso il centro. Molti documenti lo attestano; basterebbe rileggere le prime raccomandazioni inviate ai referenti delle 150 sul modo in cui andavano preparate le assemblee di adesione ai corsi, le riunioni con gli insegnanti, orari, sedi, materiali didattici. Tutto molto preciso. Ma, mentre questa cura dall’alto verso il basso era comune ai partiti di massa forgiati in epoca di centralismo democratico, nuovo era il processo inverso – almeno è così nel ricordo – che riconosceva potere di verifica a lavoratori e delegati, con un’ampiezza che non si riscontrava nelle direttive di partito. La democrazia diretta praticata nella fase nascente fu generatrice di energie, permise la rapida diffusione di uno stile di militanza fondato sulla presa della parola e sulla assunzione di responsabilità personale. Pensandoci adesso, considero straordinaria la distribuzione di responsabilità che in quegli anni permetteva a chiunque avesse una proposta valida di convocare riunioni, stampare, diffondere, agire. E l’idea era considerata buona quando socializzava, cioè metteva in connessione esigenze individuali per trasformarle in pensiero collettivo. Anch’io ho beneficiato di questo enorme spazio d’azione; ero giovane in mezzo a giovani, tutti in corsa per cambiare il lavoro, il paese, noi stessi. Le mie capacità vennero riconosciute. Diversamente da oggi, il fare era il merito, sul merito si costruiva la leadership.

Senza fare paragoni impossibili perché ogni epoca, in fondo, va valutata nel suo contesto, dettaglia ancora il tuo impegno di quegli anni.

 In quegli anni ho girato l’Italia per spiegare il senso di questa conquista. Per 3-4 estati in un vecchio albergo sul lago di Misurina organizzai corsi mirati ai delegati 150 ore, creando una comunità di quadri sindacali aperti al sociale. Sentivo di crescere con loro, parlavamo lo stesso linguaggio. Anche sul piano personale riuscivo a conciliare meglio la maternità; a Misurina venne Chiara Ingrao della FLM di Roma con una bimba piccola e insieme gestimmo molto meglio le figlie. Tre anni dopo il licenziamento, ottengo di essere riassunta a tempo pieno. Va notato che ero solo apparato politico, come si chiamavano allora i funzionari per distinguerli dalle segretarie, apparato tecnico e dai membri eletti in segreteria. Eppure godevo di enorme spazio d’azione; convocavo, scrivevo, trattavo, firmavo, tutto in nome e per conto della FLM. Alle spalle in segreteria garantivano Tonino Lettieri e Raffaele Morese, più tardi Pippo Morelli. Varie volte avvertivo però che la fiducia accordata era prossima all’abbandono. Pregavo Morese di venire alle trattative con il governo, almeno per mostrare ai delegati che la segreteria dava importanza a questo pezzo del contratto, ma il più delle volte diceva: vai tranquilla, basti tu.

Sulla linea delle 150 si aprivano divergenze dentro il coordinamento. Per esempio, il primo anno dei corsi dell’obbligo, ci fu il confronto tra scuola pubblica e scuola privata; Bruno Manghi a Milano difendeva la specificità delle scuole popolari con la grande tradizione della Società Umanitaria; voleva che le 150 ore potessero realizzarsi anche con quel canale, contro la linea pura del “tutto alla scuola pubblica”; su questo non mi è stato difficile mediare, abbiamo scelto il doppio canale, sapendo che poco per volta la scuola pubblica avrebbe prevalso, unica agenzia forte in tutta Italia. Tre anni dopo, il dibattito si sposta sulla scuola secondaria, tra chi voleva il biennio unitario per portare gradualmente i lavoratori al diploma e chi privilegiava i seminari, corsi tematici di durata variabile, da organizzare all’università e nelle scuole secondarie. Il mio compito era mediare, cosa che mi corrisponde, di fronte a posizioni che si presentano antitetiche tendo a cercare una terza possibilità e in genere funziona. Il biennio veniva osteggiato con un’obiezione ideologica, che sosteneva: “il diploma è una via individuale di emancipazione, le 150 sono per la cultura collettiva”. Questo argomento non era il mio, non accettavo contrapposizioni tra crescita individuale e coscienza collettiva; ma propendevo per i seminari, sia perché che i lavoratori avevamo troppo poche ore per investirle in una formazione lunga e in quegli anni non era possibile chiedere più permessi nei contratti, sia perché i seminari incontravano il gradimento di massa. Alcuni temi sbancavano, per esempio la salute. Soprattutto le lavoratrici stavano utilizzando le 150 per imparare, come si diceva allora, a “gestire il proprio corpo”. Le compagne di Torino, per esempio, dopo tre anni di seminari sulla condizione della donna (1975-76-77) il quarto anno lanciarono un corso sulla salute della donna che raccolse 1.300 iscritte; il sindacato torinese fu impegnato in 112 trattative e relativi accordi con le aziende, accordi con l’Ospedale Sant’Anna, medici del lavoro, esperti;vennero allestiti 67 gruppi, gestione di 10 seminari ciascuno con incontri settimanali. Quella fu un’esperienza unica, per l’ampiezza della partecipazione e per risultati; tutto il dibattito fu registrato, trascritto in quaderno, furono introdotti alcuni primi cambiamenti nella gestione dei consultori e l’anno dopo partì l’occupazione dell’ospedale che sfociò una riforma importante.*

La segreteria nazionale FLM mi lasciava sola a gestire la partita. Mi domandavo continuamente: è grande fiducia in me o basso investimento politico sul fronte delle 150 ore? Ben presto mi resi conto che la dirigenza era occupata su altri fronti, erano contenti del mio lavoro perché “tirava”, ma nella strategia sindacale le 150 ore erano un di più,  nelle vertenze un optional. Fuori dalla FLM spesso ero sola a vedermela con grandi forze non proprio amiche. Ai vertici confederali non piaceva che l’egemonia dei metalmeccanici debordasse fuori dalla fabbrica, altre categorie industriali avevano ottenuto i permessi per lo studio, la CGIL nazionale mise Aldo Bondioli a coordinarle, la FLM doveva rientrare sotto l’ombrello. Racconto un episodio che può dare l’idea dell’asprezza di alcuni conflitti interni; siamo in assemblea alla Camera del Lavoro di Roma, scontro con il segretario Misiti sull’allargamento dei corsi a casalinghe e disoccupati. Un intervento stava argomentando l’importanza di allargare i corsi a disoccupati e casalinghe, in quanto aggregare persone esterne alla fabbrica, portava valore aggiunto, non una diminuzione della forza contrattuale. Diceva: “sarebbe come restare delusi se, scavato un pozzo d’acqua, si trova il petrolio”. Quella volta Misiti risolse l’incontro staccando la corrente; assemblea al buio, microfoni spenti…. Anche il PCI con Chiarante responsabile della scuola, non voleva che il sindacato e in particolare i metalmeccanici avessero troppo spazio su un terreno ritenuto squisitamente politico, la riforma della scuola. L’accusa più frequente era che le 150 chiudevano gli operai in una sotto-cultura: corsi brevi, contenuti riduttivi, insegnanti ideologici e impreparati. Al contrario posso testimoniare il gran lavoro culturale che accompagnò quell’esperienza. Al nazionale con Alberto Cuevas, profugo cileno, mettemmo in piedi un archivio di materiali didattici che arrivavano da tutta Italia; con l’editore Mazzotta aprimmo una collana di manuali per insegnanti, si chiamava Lavoro e studio. Materiali per le 150 ore. Sicuramente era ancora poco (5-6 testi tra il 77 e il 78); avremmo avuto bisogno di anni per consolidare il nuovo approccio allo studio. Invece stava maturando la dismissione, ovvero il passaggio di questa materia contrattuale alle Confederazioni. Troppo presto secondo me. Tutti i sindacati europei ci invidiavano un’esperienza che venne identificata come la prima educazione di massa per adulti. Perché noi cercavamo di disfarcene? Secondo me conveniva investire di più; quando venne in segreteria Pippo Morelli trovai un grande alleato, lui ci credeva. Al tempo dei decreti delegati nella scuola (1974) elaborammo una strategia sulla partecipazione di lavoratori e lavoratici – in qualità di genitori – negli organi collegiali; pensavamo che i metalmeccanici avrebbero potuto gestire la riforma della scuola, insieme a studenti e insegnati. Pensavamo di espandere i legami costruiti in fabbrica per una progettualità fuori, nella società che stava cambiando e configurare il profilo del welfare, riforma sanitaria, riforma della casa, pensioni. Gli organi collegiali non decollarono e la democrazia a scuola collassò con il movimento antagonista del ’77.

Quell’anno ero così preoccupata che scrissi una lettera di ultimatum alla segreteria FLM: se non vi impegnate formalmente, restituisco l’incarico di responsabile 150 ore. Uscendo dalla sede sindacale, per l’agitazione, attraversai la strada di corsa e una moto mi investì in pieno. Rimasi a letto per due mesi.

E quando ritornasti in Flm, cosa successe?

Si andò avanti ancora per qualche mese sugli stessi binari, poi, nell’autunno 1978, la segreteria FIM decise che dovevo passare la mano alle Confederazioni.

Raffaele Morese mi precisò: “Ormai le cose sono impostate, vanno avanti da sole, tu sei più utile all’ufficio stampa, dove andrai a presidiare la rivista I consigli. Il tuo compito è far posto alla cultura fimmina”.

Ebbi chiarissima la percezione che stava facendo un grosso sbaglio. Le 150 ore cominciarono una stagione di lento abbandono organizzativo, proprio mentre l’unità sindacale entrava in crisi e nei tre sindacati prendeva slancio la ricerca delle rispettive radici culturali.

Se mi sono ben informato, tu non ti sei occupata solo delle 150 ore, ma hai partecipato anche alla nascita e al radicamento nel sindacato del movimento delle donne? Puoi  fare qualche accenno?

Dentro il sindacato unitario, in quegli anni era cresciuto un altro movimento: le donne. Bisogna fare un passo in dietro. Il 1975 era stato un anno straordinario per il femminismo, da piccoli gruppi ed esperienze di avanguardia si andava diffondendo ovunque, contagiando l’UDI e le donne cattoliche. I radicali avevano raccolto 600.000 firme per il referendum sull’aborto, il PCI aveva presentato una proposta di legge, la Corte costituzionale aveva legalizzato l’aborto terapeutico, il parlamento aveva approvato la riforma del diritto di famiglia, il 6 dicembre 1975 a Roma si era svolta la prima grande manifestazione di massa per “Aborto libero, gratuito, assistito”. Era la prima volta che andavo a un corteo di sole donne; faceva impressione quella massa enorme saltellante e urlante slogan strani. Mi unii al coro che diceva “aborto libero”, con una certa fatica, perché collegavo l’idea di libertà a cose belle non alla soppressione di un feto; feci silenzio quando le altre gridarono “l’utero è mio e lo gestisco io”. Ma l’esperienza fu travolgente, convinta com’ero che solo una grande forza poteva arginare lo strapotere del maschilismo, presente ovunque, a destra e a sinistra, nelle élites e nelle masse. Per me, come per tante altre, quel corteo consentì di trasferire in politica alcune sofferenze vissute fino ad allora a livello personale.

Riunioni di sole donne ne ricordi? 

Si, sempre nel 1975, fine dicembre, a Milano, ai margini di un’assise sindacale, ci diamo appuntamento con un gruppo di delegate per parlare tra donne, senza la presenza dei compagni. Superfluo precisare che nella FLM i dirigenti non erano più illuminati degli operai metalmeccanici in tema sessualità e maternità. Secondo me, nel sindacato dei consigli si era perso il nesso – che era stato forte nel dopoguerra – tra lotte per il lavoro e lotte sociali, ma la rete di collettivi femministi, autonomi rispetto alle organizzazioni storiche, stava contagiando le delegate. Questo scoprimmo nella riunione a Milano; c’erano molti gruppi di fabbrica, Torino, Milano, Verona, Napoli; discutevano di tutto, aborti bianchi, aborti procurati, sterilità dovuta a sostanze nocive, molestie e ricatti sessuali, orari incompatibili con la vita dei figli, scelte limitate; venne fuori soprattutto che , a fronte di un’enorme domanda di servizi sociali, asili, scuole a tempo pieno, sanità pubblica, i consigli di fabbrica restavano passivi, sembravano capaci di mobilitarsi solo per i problemi del lavoro. Così decidemmo di organizzare un coordinamento nazionale.

Diversamente dal coordinamento delle 150 ore, questo non fu deciso dalla dirigenza, ma dal basso. Ribaltammo la logica della commissioni femminili che, dal dopoguerra fino ad allora, aveva organizzato le donne nei partiti e nei sindacati.

Le referenti nazionali non furono incaricate dalla segreteria: Sesa Tatò (FIOM) ed io (FIM) ci assumemmo questa responsabilità semplicemente perché eravamo le uniche donne al nazionale, escluse le segretarie o apparato tecnico come si chiamava allora. Poi si aggiunse Irene Spezzano (UILM). Benché auto-designate, ricordo che l’organizzazione non fece resistenza, anzi ci lasciò lo stesso spazio di azione che avevo per il coordinamento 150 ore. Anche questa volta, come nel 1973, sperimentai l’efficacia di un agire per disseminazione. Una delle prime cose fu organizzare alla scuola sindacale di Firenze una settimana di formazione riservata a 22 delegate FLM, 6-11 settembre 1976. La preparammo con grande cura, traccia per la discussione molto articolata mandata in giro mesi prima, tre punti: 1. partire da noi, come viviamo dentro e fuori la fabbrica, per ripensare il lavoro a misura di donna, 2. metodi per mobilitare le lavoratrici e come stare nel sindacato, come emergere nell’organizzazione; 3. crisi economica, cosa possiamo portare nella battaglia politica generale*.

Uno schema tutto sommato classico, tipico delle organizzazioni di massa, ma vennero fuori moltissime esperienze pratiche, lotte già in corso, rubricammo tutto, spedimmo notiziari, si mise in moto un effetto comunicativo con estrema velocità. A distanza di poco tempo sorsero coordinamenti analoghi negli altri sindacati industriali.

Mi sembra importante notare che i due precorsi – 150 ore e donne – si sono intrecciate nella mia vita, come in quella di tante altre. Molte lavoratrici entrarono nel sindacato, poi divennero delegate e alcune dirigenti passando dalle 150 ore; contemporaneamente le sindacaliste entravano nei collettivi femministi, affascinate dalle docenti che insegnavano nelle 150 ore. Ricordo luoghi permeabili, spesso in conflitto che però comunicavano. Anch’io partecipo al movimento femminista di Roma; nel 77 entro nel collettivo “donne e politica” di Via Germanico, insieme ad altre sindacaliste. In particolare, ricordo l’attivismo e l’impegno di Cecilia Brighi,allora dei tessili CISL. Come me, c’erano varie figure-relay che transitavano da una sponda all’altra, per abbassare le reciproche diffidenze tra movimento operaio e femminista.

Nel 1977 organizzammo tre coordinamenti nazionali FLM (25-26 febbraio, maggio, fine dicembre). Il 2 dicembre volevamo ci fosse un pezzo di corteo di sole donne nella manifestazione a Roma, quella dei 200.000 metalmeccanici, contro la politica economica del governo Andreotti. Andò così. Mentre i collettivi discutevano se e come partecipare e le “autonome” rifiutavano di scendere in piazza col sindacato, mi recai al Governo Vecchio, un palazzo rinascimentale semi cadente occupato dal movimento romano. Spiego le difficoltà che le lavoratrici incontriamo nella FLM e la nuova politica che sta maturando nelle fabbriche, invito a darci forza, creando un’alleanza esterna, così che cresca un movimento di donne nelle fabbriche, nei consigli, nel sindacato. Mi sembrò di avere parlato bene, eppure ricordo la diffidenza con cui mi ascoltarono, nonostante – come ho detto – fossi una conosciuta dal movimento. Il giorno dopo, fu una vera sorpresa l’adesione massiccia. Il servizio d’ordine mi aveva assegnata alla stazione Tiburtina dove arrivavano le delegazione di Veneto, Lombardia, Emilia. Avevo un volantino che invitava le lavoratrici a confluire nel pezzo di corteo di sole donne; ricordo che alcune saltellavano di gioia, altre venivano riluttanti e dopo aver chiesto il premesso al capo-delegazione, tante si stringevano più forte al braccio dei compagni, come se l’orco volesse strapparle da casa. Per fortuna alla fine si formò un grande corteo, grazie soprattutto al femminismo romano presente con 20.000 militanti. Il 9 dicembre il parlamento approvò il disegno di legge di Tina Anselmi “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” (L.193/1977).  

Per noi l’insegnamento era chiaro: “nel sindacato siamo minoranza, ma si è materializzato un soggetto sociale nuovo, intenzionato ad affiancarci, se gli riconosciamo autonomia politica”.

 

E i leader sindacali di allora come lessero invece questo messaggio?

Questo messaggio – per noi incoraggiante – dai leader  sindacali venne letto alla rovescia: il femminismo resti fuori, non è cosa per le operaie. Non tutti però pensavano così. In FLM nazionale Pippo Morelli, mi appoggiava anche su questo, ricordo un alleato leale e consapevole. Un giorno andai a lamentarmi da lui per una delle solite tensioni con Franco Bentivogli, diventato segretario generale FIM dopo Pierre Carniti, che mi rinfacciava di non aver vissuto la dura realtà delle operaie. Gli chiedo: “Che devo fare? Sono donna e ho studiato, due cose irreversibili. Dimmi qual è il rimedio per calmare il mio segretario”. E lui: “Non c’è rimedio. Anch’io ho studiato, ma ho la scusante del sesso forte. Torna pure da me tutte le volte che ti serve.”

Era già un conforto; per me diventò più difficile influenzare la linea sindacale quando Pippo tornò in Emilia. Il contratto del 1979 fu la nostra cartina tornasole; infatti doveva,finalmente, inserire rivendicazioni espresse dalle donne su occupazione, salute, orario; le 40 ore di permessi retribuiti per padri e madri per accudire i figli malati divenne la nostra bandiera. Era la prima categoria industriale che introduceva un dispositivo per equilibrare tempo di lavoro e responsabilità familiari,  quando in Europa le politiche di conciliazione erano agli albori.

Come andò a finire?

Assemblea dei metalmeccanici a Bari 19-20 dicembre 1978: avrei preferito intervenire da sindacalista a tutto campo, ma le compagne mi affidarono l’intervento assegnato al coordinamento e ricordo che parlai con gran fatica, non solo in quanto i contenuti delle donne erano accolti con freddezza – a questo ero abituata – ma perché nel 1978 le crisi industriali incalzavano, sentivo che il sociale stava uscendo dall’orizzonte dei metalmeccanici. Nel contratto del 1979 le 40 ore furono il primo punto ad uscire dalla trattativa.

Spero non solo  per colpa dei sindacalisti uomini?

C’erano divergenze anche tra le donne, in particolare sul part-time. L’orientamento maggioritario (donne e uomini FIOM e CGIL) era nettamente contrario a inserirlo nelle vertenze; perché, dicevano, la flessibilità che chiede l’azienda si scarica sulle donne, approfitta della loro debolezza quando hanno bisogno di tempo, chiedono il part-time per un certo numero di mesi, ma poi scopriranno che non è reversibile, si troveranno nell’anticamera del licenziamento in caso di ristrutturazioni. La tesi era corroborata dai fatti, molte lavoratrici a part-time uscirono per prime. L’altro timore delle delegate era che la donna rinunciasse all’emancipazione; se tornava a fare per metà la casalinga, si sarebbe esposta al rischio di povertà e subalternità all’uomo. Argomenti che, riletti oggi, appaiono radicati in una visione statica sia della fabbrica, che dei rapporti sociali; a mio parare le delegate FIOM non credevano nella trasformazione degli assetti produttivi in mano ai padroni. In FIM, formate ad una cultura incline al negoziato in azienda, avevano fiducia nella possibilità di gestire orari differenziati, contrattare clausole favorevoli. Personalmente pensavo che bisognava comunque misurarsi con le domande delle donne; se – poche o tante che fossero – chiedevano al sindacato di contrattare l’orario parziale, non era compito nostro decidere per loro, farci paladine della loro emancipazione. In proposito, dopo un coordinamento donne FLM che non era riuscito a sdoganare il part-time dall’ortodossia, scrissi un articolo sul Manifesto in cui raccontavo come, nei corridoi, eravamo lì tutte a confidarci la voglia di orario parziale. Dunque, dicevo, partiamo da noi, misuriamoci con la domanda reale, proviamo a gestire un part-time reversibile. Molte telefonano per dirmi che avevo ragione, ma questa posizione aveva scarse possibilità di successo, presa in mezzo tra il disinteresse della FIM per i problemi delle donne e la campagna lanciata dalla CISL per l’aumento degli assegni familiari. In pratica, l’investimento era concentrato sull’occupazione dei maschi, adulti, possibilmente sposati.

Sul piano personale, come ne uscisti?

La segretaria FIM mi ritenne subalterna alla componente comunista. Oggi penso che, se il tema fosse entrato nell’agenda del movimento sindacale, come avvenne in altri paesi europei, oggi avremmo un mercato del lavoro e un paese diverso, meno distanti dall’Europa.

Ritorniamo alle divergenze e all’impegno unitario del movimento delle donne nel sindacato di quegli anni fine 1970 e primi 1980.

In molte occasioni i dirigenti cercavano di sfruttare queste divisioni, ma le alleanze trasversali tra donne hanno retto a lungo, più a lungo dell’unità sindacale. Rispetto alle semplificazioni del pensiero maschile, le delegate sapevano interpretare in modo più ampio i bisogni dei lavoratori; lottavano per un’emancipazione integra, di tutta la persona. Il rapporto tra conquiste in fabbrica e riforme sociali fu un’intuizione importante nella FLM nei primissimi anni, che però le donne continuarono a portare avanti da sole. Penso che l’idea di riscatto che ruotava intorno alla figura dell’operaio massa, era limitata alla “cittadinanza in fabbrica” e forse per questo i consigli di zona ebbero vita breve. Per esempio, la FLM abbandonò presto l’idea che una quota del salario e una quota di profitto (le “contribuzioni aziendali”) potessero finanziare servizi collettivi, programmi per la vivibilità del territorio in cui era insediata la fabbrica. Secondo me le donne captavano i cambiamenti sociali molto meglio degli uomini. Si veda la rivista i Consigli del 1978, numero unico intitolato “Donna. Tra casa e lavoro” e ancora gli atti del convegno internazionale “Produrre e riprodurre”, promosso dall’Intercategoriale di Torino nel 1983, cui parteciparono rappresentanti dei maggiori paesi industrializzati.

Le trasformazioni nel modo di produrre della grande fabbrica (lavoro in frantumi, lavoro diffuso) stavano andando di pari passo con modifiche negli assetti sociali: nuovi stili di vita, consumismo, libertà soggettiva, ecc.. I documenti ufficiali raccontavano le gesta di due macro-protagonisti, padroni e classe operaia, legati a opposti destini: avanzare o arretrare. Fulcro del dibattito era capire quale fosse il luogo del conflitto principale, proprio mentre tante donne e uomini stavano praticando strategie miste, per conquistare posizioni più umane e meglio remunerate e intanto riorganizzare la propria esistenza e conciliarla con il lavoro. Mentre le delegate conducevano esperienze sociali in fabbrica e sapevano dialogare con pezzi di società, il sindacato nel suo insieme restò un passo indietro, proprio in quanto avrebbe dovuto apprezzare quanto di buono stava maturando nella società italiana, per vedere risorse e non solo conflitto.

La massima divergenza tra donne e uomini emerse nel maggio 1981 sul referendum abrogativo dell’aborto (L.194/78). Pierre Carniti aveva impegnato formalmente tutta la CISL a non fare dichiarazioni di voto; il coordinamento femminile CISL era consapevole che si stava giocando una partita troppo importante e face un documento che, pur rispettando la consegna, era di apertura. Il coordinamento donne FLM, privo dell’appoggio dei compagni FIOM (compresi quelli più radicali come Claudio Sabattini) adottò una linea prudente, per tenere aperto il dibattito. Sono andata in segreteria dicendo: noi per ora non diamo indicazioni di voto, ma andremo nelle fabbriche, perché l’aborto interessa tutti, uomini e donne; voi dite che non è un tema sindacale, vedremo cosa pensano i lavoratori. In aprile facemmo molte assemblee; io privilegiai le fabbriche del sud. La tensione era alta; le delegate mi chiamavano come donna del coordinamento, ma Franco Bentivogli aveva precisato che parlavo a titolo personale e disposto che fossero sospesi i rimborsi di viaggio fino a dopo il voto. Quelle assemblee furono per me una grande riprova della sensibilità dei lavoratori, soprattutto degli uomini. Parlavano poco, lasciavano alle donne la difficoltà di dare voce a istanze profonde, ma il loro silenzio era più che attento; avvertivano qualcosa di importante che stava trasformando relazioni sessuali, maternità e paternità; si stavano rendendo conto che tanti, troppi eventi sfuggivano al controllo operaio, s’interrogavano sulla parzialità delle loro battaglie. Chiedevano, me lo ricordo con precisione, di tenere aperto il dibattito anche dopo il referendum*. Forte di questa verifica, il 9 maggio, una settimana prima del voto previsto per il 17, i coordinamenti donne FLM, FULC (chimici) e FULPC (commercio) hanno diffuso un appello a tutte le strutture unitarie dei sindacati in difesa della L.194/1978. Il successo dei no al referendum mi ha salvato dalla rottura con la segreteria. Mi è stato riportato che anche la segreteria nazionale CISL brindò alla vittoria.

Non mi risulta, almeno per le fonti che conosco io; ma comunque ritorniamo alle questioni portate avanti dal movimento delle donne.

Tutti sapevano che la vittoria del sì avrebbe causato un arretramento politico, ma ci avevano lasciato sole nel sostenere il confronto.

Diritto allo studio, permessi per i figli, riforme sociali, un continuum di occasioni mancate; orami percepivo il sindacato come un aereo che perde pezzi, vola sempre più basso, sta andando a sbattere. La botta arrivò con la ristrutturazione in FIAT. Durante i 35 giorni della vertenza mi sono ritrovata anch’io su un palco a Torino, chiamata a incoraggiare le lavoratrici; fu difficile dire qualcosa di sensato, dentro di me pensavo che occorreva ben altro. Sentivo l’impotenza dietro la dimostrazione rituale della forza di classe; sentivo soprattutto che al sindacato mancava la cultura della trasformazione. Com’è noto, la sconfitta alla FIAT fu uno choc per tutti. Nel 1980 insieme a Ritanna Armeni conducemmo un’inchiesta su come stava cambiando l’idea del lavoro nei metalmeccanici; venne fuori una mescolanza di culture, che attraversava le generazioni, il nord e le fabbriche meridionali, professionisti e dequalificati*. Facemmo un lavoro elegante, che tuttavia spiegava molto poco e non indicava le leve per il cambiamento.

Cominciai a dubitare della mia preparazione culturale. In quegli anni avevo imparato moltissimo sulla condizione operaia dal lato della soggettività, mentre sapevo poco di industria. Avevo girato tantissime fabbriche, meccanica leggera e pesante, cantieri e siderurgia; vedevo la gente e capivo cosa muoveva la ribellione, dove nasceva il fronte comune; però non avevo strumenti per leggere i processi, per capire come si interviene sui modelli produttivi. Un aspetto strategico su cui misuravo la mia totale ignoranza.

Suvvia…,non credo al tuo essere ignorante in questo campo! … ma ritorniamo alla tua storia personale dentro l’organizzazione sindacale.

Intanto,sul finire del 1981, la FIM aveva deciso di cedermi al sindacato dei poligrafici. Preparato alle mie spalle, accettai il passaggio perché sapevo di avere esaurito il mio compito; dovevo istruirmi prima di potere tornare ad essere utile. Era il febbraio 1982, alla FIS (sindacato informazione e spettacolo) trovai un ambiente culturale meno stimolante e apertamente maschilista; si vantavano di mettere le donne al loro posto, in ginocchio. Visto che avevo poco spazio, sfruttai l’occasione per studiare. Ricordo il giorno in cui decisi di mettermi a leggere di organizzazione del lavoro, un tema che i poligrafici conoscevano meglio dei metalmeccanici. I primi testi provocarono nella mia testa una rivoluzione copernicana; scoprivo che ogni soggetto può cambiare qualcosa della realtà in cui è immerso, se conosce le regole del contesto e agisce in sintonia con la produttività dell’organismo, se entra nei processi che fanno crescere il sistema. Bloccarlo, impedirne le finalità, conduce quasi sempre in un vicolo cieco. Nel mio programma di studio ero partita con scetticismo, magari – pensavo – hanno ragione i metalmeccanici, le imprese sono governabili solo dai padroni; forse non c’è altra via che la rivolta. Però – come scrissi sulla testata del mio nuovo quaderno – la cosa era determinate e andava verificata. Non potevo più stare nel sindacato e meno che mai nei coordinamenti delle donne continuando a raccogliere soltanto la soggettività; era tempo di andare a vedere come gestire diversamente la produzione. Nella FIS ho resistito tre anni, ma la cultura organizzativa mi è servita fino ad oggi.

Insomma, se ho ben seguito, la tua è una storia da fimmina un po’ troppo anomala…, ma tuttavia molto significativa avendo saputo intrecciare elaborazione teorica e  prassi sindacale. Potresti quindi concludere il tuo racconto con una riflessione sull’oggi e sulla validità dell’impegno sindacale in questi nuovi tempi che le giovani donne sono chiamate a vivere?

La FLM fu una grande scuola per una miriade di persone, dentro e fuori la fabbrica. Chi aveva energie buone, poteva farle fruttare, trovava continue occasioni per associarsi, produrre eventi che lasciavano il segno. Ricordo che non ero mai sola. Oggi diremmo, abbiamo vissuto in una vasta comunità di esperienza. Ma fu una stagione breve, brevissima.

La generazione di quegli anni è testimone di un declino. Per me, è cominciato quando diventò maggioranza chi diceva: da fuori può venire solo un cambiamento in peggio, perché le nostre conquiste sono il punto più alto. Se avremo ancora forza e tempo ci occuperemo di quelli più disgraziati di noi. Ora dobbiamo alzare il cartello “non si tocca”.

Anche oggi, come allora, manca al sindacato una teoria della trasformazione globale, capace di leggere insieme il sistema-lavoro e il sistema-società, il nesso tra la crescita dei soggetti e i cambiamenti di struttura.

La complessità travolge vecchi schemi, immigrati e sotto-proletariato entrano nelle aziende più moderne, frantumando contratti e garanzie. Sembra impossibile ricostruire quel tessuto solidale, tra operai e impiegati, tra occupati e disoccupati, tra il dentro e il fuori, che fu l’anomalia dei primi anni ‘70. L’economia globale disarticola le roccaforti. Una nuova questione sociale è sotto i nostri occhi, le disuguaglianze si allargano a ritmi impressionanti. Non ho idee forti da consegnare alle giovani donne e al sindacato di oggi, se non forse questa sola: ripartire dal reale, tornare sul campo, nei luoghi di lavoro e dove lavoratrici e lavoratori si gestiscono problemi quotidiani basandosi sulle risorse personali.

Non conviene aspettarli in sede; non verranno.

La FIM mi ha trasmesso la passione per il reale e quando l’ideologia, il progetto, non è più in grado di incidere con efficacia, non serve chiudersi nelle stanze a riscrivere il progetto, occorre tornare là dove si forma il legame sociale. Ricominciare a vedere, ascoltare, tessere legami nel lavoro, nel quartiere, nelle comunità professionali e di vita. E poi non basta indignazione e denuncia; occorre comprendere dall’interno i meccanismi della produzione, sia dal lato dei vincoli che delle opportunità.

Sono convinta che il benessere delle persone, oggi proprio come ieri, è intrecciato con la qualità del lavoro, una qualità che va costruita in sintonia con i cambiamenti sociali. Da ricostruire, senza posa, al ritmo delle trasformazioni mondiali.

Grazie, cara Paola, dell’intervista e auguri per i tuoi impegni odierni che, a quel poco che conosco, sono ancora tanti.

Ivo Camerini

N.B. :Le foto relative a Paola Piva sono di provenienza del suo Archivio  personale. Coloro che vogliono riprodurre quest’intervista possono farlo a condizione che citino la fonte:                                    ASN-Cisl, MemoriaOnline, in: https://online.cisl.it/arc.storico/FOV3-00018668/S09179928

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* Approfondimenti di questo percorso professionale e politico di Paola sono recuperabili nelle seguenti pubblicazioni:

G.P. Cella, B. Manghi, P. Piva (1972), Un sindacato italiano negli anni sessanta. La FIM-CISL dalla associazione alla classe, De Donato, Bari.

  1. Armeni, P. Piva (1980), Noi vivremo del lavoro. Viaggio al tramonto di un mito, Ed. Lavoro, Roma

M.Chiesi, P.Piva (1988), Guida alle azioni positive. La gestione delle differenze uomo-donna nelle aziende, Ed. Lavoro, Roma

  1. Piva (1993), L’intervento organizzativo nei servizi socio-sanitari, Nuova Italia Scientifica, Roma
  2. Colombo, P. Piva, M.P. Profumo (1993), Vita da consigliera, supplemento “Politica ed economia”, n. 2 settembre, Donzelli, Roma.

P.Manacorda, P. Piva (1984), Terminale donna. Le donne di fronte alle nove tecnologie. Ed. Lavoro, Roma

  1. Piva (1994), Il lavoro sessuato. Donne e uomini nelle organizzazioni, Anabasi, Milano
  2. Toniolo Piva (2001), I sevizi alla persona. Manuale organizzativo, Carocci, Roma,
  3. Toniolo Piva (2002), Buone pratiche per la qualità sociale, Ediesse, Roma
  4. Casale, P. Piva (2005), Lavorare con piacere. Equilibrio tra vita e azienda, Ediesse, Roma

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* Per approfondire, cfr.:CGIL-CISL-UIL, Fare la differenza. L’esperienza dell’intercategoriale donne di Torino. 1975-1986, Edizioni A. Manzoni, Torino, 2007.

* Per approfondire, cfr.:Flora Bocchio, Atonia Torchio 1979, L’acqua in gabbia. Voci di donne dentro il sindacato, Milano, La salamandra, pp.177-182.

* Per un resoconto più ampio si può consultare la rivista di Ernesto Balducci, Bozze, n.6/7, 1981, “Come se n’è discusso nelle assemblee in fabbrica”, pp.49-54.

* Per approfondire,cfr.:R. Armeni, P. Piva , Noi vivremo del lavoro. Viaggio al tramonto di un mito, Ed. Lavoro, Roma, 1980.

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