Rifare Bretton Woods

Rifare Bretton Woods

di Mario Pirani, da La Repubblica del 17 Settembre 2011

Per troppo tempo ci cullammo sulla irripetibilità di una catastrofe come quella apertasi nel 1929 a Wall Street per estendersi al resto del mondo industriale e all’Europa. Nei tempi che seguirono, se 1’America riuscì a rimettere in moto gli investimenti grazie al “New Deal” rooseveltiano, nel Vecchio Continente si imposero regimi autoritari, dal Reich hitleriano all’Italia mussoliniana,dall’Urss agli Stati balcanici, raccogliendo la sfida a modo loro. Da noi la stabilizzazione fu raggiunta con misure drastiche: i Buoni del Tesoro, furono consolidati nel prestito del Littorio, i salari tagliati del l2%,la lira  rivalutata con una ferrea politica monetaria a quota 90 nei confronti della sterlina. Hitler per combattere la disoccupazione istituì 1’Esercito del Lavoro e avviò il programma di riarmo. Stalin accentuò i caratteri dittatoriali della pianificazione centralizzata. Nell’assieme, peraltro, gli effetti della crisi del ’29 svanirono solo allo scoppio della seconda Guerra mondiale grazie all’enorme afflusso degli investimenti bellici. Con la fine del conflitto e 1’imporsi dell’egemonia Usa, le classi dirigenti del mondo occidentale seppero infine ripensare alla tragica esperienza del decennio apertosi con la crisi del ’29. Agli Stati sconfitti, cui nel 1919 era stato imposto il gravoso pagamento delle riparazioni di guerra, vennero, invece, offerti nel 1947, con il piano Marshall, i mezzi per una ripresa che si rivelò miracolosa.

Ma ciò che stabilizzò un nuovo sistema di regole nelle relazioni monetarie, finanziarie e commerciali tra i principali Paesi industrializzati del mondo occidentale furono gli Accordi di Bretton Woods, sottoscritti da 44 Paesi dell’Onu (1-22 luglio 1944) da cui uscì un sistema di standard aureo, basato su cambi fissi fra le valute, tutte agganciate al dollaro come moneta di riferimento, il cui valore era a sua volta assicurato dal metallo giallo detenuto materialmente nelle riserve di Fort Knox.

Questo permetteva in linea di principio a ogni Paese di chiedere al Tesoro Usa di cambiare in oro le proprie riserve cartacee in dollari. Il cambio dell’oro venne fissato a 35 dollari 1’oncia (1’ultimo picco odierno registra 1.855 dollari 1’oncia!). La cooperazione atlantica, malgrado le sue incoerenze, fu decisiva per non ricadere nelle guerre doganali, svalutazioni competitive, conflitti commerciali che avevano caratterizzato 1’epoca precedente la prima Guerra mondiale.

Gli straordinari risultati delle economie del mondo libero fornirono la prova di una ricetta che coniugava la libertà degli scambi con un assieme di regole internazionali e nazionali che assicuravano una “governance” efficace. Eppure vi era un tallone di Achille: Bretton Woods non poneva alcun controllo sulla quantità di dollari emessi, il che permetteva agli Stati Uniti di inondare il mercato di biglietti verdi, scaricando 1’inflazione americana sul resto del mondo. A giustificazione Wa-shington contrapponeva un convincente argomento politico: 1’America in tal modo si faceva carico delle enormi spese di difesa per la sicurezza del mondo libero.

Ma all’inizio degli anni Settanta la guerra del Vietnam incrementò grandemente la spesa pubblica degli Stati Uniti, 1’indebitamento Usa verso il resto del mondo crebbe, diffondendo oltre misura 1’inflazione intenzionale, aumentarono da vari Paesi le richieste di conversione delle riserve in oro, assottigliando il Tesoro Usa di ben 90 mila tonnellate. Di fronte alla drammaticità di questi dati il 15 agosto 1971 il presidente Nixon annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Da quel momento le monete, compresa quella americana, non ebbero più alcun aggancio fisso con un bene reale che ne “controfirmasse” il valore. Nel dicembre del 1971 1’accordo dello Smithsonian mise fine al sistema di Bretton Woods, lo standard aureo venne meno, dando il via alla svalutazione del dollaro e alla fluttuazione dei cambi. L’epoca delle certezze monetarie era finita. Ci vorrà qualche decennio per comprendere cosa comporterà il tramonto della “governance” messa in piedi a Bretton Woods. In suo luogo si sono affermate certezze illusorie, filosofie dello sviluppo basate sulla crescita esponenziale del debito pubblico e privato, presunto moltiplicatore di ricchezza, lo sfrenato erompere di abnormi fantasie di azzardo finanziario su scala mondiale prive ormai di ogni controllo.

Su tutto trionfò 1’impronta della globalizzazione, 1’immediatezza anarchica delle sue decisioni, il dominio dei flussi informativi in tempo reale, il venir meno della capacità egemonica degli Stati Uniti, sempre meno in grado di elaborare e imporre decisioni generali malgrado 1’autodeflagrazione del mondo socialista.-

L’unico tentativo serio di riprendere la guida di uno sviluppo programmato, almeno regionale, fu la creazione dell’Euro e dell’Unione monetaria nel 1999. Si trattò di un voluto azzardo. Occorreva, come per gli accordi di Bretton Woods, che fosse accompagnato da un sistema di garanzie reali. Queste non potevano consistere che della messa in atto di un governo unico delle politiche fiscali e di bilancio dei Paesi dell’Euro. Cosi non avvenne, la Costituzione europea fu respinta, il degrado dei gruppi dirigenti spogliò Bruxelles di ogni forza propulsiva.

Invece di rafforzare e rendere omogenee e compatibili le politiche di bilancio, le adesioni vennero allargate a Paesi che erano ben lungi dalla possibilità di una loro corretta applicazione. Venne incoraggiata 1’indisciplina anche di altri Stati. Quando dopo la crisi americana la fragile garanzia dei debiti sovrani fu evocata come diga di salvezza per Eurolandia, rapidamente emerse 1’inconsistenza cartacea ma ancor più politica, almeno per molti paesi, di quella presunta barriera di difesa. L’Euro, anzi, si è mutato in nodo scorsoio per Paesi che non possono più svalutare. Di qui il disperato SOS alla Germania perché spenda le sue forze per allentare il nodo.

I cittadini della Repubblica federate si chiedono e chiedono criticamente alla Merkel perché debbano svenarsi per pagare tasse, pensioni e tributi in luogo dei loro vicini del Sud. Essi non colgono che una rottura dell’Euro avrebbe per 1’economia tedesca, strutturalmente inserita in quella europea, a cominciare dalle banche, un costo dieci volte più alto del più caro dei salvataggi. Per convincerli occorre una risposta in positive che indichi la via di una ripresa dello sviluppo, oggi solo uno slogan privo di contenuto. Una svolta radicale è pur tuttavia possibile anche se il discorso è difficile. Fin dal suo avviarsi l’Unione monetaria  conteneva un detonatore esplosivo che i dettami di Maastricht sui rapporti tra debito, deficit e Pil dei singoli Paesi non mettevano in sicurezza per inefficacia di controllo. Come poteva reggersi la coerenza di una moneta unica se i bilanci dei Paesi membri non seguivano una politica concordata e compatibile che assicurasse analoga solidità ai debitori sovrani? Senza questo argine verificabile sarebbe venuto il momento in cui i mercati avrebbero avuto gioco facile a forzare il default (incapacità di far fronte al debito) contro un Paese che non poteva più ricorrere alla stampa di carta moneta e alla svalutazione per far fronte alle difficoltà. L’aumento degli interessi del debitore avrebbe, come sta avvenendo, aumentato le sue difficoltà fino a un livello giudicato insopportabile. Se vi è 1’intenzione effettiva di mantenere 1’Unione, i mercati devono, invece, trovare costoso l’attacco ad un Paese in difficoltà: 1’unico modo di riuscirvi è se la banca centrale dell’unione si trasforma in… banca centrale nazionale che supporta 1’acquisto di titoli del Paese in difficoltà così come farebbe una qualsiasi banca centrale nazionale di un paese che non fa parte di una unione monetaria. Con ciò accettando anche un possibile deprezzamento della valuta dell’Unione, come 1’euro. La Banca centrale potrà cosi dirsi meno indipendente dai governi ma avrà, in tale situazione eccezionale, salvato la sua stessa esistenza.

Cosa chiedere in cambio al Paese che viene cosi salvato e cosa ai paesi salvatori? Dalla risposta dipendono le sorti della democrazia europea. Non basta appellarsi ad un rigido risanamento delle finanze pubbliche del debitore. L’austerità fiscale, oltre un certo limite, ne affosserebbe del tutto 1’economia e renderebbe il ripagamento del debito impossibile. Inoltre i Paesi virtuosi e i mercati non ne sarebbero convinti. E necessario al contrario un grande piano di coordinamento e sviluppo che sposi lo spirito di Bretton Woods in chiave europea a quello di Maastricht, da cui scaturisca dunque che i Paesi europei si coordinino per una politica comune, in equilibrio di bilancio e con precisi obblighi. II motore dello sviluppo andrebbe avviato grazie all’ aumento della domanda aggregata nel Continente. Spesa pubblica per acquisti e infrastrutture innova-tivi, finanziati con tassazione per non ingenerare il sospetto che il debito possa crescere ulteriormente, hanno effetti particolarmente benefici, come insegno Keynes, specie quando le economie, come oggi, si trovano vicine alla trappola della liquidità con tassi d’interesse prossimi allo zero ma senza effetto sulla domanda e sugli investimenti. In questo caso la maggiore spesa pubblica non aumenta i tassi e non scoraggia dunque la domanda privata. Potrebbe, quindi, avverarsi quella ripresa senza inflazione da tutti auspicata ma da nessuno finora, praticata.

 

 

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