Giovani impegnati di ieri e di oggi

Dino Angelini

18.6.12

Da giovane leggevo Rinascita, il settimanale del PCI che quasi settimanalmente riportava articoli sulla diatriba fra engagement (impegno) e désengagement (disimpegno) che in Francia opponeva molti intellettuali vicini alla sinistra.

Io ero per l’engagement, e provavo un moto di ripulsa nei confronti di coloro che si dicevano di sinistra e teorizzavano “le désengagement”.

Da noi ancor prima del ’68 l’opzione per l’impegno era diffusa nelle università: si addensava nei “gruppi minoritari” e nelle riviste che, a partire da Quaderni Rossi, andavano nascendo qua e là per l’Italia.

Il mio amico Mauro Rostagno prima di venire a Trento era stato un ragazzo di bottega dei Quaderni Rossi: uno di quelli che facevano volantinaggio davanti alla FIAT. E noi studenti “trentini” di sociologia eravamo, nell’area maggioritaria della FGS Psiup – ma anche all’interno della FGC – vicini a quell’insieme di giovani attratti dalle nuove analisi che provenivano da riviste quali Quaderni Piacentini, Potere Operaio (la rivista pisana, che non c’entra con il gruppo che venne dopo il ‘68), Nuovo Impegno, Classe operaia, etc., e da intellettuali come Franco Fortini, Bellocchio, la Cherchi, Stefano Merli, Edoarda Masi, Enrica Collotti Pischel, e, per noi trentini, Pino Ferraris e Vittorio Foa che venivano spesso a trovarci.

Mentre i cattolici leggevano avidamente riviste “eretiche” di area quali: Il Gallo, Questitalia, Testimonianze, etc. –

Tutti ci sentivamo fortemente attratti dalla parola e dall’esempio di Don Milani, che può essere definito come uno dei padri del ’68 italiano. Attratti dall’esempio di Don Milani, ma anche da quello di quasi tutti questi intellettuali che avevano – come Don Milani – uno stile di vita che non è esagerato definire “francescano”.  Uno stile di vita che era alla base del rigore, ma anche dello spirito settario e intollerante, che in fondo ancor oggi è riscontrabile in molti di noi.

Un’altra delle nostre caratteristiche, che sento permanere dentro di me, è il “dovere” di schierarsi, sempre! La lettura dei giornali ogni mattina si accompagnava (e, lo confesso, nel mio caso si accompagna ancor oggi) ad una serie di opzioni pro o contro che non ammettevano, (e non ammettono) sfumature.

In questo modo tutta la vita risultava come recintata: era impossibile avere una ragazza al di fuori di questo recinto, vestire o fare delle vacanze “borghesi”. Era “vietato” da un super-io interno frutto di queste introiezioni anche praticare degli sport borghesi (come ad esempio il tennis). Eccetera.

Insomma eravamo incardinati all’impegno a partire da questo insieme di opzioni fortemente scissionali, in base alle quali tutto il bene era dentro di noi; tutto il male fuori. Proprio come diceva una canzone di Fortini, che alludeva ad un altro dei nostri miti, la Resistenza: “Tutto il male avevamo di fronte! Tutto il bene avevamo nel cuore”.

E veniamo ai giovani d’oggi: apparentemente sono disimpegnati (désangagés), mille miglia lontani dallo stile di vita e dai miti di quella gioventù che fece il ’68; ma in effetti le cose non stanno proprio così.

Intanto c’è una parte di essi che pratica il proprio impegno con modalità non molto diverse da quella “militanza” che contraddistinse la mia generazione: sono i giovani dei centri sociali, engagés sui grandi temi politici ed ecologici dell’oggi: le politiche contro il neoliberismo, il lavoro, i beni comuni, la cittadinanza, la partecipazione, il no alle grandi opere, etc. –

Una delle caratteristiche che questa parte della gioventù odierna ha mutuato dallo stile di vita dei giovani impegnati del passato è il francescanesimo hard che li porta, ad esempio, a non terminare gli studi, a vivere in luoghi liminali che rimandano sine die l’accesso all’età adulta. Con la differenza sostanziale però che, in mancanza di un punto di approdo certo e sicuro all’età adulta (che invece noi avevamo), la loro situazione rischia di risultare più o meno coattivamente cristallizzata su questo versante della vita.

Diversa è la situazione di moltissimi giovani non disimpegnati, ma semplicemente impegnati “da un’altra parte” rispetto a quella in cui noi avremmo preferito ch’essi fossero.

Non dimenticherò mai la risposta che Pietropolli Charmet diede proprio qui a Reggio ad un padre ex sessantottino che si lamentava per il mancato impegno del proprio figlio adolescente: “lei pensa che suo figlio non sia impegnato semplicemente perché guarda verso quel versante dell’impegno che era proprio della sua generazione, e non vede che magari l’impegno di suo figlio è da un’altra parte, ad esempio nel mondo del volontariato!”.

In base alla mia esperienza con i giovani volontari confermo quanto sostiene Charmet: il “profilo di carriera” del giovane volontario reggiano (ma penso che la cosa sia diffusa in tutta Italia) già fra i teenager non solo è molto ricco e variegato, ma anche assolutamente non ideologico, e soprattutto sempre più equilibrato rispetto all’appartenenza di genere.

Per questi giovani la vecchia distinzione fra care giver donne che si prendono direttamente cura dei casi loro affidati e uomini che si limitano ad organizzarla comincia a non avere più un gran senso.

Le ragioni di questo importantissimo rimescolamento di carte sono molteplici e, magari, cercheremo di vederle un’altra volta: ciò che conta – intanto – è cogliere questo elemento di novità che ritroviamo anche nei giovani dei centri sociali; elemento che è qualcosa di nuovo rispetto allo stile sessantottino di vivere le differenze di genere (gli uomini a “fare politica” e le donne come “angeli del ciclostile”, si diceva allora).

Un altro fatto nuovo, altrettanto importante, che emerge dai dati sul volontariato giovanile reggiano di questi ultimi anni è quello che si riferisce alla propensione alla cura da parte dei giovani immigrati di seconda generazione, legato essenzialmente a ragioni di tipo riparativo, cioè come tentativo di risarcimento nei confronti dei propri genitori e di chi si è preso cura di essi.

Insomma questi giovani non hanno i nostri interessi, s’impegnano per altre ragioni, non sono come noi li vogliamo, non fanno le nostre letture (ma non è vero che non leggono!), e non si schierano. Stanno vicini gli uni agli altri senza preoccuparsi di ciò che gli amici pensano politicamente. Girano il mondo come globetrotter, e quando entrano nel mondo del lavoro si appuntano al petto “medaglie” incomprensibili che un po’ mi fanno incazzare: Art director, screenwriter;  director of .. ; custoder care ..; founder at, etc. etc. (vedi Linkedin) –

E di fronte a queste due specie di giovani impegnati – che però alla fine, nonostante il loro francescanesimo, oggi come ieri passano gran parte della propria adolescenza cazzeggiando come tutti – quelli realmente disimpegnati. Più eterodiretti rispetto ai loro omologhi degli anni ‘70, poiché forgiati da media sempre più intrusivi e pervasivi che li plasmano fin dalla nascita, e tendono a “fotterli”: cioè a renderli sempre meno capaci di emendarsi una volta che da essi sia stata superata le linea d’ombra che separa l’adolescenza dall’età adulta. Speriamo non per sempre, e questa speranza è fondata sul fatto che molti finora ce l’hanno fatta.

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