Le clientele e le mafie

Dino Angelini

2.5.12

 

Nella mia terra d’origine – la Murgia dei Trulli, in Puglia – per definire l’appartenenza di un determinato individuo ad una clientela si dice: “Kùre jé da còscie”, che letteralmente si traduce “Quello è della coscia”, ma che a senso sarebbe: “Costui appartiene ad una clientela”. Cioè in termini figurati “la coscia” sta per “la clientela”.

Questa condizione, laddove imperano le clientele, lo mette “N’ pìtte à Krìste” (“in petto a Cristo”, cioè al sicuro) e lo distingue da colui o colei che, non appartenendo ad alcuna clientela “sté a i pìte de Kriste”, “sta” cioè “ai piedi di Cristo”, in preghiera, come un qualsiasi moderno “precario”, che – come dice l’etimo – ottiene per preghiera e non per diritto!

A prima vista l’appartenenza ad una clientela non ha nulla a che vedere con l’appartenenza ad una cosca, ad una mafia, ad un gruppo delinquenziale organizzato.

E invece, a ben vedere, fra “coscia” e cosca, fra clientele e mafie nel tempo i rapporti di vicinanza e – direi – di contiguità tendono a diventare sempre molto più complessi e ramificati di quanto si sia portati a credere.

Anzi, tutti i grandi meridionalisti – da Giustino Fortunato a Roberto Saviano – hanno posto in evidenza come spesso il tessuto clientelare (insieme al familismo amorale, suo fratello gemello) rappresenti l’humus sul quale prima o poi s’impianta l’ordito mafioso.

Pensavo a questo il 25 aprile ascoltando i nostri rappresentanti che, alquanto superficialmente a mio avviso, opponevano la legalità alla mafia; e sottolineavano l’esigenza di alzare la guardia contro questo pericolo che nella loro immaginazione deriverebbe da fuori.

Pensavo a questi costumi della mia terra (“amara e bella”, come diceva la straziante canzone dei nostri migranti) e mi dicevo “non è vero!”. Non è vero perché il pericolo è esterno, ma è anche interno.

La precarizzazione del lavoro da una parte, i livelli altissimi di discrezionalità con cui nel pubblico – dalla Legge Bassanini in poi – vengono fatte legalmente le assunzioni e legalmente assegnati gli appalti dall’altra, ed il conseguente scempio del merito che viene fatto un po’ dappertutto, creano una miscela venefica che giorno dopo giorno va corrompendo le coscienze di tutti, e dei giovani in particolare.

L’alternativa anche qui è sempre di più fra il porsi come precario ai piedi di Cristo per pietire un posto (mai sicuro, peraltro) o aggregarsi ad una clientela mettendo a tacere dentro di sé ogni istanza critica, che invece dovrebbe essere il sale dell’impegno e del lavoro.

Ed è sulla corruzione delle coscienze, sull’abitudine a stare in riga e a non fiatare che passa, o almeno che rischia di passare anche qui prima o poi un qualche legame fra “coscia” e cosca. Ed a quel punto tutto diventa più difficile poiché il cancro ha creato le proprie metastasi.

Leggevo in questi giorni una interessantissima intervista ad Andrea Carandini – presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Avevo in memoria un Carandini molto più radicale: si vede che la vecchiaia e l’ufficialità dell’incarico lo hanno reso più cauto e moderato.

Ma una cosa mi ha colpito e mi è venuta in mente scrivendo queste note: il suo biasimo per il vero e proprio attentato al merito che lui – come me – ritrova un po’ dappertutto in Italia.

Ecco! Basterebbe ritornare al merito per mettere in soffitta le clientele e togliere l’acqua di coltura alle cosche.

 

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