Per la rinascita del welfare reggiano

Dino Angelini

Reggio Emilia, 29.6.18

A mio modo di vedere 4 sono i vettori attraverso i quali fin dagl’inizi della seconda repubblica i dirigenti eredi del PCI e quelli eredi della DC hanno preso ad operare nel nuovo centrosinistra locale reggiano, e di fatto a minare e ad estirpare per fini di parte le radici storiche della città:

1- la speculazione edilizia che è andata cementificando la città, incanalandola sempre più in una vera a propria situazione di stress ecologico, oltre che di grave rischio da un punto di vista della legalità!

2- la finanziarizzazione dell’economia ed il suo allontanamento sia dall’economia reale che dal nostro territorio, che a Reggio da qualche tempo vede come protagoniste perfino le coop, che in questo modo si vanno sempre più allontanando dalla loro funzione di ammortizzatori sociali. Ciò ha determinato una profonda discontinuità con quello che fu negli anni ‘70 il comportamento dei protagonisti del boom economico emiliano e reggiano di allora che – non dimentichiamolo – reinvestivano nell’innovazione e nella produzione locale.

3- l’assalto ai beni comuni, che ha in Iren il suo caposaldo, e che consiste essenzialmente nella  finanziarizzazione dei servizi e nella privatizzazione dell’acqua in tandem con l’alta finanza.

4- E da ultimo la sostanziale privatizzazione del welfare locale trasformato in affare e in fabbrica di clientele elettorali, a partire dalla famosa intesa con il privato nelle scuole dell’infanzia, cui sono seguite la privatizzazione dei servizi sociali e sanitari dati in pasto alle coop sociali laiche e clericali o – di fronte ad alte spese iniziali per il capitale fisso – al privato profit. Per giungere più di recente  alle ASP (Aziende di Servizi alle Persone), etc. –

Nota: uso il termine ‘clericali’ e non ‘cattoliche’ perché so che ci sono dei cattolici, delle parrocchie, delle associazioni religiose che non sono affatto coinvolte all’interno di questi traffici e che svolgono un’opera altamente meritoria e incentrata – come direbbe Godbout – sul sistema del dono.

Ho lavorato per oltre 40 anni all’interno del welfare reggiano per cui, lasciando ad altri il compito di ripensare su come ridefinire il tessuto urbano della città, rilanciare l’economia e ripubblicizzare l’acqua, cercherò di dire due parole più precise sulla nascita, l’ascesa e l’eclissi del modello reggiano di welfare, e cercherò di abbozzare qualche spunto su come farlo rifiorire: qualche spunto perché  le soluzioni vere per un necessario radicale cambiamento non possono essere cercate nella mente dei singoli, ma in quella mente collettiva che è costituita da un movimento reale mano a mano che procede nel proprio operare.

Il welfare reggiano nasce essenzialmente sulla base di una serie di spinte convergenti, di movimenti collettivi che perseguono fini non dico identici, ma almeno parzialmente sovrapponibili. Spinte che  per tutto il periodo in cui partono le lotte e le prime sperimentazioni  vedono il PCI reggiano fare da collante che tiene insieme questo insieme multiforme di spinte (la figura di Renzo Bonazzi penso sia la più significativa su questo piano).

Nel nostro caso la prima e più significativa spinta è quella che fin dagli anni ’50 viene dal movimento femminile comunista (l’Udi! e la lotta per le scuole per l’infanzia comunali, contro l’Onmi, etc.).

Segue l’opera del primo centrosinistra -quello che istituisce le Provincie e Regioni, per comprenderci- all’interno del quale si trasfondono in gran parte, istituzionalizzandosi, le istanze che nel decennio precedente avevano caratterizzato le lotte del movimento femminile comunista; istanze che si affermano grazie alla tenacia di alcune grandi figure di amministratrici (Velia Vallini, Ione Bartoli, Loretta Giaroni, e la socialista Lidia Greci, per fare alcuni nomi più significativi), il cui operato veniva spesso sottovalutato dagli stessi compagni di partito presenti nelle istituzioni.

Segue infine il multiforme movimento del ’68 reggiano che vede una nuova generazione prevalentemente di donne impegnarsi dapprima nell’opera di trasformazione delle colonie da luoghi a valenza socio-assistenziale in centri di libertà e sperimentazione di tipo educativo, nella lotta contro il manicomio, nella battaglia per l’istituzione del tempo pieno, etc. – Ed in un secondo momento per dare vita alle prime istituzioni del welfare reggiano, insieme a quel gruppo di amministratori ed amministratrici accorte che erano state le protagoniste delle lotte del decennio precedente.

Nascono e si sviluppano in questo modo dei servizi universalistici, pubblici e gratuiti: Il Centro d’Igiene Mentale (CIM) di Giovanni Jervis (che la Vallini convince a venire a lavorare a Reggio), le Scuole dell’infanzia e gli asili nido comunali, il tempo pieno in scuola elementare, la medicina del lavoro, e da ultima un’assistenza in gran parte pubblicizzata, e perciò liberata da lacci e lacciuoli che la tenevano ancorata al privato.

Tutti questi centri di libertà e sperimentazione, erano fortemente embricati fra di loro, fino a formare insieme una vera e propria rete di reti territoriale, fortemente innervata al proprio interno, ed in stretto rapporto con le famiglie.

E in questa rete di reti nasce, si forma e si confronta continuamente con tutti gli altri operatori degli altri nodi del sistema territoriale un nuovo operatore territoriale, che è pubblico e che da un certo punto in avanti entra in rapporto e si confronta anche con il decentramento amministrativo dal quale nascono i Quartieri. Per farvi capire: ‘in quel tempo’ io ero lo psicologo dell’equipe territoriale dell’evolutiva di Canalina, in rapporto quotidiano – lì, in quartiere! – con un’assistente sociale dell’Ausl, con un NPI (che operava anche in altre equipe), una logopedista, una fisioterapista, i Direttori Didattici delle elementari e Presidi delle medie, con le pedagogiste delle materne e dei nidi, con  il Presidente del consiglio di Quartiere (Anselmo Morsiani!) e perfino con i vigili urbani! Insieme ci interessavamo dei ‘casi’ del quartiere, delle esigenze formative di tutti noi, dell’analisi dei bisogni e della prevenzione. In una parola: della programmazione.

Affinché il lettore comprenda a pieno la rilevanza che il welfare assunse in quegli anni per classe operaia, per le famiglie dei lavoratori, per le donne e, più in generale, per fasce deboli, va (ri)detta con forza una cosa alla quale pochi ormai fanno caso: e cioè al fatto che la presenza di un welfare gratuito ed universalistico non è importante solo per l’insieme di questi aiuti concreti e mirati verso le fasce deboli, ma è importantissimo anche per il salario indiretto che crea, cioè per quell’aiuto che fa sì che che il salario nominale in busta paga poi pesi di più; ciò spiega – affermavano gli economisti progressisti in quegli anni – il fatto che la dinamica dei salari in Emilia in quel tempo era un delle più basse d’Italia. Quindi il welfare, sommandosi con il suo salario indiretto all’azione di reinvestimento e nell’innovazione in loco da parte degli industriali protagonisti del boom economico emiliano e reggiano di allora, contribuiva allo sviluppo economico, alla prosperità ed anche alla pace sociale del territorio, riducendo al minimo i conflitti di lavoro.

Ed è chiaro -spero- anche il contrario! E cioè che oggi la privatizzazione, la tikettazione dei servizi e dei medicinali, le lunghe liste d’attesa che spingono al privato convenzionato, etc. si coniughino in maniera così perversa con la precarizzazione del lavoro da trasformare quelle che erano le tutele ed i vantaggi di una volta nel loro esatto contrario!!

Per quanto riguarda infine  le linee di tendenza per una rinascita -ripeto- per ora dobbiamo accontentarci, come Pollicino, di alcune briciole che segnino il tracciato di una strada che solo un movimento reale e collettivo può costruire. Per quanto riguarda il welfare esse sono a mio avviso queste: Ri-pubblicizzare e ri-territorializzare e ri-embricare innanzitutto: ma questa, che sembra un qualcosa di simile alla richiesta per l’acqua pubblica, nel nostro caso è molto più difficile a farsi, per molti motivi.

Innanzitutto per quanto riguarda la sanità e la psichiatria occorre essere consapevoli che la partita in gran parte è in mano alla Regione: quindi bisogna sapere far pressione sulla Regione, e magari ‘prenderla’ alla prossima tornata. E questo ci fa capire come un movimento che si limiti ad una presenza solo nei ‘municipi’ non è assolutamente in grado di influire sulle politiche sanitarie, e più in generale di orientare il cambiamento extra-moenia.

Per quanto riguarda invece nidi e scuole per l’infanzia sul tappeto a mio avviso ci sono due opzioni: o si continua com’è avvenuto finora, sapendo però che coloro che hanno più bisogno (i figli dei migranti) oggi vanno alle materne statali per via delle rette!! E allora occorre fortificare  in tutti i sensi l’intervento delle statali. Oppure le Comunali tornano al mandato compensativo che era al fondo delle lotte che l’UDI intraprese negli anni ’50, e che Malaguzzi e Loretta Giaroni poi realizzarono: permettere ai figli delle classi più deboli di giungere in scuola elementare su un piano di maggiore parità – soprattutto sull’apprendimento dell’italiano scolastico – con i figli provenienti dalle upper class! ma allora deve essere chiaro che bisogna ribaltare il tutto a partire dalle rette e smettendola di sostenere le private mano a mano che scadono i tempi delle varie convenzioni!

Per l’area socio-assistenziale infine è decisivo a mio avviso re-internalizzare evitando i doppioni, tagliando le consulenze esterne e smettendola di fare da portatori di borraccia alle cooperative sociali, che per rimanere sul mercato dovrebbero garantire un livello qualitativo alto, una stabilizzazione del personale, e soprattutto ridursi ad una dimensione che non ostacoli la nascita di realtà concorrenti, evitando e punendo accordi di cartello oligopolistico.

E poi dappertutto occorre spazzar via le vecchie dirigenze, quelle che nel pubblico sono venute meno ai loro compiti attraverso l’appalto al privato o addirittura  con la chiusura dei servizi. E questo può essere fatto solo da un movimento reale capace e coraggioso.

Infine sullo sfondo – come mi diceva anche il Sindaco Bonazzi – direi che rimane insoluto il problema della finanza locale: non si è mai visto (dicevano gli studiosi del welfare di una volta) un welfare che non sia legato alla esazione dei tributi da parte dei comuni (con ovviamente le necessarie compensazioni a favore dei territori più deboli) perché il contribuente deve sapere quale uso abbiano fatto  gli amministratori locali delle proprie tasse, e perchè l’esazione fiscale a livello municipale è uno dei pochi presupposti a partire dai quali possa rinascere il “salario indiretto”.

I più anziani fra noi ricorderanno che questo tema agli esordi delle seconda repubblica fu colpevolmente consegnato dalla sinistra ai leghisti che ne hanno fatto un motivo di egoismo sociale e di esasperazione delle particolarità: è giunta l’ora di reclamare questo decentramento, e di disciplinarlo sotto il segno della solidarietà e del superamento degli squilibri territoriali. Ma anche questo decentramento fiscale, che pure è un’istanza tipicamente municipalista, può avvenire solo in sede centrale, cioè in Parlamento.

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