IREN 1 – Referendum acqua. Perché difendere la volontà degli elettori

di Ugo Mattei, dal sito nazionale di ALBA

A un anno dal referendum di giugno, la Corte costituzionale è ancora una volta chiamata, nell’udienza di oggi, a farsi portavoce delle istanze democratiche e della difesa dei servizi pubblici locali contro l’ultimo tentativo del governo Berlusconi di privatizzazione di questo segmento.

Trascorsi pochi mesi dalla consultazione referendaria, nella quale era emersa chiara la volontà degli elettori di invertire la rotta rispetto alle svendita dei beni comuni, il Governo ha introdotto, con urgenza e senza dibattito parlamentare, con l’art. 4 del d.l. n. 138/2011 una disciplina che, non solo per il suo contenuto ma addirittura per il tenore letterale, ricalca l’art. 23 bis, abrogato da 27 milioni di italiani, imponendo, con un attacco diretto ai processi democratici del Paese, la privatizzazione a data certa di tutti i servizi pubblici locali, fatto salvo il servizio idrico integrato.

Rispetto a questa scelta, il governo Monti si è mosso in piena continuità, sostenendo i processi di privatizzazione e di dismissione di patrimonio pubblico come uniche vie di risanamento della situazione economica nazionale.

Contro il tradimento dell’esito referendario e la reintroduzione dell’obbligo di privatizzazione dei servizi pubblici locali, la Regione Puglia ha subito accolto l’appello pubblicato il 31 agosto dello scorso anno su questo giornale a firma dei giuristi Ugo Mattei ed Alberto Lucarelli per impugnare la norma indicata in via diretta dinanzi la Consulta.

La difesa della Regione ha prima di tutto chiesto di tutelare in maniera effettiva lo strumento del referendum, mettendo al riparo la volontà degli elettori dai tentativi parlamentari di sovvertirne la portata: per questo, il riconoscimento della legittimità ad agire della Regione è un passaggio cruciale, se si considera che, in caso contrario, non vi sarebbe alcun soggetto titolato a proporre queste istanze dinanzi al giudice delle leggi. Il comitato referendario, infatti, come affermato da giurisprudenza costante della Corte, cessa di esistere espletate tutte le pratiche inerenti la consultazione popolare e, per questo, non può difendere i risultati ottenuti presso le sedi giudiziarie competenti. Evidentemente ciò genera una messa tra parentesi dell’art. 75 della Costituzione, la cui portata ne uscirebbe svilita se non si potesse tutelare in alcun modo l’esito referendario.

Va anche detto che l’art. 4 del d.l. n. 138/2011 comprime il diritto dell’ente territoriale di erogare i servizi e di gestire beni a favore della propria comunità, marginalizzando le ipotesi di gestione diretta attraverso soggetti di diritto pubblico e contravvenendo alla stessa tradizione storica dei servizi pubblici locali in questo Paese, la cui disciplina ha sempre avuto un collegamento essenziale con le comunità di riferimento, seppur all’interno di una cornice giuridica generale statale. Con l’art. 4, al contrario, il governo ha adottato una vera e propria espropriazione delle funzioni in capo agli enti locali e non ha tenuto conto degli spazi di intervento che il diritto comunitario lascia a tali soggetti nell’organizzazione dei servizi. Così facendo, il Governo ha voluto restaurare un ordine improntato al monismo giuridico statalista, che di per sé non è più compatibile con l’ordine costituzionale vigente, fatto di una dialettica complessa fra Costituzione, Trattati Europei, obblighi internazionali e competenze riservate agli enti locali.

Spetta dunque alla Corte sancire l’illegittimità dell’art. 4 del d.l. n. 138/2011, nella speranza che i successivi interventi di riordino della materia sappiano tenere conto delle novità politiche ed istituzionali introdotte dal referendum, attraverso una disciplina del rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi di interesse generale rispettosa della volontà popolare e coerente con il dettato della nostra Costituzione.

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